Tendenze. Così si attirano i talenti in azienda

Oltre otto lavoratori su dieci (82%) si dicono più propensi a scegliere un datore che offra opportunità di formazione e sviluppo costanti. Il nuovo Patto per il lavoro della Regione Toscana
Un premio a chi attira giovani talenti

Un premio a chi attira giovani talenti – Radar Academy

avvenire.it
L’attuale contesto storico che vede l’economia italiana in fase post-Covid, con l’inflazione in aumento e la prospettiva di una ulteriore flessione economica, spinge molte aziende a preservare il proprio personale, anche a causa della carenza di nuovi talenti in molti settori e del blocco delle assunzioni. In questo scenario in cui molte imprese tentano di sopravvivere e non sono in grado di aumentare i salari ai loro dipendenti per far fronte al caro-vita, investire in attività di formazione potrebbe essere tra i migliori strumenti per fidelizzare e trattenere le persone, generando un ritorno positivo, come rivela la ricerca condotta da Docebo. In particolare, in Italia oltre otto lavoratori su dieci (82%) si dicono più propensi a scegliere un datore che offra opportunità di formazione e sviluppo costanti. Inoltre, sei lavoratori su dieci (61%) dichiarano di essere disposti a cambiare il proprio lavoro entro 12 mesi, se l’attuale datore di lavoro tagliasse (o non offrisse) opportunità di apprendimento o di formazione essenziali per la crescita e lo sviluppo della loro carriera. Complessivamente, alle domande relative alle possibili motivazioni per le quali sarebbero disposti ad abbandonare l’attuale posto di lavoro, i dipendenti hanno indicato come principali cause: la retribuzione insufficiente (78%), una cattiva gestione aziendale (52%) e le scarse opportunità di crescita professionale (45%). Se, da un lato, la retribuzione resta un fattore fondamentale, dall’altro, la mancanza di manager preparati, la carenza di nuovi talenti e la conseguente insufficienza di personale mettono sotto pressione i team, portando a possibili fughe dall’azienda. Inoltre, un quarto dei lavoratori intervistati (25%) ha indicato la “cultura aziendale debole” come ulteriore fattore che li spingerebbe a cambiare lavoro. Implementare, quindi, una cultura aziendale basata sulla formazione continua potrebbe essere una valida strategia per ridurre il turnover del personale, anche quando l’aumento salariale non è possibile. Dalla ricerca, inoltre, emerge che i millennial siano molto attenti alle politiche formative: otto intervistati su dieci (83%) affermano di essere più propensi a scegliere un datore di lavoro che offra opportunità di sviluppo e apprendimento continue, rispetto al 79% dei Gen z. Un altro dato interessante è la risposta dei Gen z (per il 66%) e dei millennial (per il 65%) che si dichiarano maggiormente favorevoli, rispetto ai lavoratori baby boomer (per il 55%), a prendere in considerazione il licenziamento nel caso in cui il datore di lavoro tagliasse gli investimenti in formazione. Anche secondo la III edizione della ricerca Global Workforce of the Future di The Adecco Group, oltre un quarto (27%) dei lavoratori cercherà di cambiare lavoro nei prossimi 12 mesi. Tra le cause di questo fenomeno, lo stipendio rappresenta il principale motivo per cui i lavoratori decidono di cambiare occupazione. In Italia, il 61% dei dipendenti ritiene infatti che il proprio salario non sia sufficiente per affrontare l’aumento dei prezzi dettato dall’inflazione. Una situazione comune in tutto il mondo, che comporta, in diversi casi, il ricorso ai pagamenti in nero (35%), la ricerca di un secondo lavoro (51%) o di un nuovo lavoro che abbia uno stipendio più alto (49%). Per trattenere i talenti nel 2023 e oltre, però, lo stipendio da solo non basta: le aziende devono mettere al centro le persone e garantire regimi di lavoro flessibili, offrendo ai lavoratori un equilibrio più sano tra lavoro e vita privata. I dipendenti italiani, in particolare, sono propensi a rimanere in azienda quando si sentono soddisfatti del proprio lavoro (40%), percepiscono una certa stabilità (38%) o un buon equilibrio tra vita lavorativa e privata (35%). Infatti, a svolgere un ruolo importante anche nella ricerca di un nuovo lavoro è proprio la richiesta di maggiore benessere: il 75% dei rispondenti predilige datori di lavoro interessati a questo aspetto. I dati dell’analisi hanno inoltre evidenziato che, tra chi prevede di mantenere il proprio impiego, quasi la metà lo farebbe a patto di ottenere una progressione di carriera. Malgrado ciò, quasi un quarto della forza lavoro (il 23%) non ha mai ottenuto un confronto su questo tema con il proprio datore di lavoro. L’indagine evidenzia anche l’ascesa dei quitfluencer. Più di due terzi dei lavoratori (70%) prendono in considerazione l’idea di licenziarsi se vedono altri farlo, mentre il 50% si dimette effettivamente. Tali iniziative permetterebbero, inoltre, di contenere il cosiddetto “effetto domino” che colpisce in maggior misura le giovani generazioni, che hanno il 25% di probabilità in più di essere influenzate dai colleghi ad abbandonare il posto di lavoro. Le aziende devono perciò concentrarsi sempre di più su soluzioni valide di fronte a questa situazione di forte instabilità: investire in iniziative di formazione e avviare percorsi di upskilling e reskilling diventa importante per incrementare la competitività sul mercato e, al contempo, favorire la crescita professionale dei dipendenti, contenendo così il tasso di dimissioni. Le grandi dimissioni hanno portato alla luce anche il fenomeno del quiet quitting, letteralmente, in italiano, “dimissioni silenziose”, un’espressione diventata virale sui social network che sta a indicare il distacco mentale ed emotivo dal proprio lavoro. Il quiet quitting, la scelta consapevole di fare il minimo sindacale, non compare in alcuna statistica relativa ai tassi di abbandono del posto di lavoro, ma se non viene individuato può alimentare una cultura tossica in cui i lavoratori sentono di non potersi esprimere liberamente e, quindi, scelgono di non impegnarsi. Le aziende devono prestare attenzione a questa tendenza, creando una cultura proattiva basata sulla fiducia e sul dialogo e fornendo alle proprie persone spazi e strumenti adeguati grazie a cui sentirsi realmente ascoltati e coinvolti. Processi mirati, coaching e incentivi sono necessari per creare una cultura aziendale aperta all’ascolto e proattiva nei confronti della salute mentale e del benessere: solo attraverso conversazioni frequenti sarà possibile prevenire questo fenomeno. La necessità di incentivare questi sistemi di formazione e aggiornamento professionale nel nostro Paese è resa ancora più evidente dal fatto che, rispetto al 61% della media globale, solo il 46% della forza lavoro ritiene di essere in grado di trovare un nuovo impiego nell’arco di sei mesi. Siamo penultimi in questa statistica, molto lontani anche dagli altri Paesi europei: in Germania sono al 70%, in Spagna al 55% e in Francia al 53%. In questo senso il McKinsey Global Institute ha identificato tre strategie ottimali con cui le aziende possono coltivare i talenti:

