Memoria e impegno contro le mafie

Un'immagine dell'incontro organizzato a Bari da Libera, prima della riflessione in cattedrale (Arcieri)

Un’immagine dell’incontro organizzato a Bari da Libera, prima della riflessione in cattedrale (Arcieri)

La bellissima Cattedrale di San Sabino di Bari, ieri sera era piena di dolore, memoria e impegno. Erano più di cinquecento i familiari di vittime innocenti delle mafie, radunati da Libera in occasione della XXIII Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, che si terrà il 21 marzo in migliaia di città e paesi, e che avrà come luogo principale Foggia col titolo “Terra, solchi di verità e di giustizia”. Una scelta forte, per richiamare l’attenzione su una mafia purtroppo trascurata, sottovalutata, che la scorsa estate è arrivata su tutti i giornali con la strage di San Marco in Lamis quando oltre a due mafiosi vennero uccisiLuigi e Aurelio Luciani, due fratelli agricoltori che nulla avevano a che fare col mondo criminale. La grande manifestazione del primo giorno di Primavera ha un prologo nell’incontro dei familiari, sabato e domenica, momento forte di testimonianze, storie, riflessioni.

«Quello che abbiamo ascoltato ci obbliga all’impegno di responsabilità – ha commentato al termine Nando Dalla Chiesa, figlio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e presidente onorario di Libera –. Una responsabilità a contrastare le inerzie, anche delle istituzioni. Troppe volte, ben il 75%, non si sa chi ha ucciso e chi ha mandato a uccidere. C’è una domanda di giustizia ancora non soddisfatta. Per questo siamo tenuti a difendere la memoria, a coltivarla, a perpetuarla. La memoria non è data per sempre».

Ed è anche la memoria di tante vittime della “lupara bianca” del Foggiano. «In questi mesi – ha ricordatoDaniela Marcone vicepresidente nazionale di Libera e figlia di Francesco Marcone, direttore dell’ufficio del registro di Foggia, ucciso il 31 marzo 1995 – abbiamo incontrato tante madri di giovani fatti scomparire. Che si appellano alle donne dei mafiosi per poter avere almeno i resti dei figli».

Dopo queste forti parole ci si è spostati nella Cattedrale, la parrocchia di Bari vecchia, quartiere simbolo del potere dei clan mafiosi, ma anche del riscatto, come l’oratorio di strada del parroco don Franco Lanzolla o le iniziative per le persone più fragili e dimenticate. Qui si è svolta la veglia di preghiera, «cui teniamo tantissimo – ha sottolineato Daniela Marcone – perché è il momento del raccoglimento e della spiritualità». E del ricordo. È stato così letto l’interminabile elenco di 972 vittime innocenti, dall’inizio dello scorso secolo agli ultimi nomi come Anna Rosa Tarantino, la donna uccisa il 30 dicembre a Bitonto dai proiettili destinati a un giovane mafioso, sparati da altri mafiosi arrestati proprio ieri. I nomi delle vittime hanno fatto da contrappunto alle preghiere.

Ad aiutare tre letture molto intense. Un brano dello scrittore ebraico Zvi Kolitz, che racconta il dramma del ghetto di Varsavia e della Shoa. Rabbia e fede assieme. «Concedimi Dio, prima di morire, ora che in me non vi è traccia di paura e la mia condizione è di assoluta calma interiore e sicurezza, di chiederti ragione, per l’ultima volta nella vita. Muoio tranquillo, ma non appagato, colpito, ma non asservito, amareggiato, ma non deluso, credente ma non supplice, colmo d’amore per Dio, ma senza rispondergli ciecamente amen».

Poi le parole di speranza di don Primo Mazzolari. «Il cristiano è un “uomo di pace” non un “uomo in pace”: fare la pace è la sua vocazione. La verità senza la carità è una “pietra d’inciampo”. La giustizia senza la carità è un nodo scorsoio che tutti credono di avere il diritto di tirare. Dare la pace ai morti è l’impegno di Dio: fare la pace coi vivi è un nostro impegno».

Infine, sono risuonate le parole di impegno di don Tonino Bello. «Il popolo della pace non è un popolo di rassegnati. Coraggio! Non dobbiamo tacere, braccati dal timore che venga chiamata “orizzontalismo” la nostra ribellione contro le iniquità che schiacciano i poveri. Gesù Cristo, che scruta i cuori e che non ci stanchiamo di implorare, sa che il nostro amore per gli ultimi coincide con l’amore per lui».