1. Non trascurare le persone all’interno dell’organizzazione che hanno le potenzialità per un salto di qualità.

Le persone che vogliono reinventarsi spesso devono andare in un nuovo ambiente di lavoro per poterlo fare. Rispetto a coloro che già ricoprono ruoli tech, i lavoratori con un background non tech hanno quasi il 30% di probabilità in più di lasciare il loro attuale datore di lavoro per diventare system software developer. Dato che le aziende di solito pagano un premio per i talenti esterni e non possono sempre sapere se un candidato sarà adatto alla propria cultura interno, è ragionevole eseguire un reale inventario delle capacità già disponibili internamente, prima di cercare candidati esterni. I datori di lavoro possono trarre vantaggio da spostamenti più fluidi all’interno delle loro organizzazioni. Il posto migliore dove cercare persone con aspirazioni e potenziale non sfruttato è spesso all’interno. Investire in opportunità di apprendimento e sviluppo per persone che già conoscono l’azienda e che hanno dimostrato di essere brillanti e affidabili può essere una scommessa più sicura. L’elemento più importante è aiutare le persone ad acquisire un’esperienza più varia e creare una mobilità interna che consenta ai dipendenti di aggiungere nuove competenze e di cambiare rotta, così da mantenerne intatto l’entusiasmo e arginare il fenomeno del logoramento.

2. Avere più coraggio nelle assunzioni

È comune che le persone che assumono ruoli tech per la prima volta espandano il proprio set di competenze del 50%, per questo i datori di lavoro devono saper selezionare i candidati in base al loro potenziale, oltre che al loro passato. Dal momento che le competenze tecniche possono essere insegnate, ha senso ricercare il tipo di mentalità e le soft skills richieste dal ruolo. Gli strumenti digitali, comprese le opzioni gamificate per i test pre-assunzione, possono aiutare in questo tipo di valutazioni. I datori di lavoro possono anche utilizzare i dati sui predittori di successo, compresi i fattori che vanno oltre l’attuale lavoro del candidato. L’analisi dei profili dei candidati in relazione alla performance può aiutare un’organizzazione a perfezionare i criteri di assunzione.

3. Formare per trattenere talenti

Data la mobilità dei lavoratori del settore tecnologico, i datori di lavoro devono valutare la totalità di ciò che offrono ai dipendenti, e una delle componenti più importanti è l’opportunità di imparare. Approfondire ed espandere le competenze digitali dell’intera forza lavoro si traduce in produttività, innovazione e fidelizzazione. L’apprendimento può assumere la forma di corsi strutturati in presenza, adattati a specifiche gruppi di dipendenti, o di moduli di contenuti digitali a cui i dipendenti possono accedere autonomamente.

Partendo da queste considerazioni, la business school Radar Academy ha deciso di istituire il premio Company for generation Z per dare risalto alle aziende che stanno investendo attraverso politiche e pratiche a favore dei giovani della generazione Z. Lo scorso 21 ottobre sono state premiate a Milano le prime 47 aziende (classificate prima, seconda e terza per ciascuna della categorie individuate) che si sono distinte per aver realizzato piani concreti di valorizzazione dei giovani in dieci ambiti: il numero di assunzioni di giovani nati dopo il 1995; numero di stage attivati; percorsi e prospettive di carriera; welfare aziendale e benessere della persona; smart working e lavoro ibrido; percorsi di formazione; politiche di talent retaining; progetti con scuole, Università e business school; diversità e inclusione; responsabilità sociale e sostenibilità.

Il nuovo Patto per il lavoro della Regione Toscana

La Regione Toscana vara il nuovo Patto per il lavoro da 53,8 milioni di euro. Un pacchetto di nove misure di politica attiva finalizzate a favorire l’inserimento o il reinserimento nel mercato del lavoro, oltre che nuova occupazione: dagli assegni per l’impiego ad azioni a sostegno della fase di start up di impresa e voucher di conciliazione, da misure destinate a lavoratrici e lavoratori coinvolti in crisi aziendali a veri e propri incentivi all’occupazione. Questo pacchetto di misure è stato predisposto attraverso il metodo della concertazione, ampia e approfondita, con le parti sociali regionali e i soggetti presenti nella Commissione regionale permanente tripartita (organismo di rappresentanza previsto dalla legge regionale 32/2002). Il confronto si è inoltre allargato ai territori, attraverso tavoli provinciali che hanno visto il coinvolgimento delle parti sociali e la presenza del presidente di ciascuna Provincia. Il Patto fa tesoro della precedente esperienza del Piano Integrato per l’Occupazione, si integra con Gol – Garanzia Occupabilità Lavoratori – il programma nazionale di riforma delle politiche attive, ed il Piano Nuove Competenze, previsti dal Pnrr, con il Pon “Giovani Donne e Lavoro” e con la programmazione regionale Fse+ 2021/2027, ampliando quindi i possibili strumenti di politica attiva e le tipologie di destinatari raggiungibili. Le destinatarie e i destinatari degli strumenti previsti nel Patto sono prevalentemente persone iscritte allo stato di disoccupazione, residenti in tutto il territorio toscano, ed una particolare attenzione è stata rivolte a donne, giovani e soggetti vulnerabili, coloro che, in questa crisi, rischiano di restare ancora più indietro sul fronte occupazionale. Il piano include anche specifici interventi per alcune tipologie di occupati. La Regione punta a coinvolgere almeno 10mila persone. Entro la fine di dicembre sarà emanato il primo avviso che riguarderà gli incentivi per l’occupazione. Il Patto prevede di ripartire e assegnare risorse ad ogni territorio su base provinciale, tenendo conto della situazione economica, sociale e occupazionale dei territori e dell’eventuale presenza di aree di crisi complessa e non complessa e delle aree interne, secondo un modello definito da Irpet. Alle aree di crisi industriale complessa (Livorno e Piombino), non complessa (Massa Carrara) e regionale è stata assegnata una quota di risorse pari complessivamente al 25% dell’intero budget. In prima battuta è previsto lo stanziamento del 50% delle risorse totali disponibili, per consentire monitoraggi e valutazioni su riparti territoriali ed efficacia delle misure. Una sorta, quindi, di prima fase di sperimentazione, durante la quale assessorato al lavoro e Commissione regionale permanente tripartita potranno mettere in campo, se necessario, eventuali correttivi, superare, implementare o introdurre altre misure, anche alla luce dell’attuazione degli strumenti previsti dal Pnrr, della nuova programmazione Fse+ 2021/2027 e del mutato scenario socio-economico.

Digital Recruiting Week, pubblicato il calendario 2023

Pubblicato il 𝒄𝒂𝒍𝒆𝒏𝒅𝒂𝒓𝒊𝒐 𝟐𝟎𝟐𝟑 di 𝑫𝒊𝒈𝒊𝒕𝒂𝒍 𝑹𝒆𝒄𝒓𝒖𝒊𝒕𝒊𝒏𝒈 𝑾𝒆𝒆𝒌: i migliori eventi di recruiting ed employer branding per incontrare i giovani talenti a target dalle Università di tutta Italia. Sono tornati anche gli 𝙚𝙫𝙚𝙣𝙩𝙞 𝙞𝙣 𝙥𝙧𝙚𝙨𝙚𝙣𝙯𝙖, garantendo così un mix flessibile ed efficace per raggiungere gli obiettivi Hr.

Ecco gli eventi in presenza:

Milano: 22 marzo
Padova: 19 aprile
Napoli: 10 maggio
Roma Sapienza: 11 ottobre
Bologna: 8 novembre

E quelli digitali:

· Digital Recruiting Week Sales&Marketing: 6-10 marzo, 2-6 ottobre

· Digital Recruiting Week STEM: 20-24 marzo, 6-10 novembre

· Coding Challenge Week: 27-31 marzo, 3-7 luglio, 4-8 dicembre

· Coding Challenge Week SENIOR: 3-7 aprile, 10-14 luglio, 11-15 dicembre

· Digital Diversity Week: 17-21 aprile, 27 novembre-1 dicembre

· Digital Recruiting Week ENGINEERING: 22-26 maggio, 20-24 novembre

· Digital Recruiting Week LEGAL: 5-9 giugno

· Digital Recruiting Week EMPOWER GIRLS: STEM 19-23 giugno, open 23-27 ottobre.