Brani che ben rappresentano la vita dei familiari delle vittime di mafia. Quel dolore che si fa memoria e impegno. Come conferma la preghiera che ha chiuso la Veglia. «Dio della pace, non ti può comprendere chi coltiva la morte, non ti accoglie chi ama la violenza: a coloro che seminano pace e a chi coltiva giustizia tra i rovi delle violenza dona la forza della perseveranza, perché chi ostacola il percorso della verità sia sanato dall’odio che lo tormenta, e tutti finalmente possiamo ritrovarci in Te, che sei la vera pace». La preghiera è salita nelle altissime navate della Cattedrale. La memoria delle storie, l’impegno delle vite.

avenire

Bologna, in marcia accanto alle vittime di mafia

In 150mila attraversano le vie di Bologna. Sono i partecipanti alla XX Giornata della memoria e dell’impegno promossa da Libera e Avviso pubblico. In testa cinquecento familiari delle tante vittime innocenti delle mafie. Portano un grande striscione con la scritta “La verità illumina la giustizia”. Quella verità e quella giustizia “che moltissimi di loro ancora non hanno avuto”.

Sono madri, padri, figli, fratelli, sorelle. Molti portano le foto dei loro cari, strappati dalla violenza mafiosa. Subito dietro l’enorme bandiera multicolore della pace portata da ragazzi napoletani, alcuni del circuito penale.

“Un ponte tra noi e Napoli che oggi accoglie papa Francesco che lo scorso anno volle incontrare a Roma i familiari delle vittima di mafia, consegnandoci parole indimenticabili”.

Il corteo scorre ordinatamente grazie all’impegno dei tantissimi volontari, moltissimi scout dell’Agesci, mentre gli altoparlanti diffondono i nomi di migliaia di vittime delle mafie e quest’anno anche delle stragi del terrorismi, stazione di Bologna, treno Italicus, Ustica. Anche loro senza verità e giustizia.

Le storie
«Mamma sono 25 anni che mi dice: “Salvo, quando sapremo chi è stato?”. Non posso dirle di rassegnarsi. Non lo accetterebbe e non lo accetto io. Il primo diritto di un familiare di una vittima di mafia è sapere la verità. Per dare un senso al perché la tua vita è stata massacrata». Così si sfogaSalvatore, figlio di Francesco Vecchio, manager catanese, ucciso a 52 anni il 31 ottobre 1990. Uno dei tanti omicidi senza colpevoli. «Il 70% dei familiari di vittime di mafia non sa la verità o ne sa solo una parte – denuncia don Luigi Ciotti – eppure sono, alla marcia di Bologna, con le loro fatiche e le loro speranze proprio per chiedere verità».

Una verità che cerca ancora Mario Congiusta, papà di Gianluca, ucciso a Siderno nel 2005 ad appena 32 anni. «Senza la verità resta solo il dolore. No, non provo odio. Per questo vado in carcere a incontrare i detenuti, perché non succeda mai ad altri quello che è successo a me. Neanche all’assassino di mio figlio. L’avermi strappato un pezzo di cuore mi dà questa forza. E questo mio comportamento mette un tarlo in queste persone».

Quanta forza, malgrado l’immenso dolore. Come quello di Vincenzo Agostino. «Noi cerchiamo verità, non vendetta. La verità su chi mi ha tolto il bene di un figlio, di una nuora, di un bambino che non ho mai conosciuto». Era il 5 agosto 1989 quando a Villagrazia di Carini venne ucciso a 28 anni l’agente di Polizia Antonino Agostino con la moglie Ida, 19 anni, incinta di 5 mesi. Da allora Agostino non si taglia né barba né capelli, «fin quando non avrò verità. Mio figlio aveva giurato fedeltà allo Stato, che invece alcune mele marce hanno tradito. Per questo siamo qui a Bologna, tante mamme e papà».

Ma anche sorelle come Susy Cimminiello. Il fratello Gianluca è stato ucciso nel 2010 a Casavatore. Pochi giorni fa l’assassino è stato scarcerato per decorrenza dei termini. «Io rispetto il diritto dell’accusato – dice Susy con voce tremante – ma cosa prevede la legge per le vittime? Quanto deve essere lungo il tempo per avere giustizia soprattutto quando si sa la verità? Ho due figli, avevo il diritto di vivere da mamma, da sorella, da cittadina e invece devo correre dietro ai processi».

Dolore e impegno. «Vogliamo una giustizia veloce per chiudere una pagina brutta e poter aiutare gli altri affinchè non accada più». C’è chi verità e giustizia l’ha avuta e da questo parte il suo impegno. Matteo Luzza sa chi ha ucciso e perché suo fratello Pino, 22 anni, nel 1994 ad Acquaro. «Un senso alla morte violenta non si riesce a dare mai, ma la verità mi dà più forza. Mi ritengo fortunato e per questo ora ho il dovere di essere accanto a chi la verità non l’ha avuta». E si va avanti. «Non puoi solo puntare il dito – riflette Salvatore Vecchio –. Sono una vittima ma anche cittadino e padre e ho il dovere di dare il mio impegno per quei valori per i quali mio papà è morto».