Banca Ifis e Coni, borse di studio a giovani talenti

Per il secondo anno consecutivo Banca Ifis è a fianco del Coni per sostenere il percorso di crescita dei giovani campioni dello sport azzurro attraverso la donazione di borse di studio per un valore complessivo pari a 160mila euro. «Tutto nasce da un rapporto personale tra me e il presidente Ernesto Fürstenberg Fassio: è incredibile la sua attenzione verso il mondo dello sport. Ricordo ancora la sua chiamata dello scorso anno, mi chiese cosa avremmo potuto fare insieme avendo a disposizione dei fondi per lo
sport. Nacque l’idea di dare una borsa di studio a tutte le atlete e agli atleti che hanno vinto una medaglia mondiale under 18. Potrebbe sembrare la cosa più ovvia, ma non ci aveva mai pensato nessuno. Ernesto ha accolto con grande entusiasmo l’idea. Quest’anno la borsa di studio è di poco inferiore, un pochino mi spiace ma la ragione è semplice: nel 2022 abbiamo vinto più medaglie. Credo che tutte le ragazze e i ragazzi debbano essere grati per questa iniziativa: grazie Banca Ifis, da parte
nostra c’è riconoscenza assoluta», ha dichiarato il presidente del Coni Giovanni Malagò. «Siamo felici di proseguire il percorso iniziato lo scorso anno a fianco del Coni a sostegno dello sport italiano, aiutando i giovani atleti nel coniugare al meglio gli aspetti formativi e agonistici. Lo sport rappresenta un tratto distintivo del Dna di Banca Ifis che ci porta a sostenere iniziative meritevoli, sia in campo professionistico che amatoriale e giovanile. Proprio per questo motivo, consapevoli del nostro ruolo all’interno delle comunità in cui operiamo, abbiamo voluto presentare un approfondimento del nostro Osservatorio sullo Sport System italiano, che fa luce sulla straordinaria capacità che il settore giovanile ha di creare valore, economico e sociale, per il nostro Paese. Un futuro più sostenibile passa soprattutto dai giovani ed è nostro dovere sostenerli, insieme, attraverso partnership come queste in grado
di coinvolgere con successo realtà pubbliche e private», ha concluso Ernesto Fürstenberg Fassio, presidente di Banca Ifis.

Dedagroup Digital Academy, al via la Cyber & Operative Systems Edition​​

Si amplia l’offerta formativa della Dedagroup Digital Academy, la scuola di impresa rivolta a giovani di talento con età massima di 28 anni, creata da Dedagroup, polo di aggregazione delle eccellenze italiane del Software e delle Soluzioni As a Service (SaaS). Sono aperte le iscrizioni alla prima edizione della Cyber & Operative Systems Edition, programma pensato per favorire lo sviluppo dei professionisti di domani in ambito IT e Cloud, preparando i partecipanti ad affrontare con competenza e visione il sempre più strategico segmento della cybersecurity aziendale. Secondo il Clusit, l’Associazione italiana per la sicurezza informatica, nei primi sei mesi del 2022 sono stati oltre 1.100 gli attacchi cyber gravi, in crescita del’8,4% rispetto all’anno precedente per una media complessiva di 190 attacchi al mese – uno ogni quattro ore – e con un picco di 225 attacchi a marzo (conseguenza dell’invasione russa dell’Ucraina), il valore più alto mai verificato. Un problema questo, acuito anche dall’importante carenza di professionisti della cybersecurity. Secondo l’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale, infatti, a fronte di una grande richiesta da parte delle imprese, in Italia mancano 100.000 esperti. Da qui la volontà di Dedagroup di rispondere alle nuove esigenze del mercato, ampliando il proprio programma di Academy con un percorso di studi verticalizzato sui temi della Cybersecurity e degli Operative Systems. Cyber & Operative Systems Edition è un percorso di formazione full time e di training on the job della durata complessiva di sei mesi, rivolto a diplomati, laureandi e neolaureati in percorsi tecnico-scientifici o informatici con un buon livello di conoscenza della lingua inglese. Il programma, che prenderà il via il 9 gennaio 2023 e che offre ai partecipanti una concreta opportunità di inserimento all’interno del Gruppo, è declinato su aree specifiche – sicurezza informatica e sistemi operativi – e ha l’obiettivo di formare due figure professionali: i Cybersecurity Engineer, che supporteranno la costruzione e il perfezionamento della strategia di sicurezza, per instaurare un ciclo di azioni continuative per il suo miglioramento e per ottimizzare gli investimenti, e i System Engineer, che affronteranno temi relativi ai servizi, al supporto per la gestione, al monitoraggio, all’ottimizzazione dei sistemi IT infrastrutturali e dei principali database, sistemi operativi e virtual machine. La formazione in aula – erogata sia in modalità digital che fisica – sarà suddivisa in due fasi: la prima comune a tutti i partecipanti con focus legati al Project Management, alle Soft Skills e agli Economics aziendali. La seconda vedrà Cybersecurity Engineer e System Engineer coinvolti in due diversi percorsi di specializzazione professionale nei mondi del Networking e della Security By Design e nell’ambito dei sistemi operativi, come Windows Server e Linux. Cuore e valore aggiunto della Dedagroup Digital Academy è il percorso di training on the job, durante il quale i partecipanti potranno sperimentare sul campo la realtà lavorativa, interagendo con i colleghi nel quotidiano e scoprendo come nascono e si sviluppano le soluzioni software e i servizi Made in Italy di Dedagroup. Un ruolo chiave, in questo percorso, è svolto dalle Deda People che saranno coinvolte sia durante le sessioni teoriche, sia in qualità di coach nella fase di training on the job, promuovendo il trasferimento di know-how e la diffusione di valori, cultura ed esperienze: tutti elementi importanti per conoscere al meglio il proprio ruolo e assolverlo con passione, perché il successo di un’organizzazione si misura anche sulla soddisfazione delle sue risorse. I giovani che prenderanno parte alla Dedagroup Digital Academy – Cyber & Operative Systems Edition entreranno infatti a fare parte di un Gruppo che, oltre alla crescita delle proprie persone, ha a cuore il loro benessere e che è consapevole del proprio ruolo nel migliorare la società in cui opera. Durante il suo percorso di sviluppo, Dedagroup ha perseguito l’obiettivo dell’impegno sociale, proprio nella convinzione che la competitività si debba indissolubilmente accompagnare alla sensibilità etica e alla crescita sostenibile: principi, questi, che fanno saldamente parte della sua cultura aziendale. Recentemente, Dedagroup ha ottenuto la certificazione etica SA8000, la prima norma riconosciuta a livello mondiale che attesta l’implementazione di un’efficace Sistema di Gestione della Responsabilità Sociale nell’ambito dei diritti dei lavoratori e del loro benessere in azienda. Il Gruppo si impegna così a rispettare i più rigorosi standard di condotta etica e professionale nei confronti dei propri dipendenti, collaboratori e di tutti i referenti.

Censis: ecco l’Italia di oggi, malinconica e con la paura della guerra

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AGI – Un’Italia malinconica, agitata dalla paura della guerra e dall’inflazione, che costringe a erodere i risparmi e pagare le bollette in ritardo. Questo il ritratto che emerge dal cinquantaseiesimo rapporto Censis sulla situazione sociale di un Paese che, si legge nel testo, “vive in uno stato di latenza”.

“Il nostro Paese, nonostante lo stratificarsi di crisi e difficoltà, non regredisce grazie allo sforzo individuale, ma non matura”, sottolinea l’istituto, osservando che “l’Italia non cresce abbastanza o non cresce affatto” e “la macchina amministrativa pubblica è andata fuori giri e così non sarà in grado di trainare la ripresa”.

Un italiano su quattro a rischio povertà o esclusione

Nel 2021 gli individui soggetti al rischio di povertà o di esclusione sociale sono pari al 25,4% della popolazione, ovvero oltre uno su quattro. Gli individui a rischio di povertà o esclusione sociale sono per il 41,2% residenti nel Mezzogiorno (a fronte del 21% nel Centro, del 17,1% nel Nord-Ovest e del 14,2% nel Nord-Est), per il 33,9% sono appartenenti a famiglie in cui il reddito principale è quello pensionistico (a fronte del 18,4% e del 22,4% appartenenti a famiglie con reddito principale da lavoro dipendente o da lavoro autonomo) e per il 64,3% sono membri di famiglie che percepiscono ‘altri redditi’, dei quali 56,6% si qualifica anche come individuo a bassa intensità lavorativa.

Infine viene nuovamente superata la soglia del 40% nel caso di individui appartenenti a famiglie dove almeno un componente non è italiano (42,2%) o dove vivono tre o più minori (41,6%).

Nel 2021 le famiglie che vivono in condizione di povertà assoluta sono più di 1,9 milioni, il 7,5% del totale: un milione in più rispetto al 2019.

L’inflazione aumenta le disuguaglianze

Gli italiani temono la corsa dell’inflazione: oltre il 64% sta già mettendo mano ai risparmi per far fronte all’impatto dei rincari dei prezzi.

La quasi totalità degli italiani, il 92,7%, è convinta che l’accelerata dell’inflazione durerà a lungo e che bisogna pensare subito a come difendersi. Il 76,4% pensa che non potrà contare su aumenti significativi delle entrate familiari nel prossimo anno, il 69,3% teme che nei prossimi mesi il proprio tenore di vita si abbasserà (e la percentuale sale al 79,3% tra le persone che già detengono redditi bassi) e ben il 64,4% sta ricorrendo ai risparmi per fronteggiare l’inflazione.

L’indice armonizzato dei prezzi al consumo, ricorda il Censis, è aumentato nel primo semestre del 2022 del 6,7% rispetto al primo semestre del 2021. Nello stesso periodo, le retribuzioni contrattuali del lavoro dipendente a tempo pieno sono aumentate solo dello 0,7%. Ma l’inflazione non solo colpisce i redditi fissi o comunque tendenzialmente stabili nel medio periodo, aumenta anche la forbice della disuguaglianza tra le diverse componenti sociali: le famiglie meno abbienti si confrontano con un incremento medio dei prezzi pari al 9,8%, mentre per le famiglie più agiate l’aumento è del 6,1%, quasi 4 punti percentuali in meno.

Questo divario discende dalla diversa dinamica dei prezzi dei beni (alimentari e per la casa su tutti) che pesano in particolare sul carrello della spesa delle famiglie meno abbienti. Nell’ultimo periodo, tra il 2012 e il 2021, l’andamento dei prezzi riflette le conseguenze di una fase tendenzialmente deflattiva per l’Italia (in media 0,7% annuo), caratterizzata soprattutto da una moderazione salariale che ha di fatto rimosso qualsiasi rischio di innesco della spirale prezzi-salari. Ma, secondo il Censis, gli attuali livelli di inflazione – con punte di rialzo dei prezzi dei beni alimentari intorno all’11%, senza contare gli incrementi del 50% dei beni energetici – potrebbero incidere profondamente sul potere d’acquisto delle famiglie.

Lo spettro della crisi energetica

La crisi energetica è la principale fonte di preoccupazione per le famiglie italiane, emerge ancora dal rapporto: per il 33,4%, e la percentuale arriva al 43% tra le famiglie in una bassa condizione socio-economica, le più colpite dall’aumento dei costi incomprimibili.

Il 6,5% delle famiglie italiane era in ritardo con il pagamento delle bollette (dato in linea con la media europea) nel 2021. Ancora più numerosi sono coloro che affermano di non riuscire a riscaldare adeguatamente la propria abitazione: l’8,1% delle famiglie, un dato superiore di 1,2 punti percentuali al dato europeo.

Il timore di una guerra mondiale

Il 61,1% degli italiani teme che possa scoppiare un conflitto mondiale e il 57,7% che l’Italia possa entrare in guerra, si legge nel rapporto, secondo il quale il 66,5% degli italiani, 10 punti percentuali in più rispetto al 2019 pre-Covid, si sente insicuro.

I principali rischi globali percepiti sono: per il 46,2% la guerra, per il 45,0% la crisi economica, per il 37,7% virus letali e nuove minacce biologiche alla salute, per il 26,6% l’instabilità dei mercati internazionali, dalla scarsità delle materie prime al boom dei prezzi dell’energia, per il 24,5% gli eventi atmosferici catastrofici, come temperature torride e precipitazioni intense, per il 9,4% gli attacchi informatici su vasta scala.

“Finita l’era delle sicurezze, prevale il nichilismo”

“La malinconia definisce il carattere degli italiani, il nichilismo. E’ la fine dell’era dell’abbondanza e delle sicurezze”, ha detto Massimiliano Valerii, direttore generale del Censis, nel corso della presentazione del rapporto. Una malinconia, ha spiegato, che “corrisponde alla coscienza della fine del dominio dell’Io sugli eventi del mondo, l’Io che è costretto a confrontarsi con i propri limiti quando è costretto a relazionarsi con il mondo”. Situazione che deriva da questi ultimi 3 anni “straordinari” che hanno visto eventi eccezionali che vanno dalla pandemia alla siccità fino al caro bollette e alla guerra, “i grandi eventi della storia che si è rimessa in moto e con cui dobbiamo relazionarci”.

“Se quella del 2020 non sembra un’Italia sull’orlo di una crisi di nervi – ha concluso – oggi invece si paga un prezzo dell’irruzione della storia nelle nostre piccole storie e quei meccanismi proiettivi hanno perso presa sulla società e forza di orientamento nei comportamenti collettivi”.

Paese di Neet, non di laureati Italia più distante dall’Europa

In Italia i giovani che non studiano e non lavorano, i Neet, aumentano a un ritmo maggiore rispetto ai laureati.

E questo alimenta il circolo vizioso della povertà educativa che diventa anche povertà economica. L’allarme sul futuro delle nuove generazioni, peraltro non nuovo, è stato rilanciato ieri da Save the children e Fondazione Agnelli, che hanno presentato i dati di “Uno sguardo sull’istruzione” elaborati dall’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che comprende 38 Paesi.

Fra il 2000 e il 2021, in Italia il tasso di laureati tra la popolazione fra i 25 e i 34 anni è passato dal 10 al 28% (+18%), avanzando più lentamente rispetto alla media Ocse del 21%. Il nostro resta, quindi, uno dei 12 Paesi dell’Organizzazione in cui la laurea non è ancora il titolo di studio più diffuso in questa fascia d’età.

Invece, complice anche la pandemia, la quota di Neet è cresciuta a ritmi vertiginosi, passando dal 31,7% del 2020 al 34,6% del 2021. In pratica, in Italia oltre un adulto su tre, fra i 25 e i 29 anni, non ha un lavoro e non è nemmeno inserito in un percorso scolastico o formativo in generale. Rischiando, annota l’Ocse, «di avere risultati economici e sociali negativi a breve come a lungo termine». Ecco perché, come osservato dal direttore della Fondazione Agnelli, An-drea Gavosto, «studiare conviene per avere un lavoro e retribuzioni migliori», ma anche per assicurarsi «una maggiore partecipazione alla vita civile e capacità di comprendere l’altro». Un vantaggio che, ancora una volta, in Italia è comunque minore rispetto alla media Ocse. Mentre negli altri Paesi sviluppati, un laureato, nel corso della vita lavorativa, guadagna il doppio di chi non ha un titolo di studio terziario, da noi questo vantaggio, che in ogni caso rimane, si riduce però al 76% in più.

Anche per far crescere il numero di laureati e comprimere quello dei Neet, è necessario investire di più in istruzione. Mentre in media i Paesi Ocse, nel 2019, hanno investito nella scuola (dalla primaria all’università) il 4,9% del Pil, da noi questa quota è ferma al 3,8%. In generale, mentre in Italia la spesa pubblica per l’istruzione è pari al 7,4% del totale, la media Ocse è del 10,6%. «Sono questi i temi che dovranno essere messi in agenda dal prossimo governo», ha sottolineato la direttrice Programmi Italia-Europa di Save the children, Raffaela Milano, evidenziando la «drammatica crescita dei giovani Neet».

Secondo il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, «il punto più delicato sono le medie». Tema che l’esecutivo aveva messo in agenda «ma avevo bisogno di altri sei mesi», è il rimpianto del (quasi) ex-titolare di viale Trastevere.

Tra tanti punti deboli, l’Ocse nel suo rapporto annuale, mette in luce anche un lato positivo del pianeta scuola in Italia. Fra questi, primo fra tutti l’elevata percentuale di bimbi fra i 3 e i 5 anni che frequentano la scuola dell’infanzia (92%), un dato che colloca il nostro Paese al di sopra della media Ocse, anche se bisogna ricordare che il monte ore di insegnamento dell’Italia è inferiore alla media europea (rispettivamente 945 e 1.071 ore), con una minore offerta oraria nelle regioni meridionali. Uno svantaggio territoriale osservato anche per quanto riguarda l’offerta di tempo pieno alle scuole primarie, «con le regioni del Sud in netto svantaggio rispetto a quelle del Nord».

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In 20 anni i laureati sono cresciuti del 18%. In un solo anno gli adulti che non studiano e non lavorano sono passati dal 31,7 al 34,6%: uno su tre

Nell’intreccio delle storie dei “vecchi” e “nuovi” poveri, il lavoro – perso, da trovare, da mantenere – occupa comprensibilmente un posto centrale

Uno dei paradossi del mercato del lavoro attuale è che se, da una parte, non manca l’offerta di lavoro qualificato, dall’altra, coloro che cercano lavoro non hanno le competenze minime necessarie per poter accedere ai lavori offerti.

Le politiche di welfare messe in campo nell’ultimo decennio – dal SIA (Sostegno all’inclusione attiva) al Reddito di cittadinanza – si sono basate sul buon proposito di indirizzare i sussidi in una prospettiva di avviamento al lavoro, collegandoli in forma quasi sinallagmatica alla ricerca attiva del lavoro o, quantomeno, a qualche forma di lavoro di pubblica utilità.

Ai buoni propositi non hanno fatto seguito misure e strumenti adeguati, riducendo i sussidi a mere misure assistenziali, con le storture e le truffe a corollario, tanto che, nell’opinione pubblica, prevale la convinzione che essi si siano trasformati di fatto in incentivi a rifiutare offerte lavorative.

I limiti di questo approccio sono stati ancora più evidenti sulle persone in condizioni di fragilità per vicende familiari (lutti, separazioni, violenze), di salute fisica e psichica, dipendenze, assenza/perdita del permesso di soggiorno ecc. che vanno a sommarsi all’assenza di competenze professionali di base, alla non padronanza della lingua italiana – non solo negli stranieri, ma anche negli autoctoni a bassa scolarizzazione –, assenza di conoscenze informatiche, destinate a una marginalità difficilmente recuperabile in un mercato del lavoro caratterizzato da selettività e produttività.

Se a queste si aggiungono anche la condizione di “senzafissadimora” (i dormitori sono aperti dalla sera alle 19 al mattino alle 9, lasciando alla strada, all’alcol e al resto le ore diurne in strada) o di persone in uscita dal carcere o da comunità terapeutiche il numero di quanti “non ce la possono fare” aumenta sensibilmente.

Una ricerca su traiettorie di vita, relazioni e lavoro nella coop Sammartini
È per supportare queste persone che è nata nel 1989 la cooperativa Sammartini, che dal 1990 opera in un capannone a Crevalcore (BO), dove vengono fatte le lavorazioni più complesse che richiedono l’uso dei macchinari e, dal 2002, ha aperto una succursale presso la parrocchia di Sant’Antonio alla Dozza a Bologna dove vengono eseguite lavorazioni più semplici, impiegando 11 dipendenti e circa 25 tirocinanti.

Ed è alle persone che operano all’interno della sede bolognese della coop che è rivolta l’osservazione del gruppo di ricerca Insight che ne ha raccolto gli esiti nel volume “In bilico. Una ricerca su traiettorie di vita, relazioni e lavoro” edito da Zikkaron[2].

L’osservazione è stata condotta da un gruppo di ricerca nato all’interno dell’Associazione Insight che si propone “di osservare, studiare, interrogare e dialogare, incontrare e coinvolgere realtà umane e sociali, con un’attenzione particolare ai contesti liminali e periferici”.

L’interesse dei ricercatori, come esplicitato già nel titolo, non è rivolto a valutare l’efficacia degli inserimenti lavorativi utilizzando dati quantitativi sulla produttività o indicatori di risultato quali gli inserimenti effettuati all’interno o all’esterno ecc., ma sceglie deliberatamente di raccogliere le storie di vita delle persone, con “la metodologia dell’ascolto attivo e in dialogo costante con le persone, i luoghi, le situazioni”.

L’osservazione nei luoghi di lavoro, sin dalle ricerche pionieristiche di Mayo degli anno ’20 del secolo scorso, non è esente dal cd ”effetto Hawthorne” (l’osservazione interagisce con la motivazione alla produttività), ma gli obiettivi, le metodologie e le relazioni intrecciate in un anno di osservazione partecipante del gruppo di ricerca – alcuni di essi hanno lavorato come volontari nella coop – sono state rivolte al vissuto delle persone intervistate e ci restituiscono un luogo di lavoro sentito come “riabilitante”, che aiuta a rammentare ferite e fratture, ad accettare i limiti propri e altrui.

Quel che emerge dalla ricerca è la combinazione di una serie di ingredienti (un atteggiamento “datoriale” paziente e benevolo, più di servizio che di comando, ma comunque sentito come autorevole, attento ai bisogni e alle difficoltà; offrire momenti di convivialità e attività ricreative e culturali nel tempo libero, il supporto nel rapporto con i servizi, nella ricerca di casa, la tolleranza verso discontinuità, la mediazione dei conflitti…), che rendono l’ambiente di lavoro un ambiente sentito come vitale, dove spesso si procede per tentativi ed errori, successi e fallimenti, ma comunque capace di cura e di attenzione a tutte e a tutti, cogliendone le difficoltà e orientandole verso forme e tempi di lavoro compatibili con le fragilità di ciascuna e ciascuno, incidendo positivamente, in alcuni casi in maniera significativa, sulle traiettorie di vita e sulle relazioni dentro e fuori l’ambito lavorativo.

Sia detto, per inciso, che la cooperativa ha come committenti anche imprese industriali importanti e la produttività intesa come qualità delle lavorazioni e rispetto dei tempi di consegna viene miracolosamente raggiunta e garantita in un contesto apparentemente poco produttivo.

Virtù teologali in contesto
Fabrizio Mandreoli, che ha coordinato la ricerca con Giorgio Marcello, nel ripercorrerne metodologie e strumenti, introduce alcune riflessioni di “teologia contestuale” che scaturiscono dall’osservazione, arricchendola di un punto di vista insolito, ma non peregrino, che mette in «connessione la vicenda delle persone che vivono in contesti marginali, non visibili e lo sguardo teologico sulla realtà».

Raccogliendo questa “provocazione”, si potrebbe provare a rileggere la ricerca alla luce delle classiche virtù teologali.

Che cosa c’entra la fede? Anche se resta sullo sfondo, cionondimeno emerge qua e là la matrice religiosa della cooperativa, come pure dell’associazione Insight, ed è interessante rilevare che, nella cooperativa come nel gruppo di ricerca, sono presenti cattolici, cristiani di altre chiese, musulmani e non credenti. Ha qualche rilevanza questa matrice sul modus operandi e nelle relazioni delle persone raccolte intorno alla cooperativa e che essa sia “espressione di una comunità monastica dove il Vangelo, e più in generale le Sacre Scritture, sono asse portante”?

È noto il rilevante ruolo sussidiario che le articolazioni caritative della Chiesa e delle congregazioni religiose, come pure il variegato mondo dell’associazionismo cattolico, hanno svolto e svolgono a supporto degli interventi sociali pubblici, soprattutto nel farsi carico degli ultimi fra gli ultimi, di quelle fragilità per le quali la multidimensionalità delle “sfighe” rende difficoltose e scarsamente adeguate le prestazioni standard offerte dal welfare istituzionale.

Dalle storie raccolte emergono invii dai servizi alla cooperativa di persone che, per varie vicende, risultano refrattarie agli interventi socio-assistenziali erogabili e non hanno i requisiti, le forze per l’avviamento al mercato del lavoro.

E, in questo, sicuramente c’entra molto la carità. La carità libera da ogni incrostazione caricaturale che l’hanno resa pelosa, la carità che non si limita a nutrire i poveri – anche se la storia del cristianesimo è ricca di donne e uomini che hanno “sperperato” i propri beni per soccorrere i poveri – ma che supporta tutte le persone perché ne riconosce la dignità e il valore di creature.

Ed è questo supplemento d’anima che rende possibile costruire e sperare un ambiente vitale alternativo a quello dei modelli di welfare anche avanzati e che diventa, nella pratica, critica dei modelli assistenziali e delle “capacitazioni” alla produttività e alla competitività.

È la carità che non si rallegra dell’ingiustizia, che tutto sopporta, non come rassegnazione passiva alle ingiustizie e alle diseguaglianze esistenti, ma perché animata dalla speranza in un regno di giustizia che si prende cura di tutte le creature, con le loro fragilità, le ferite, le miserie ed errori, le inabilità fisiche e psichiche e a ciascuna provvede con un salario svincolato da orari e produttività.

«Un giorno qualcuno ha detto “i poveri li avrete sempre con voi” non certo per rassegnarsi al peggio, ma per “inventare” con umana attenzione e dedizione, qualcosa che aiuti a vivere, a respirare, a sperare; perché ci si possa guardare in faccia senza paura, senza vergogna, senza sottintesi amari, ma con quella volontà di bene che è in definitiva espressione dell’unica resistente e convincente e coraggiosa speranza».

Questo “inno alla speranza” di Paolino Serra Zanetti, prete bolognese amico dei poveri, potrebbe essere la descrizione sintetica delle esperienze promosse e sviluppate e delle aspirazioni di quanti operano e vivono nella cooperativa Sammartini.

[1] http://www.settimananews.it/teologia/per-una-teologia-dal-basso/

[2] https://www.zikkaron.com/
Settimana News

LA TENDENZA Il boom degli imprenditori 70enni

Studio Unioncamere-Infocamere: sono sempre meno i giovani ai vertici delle imprese

Nell’Italia che invecchia anche ai vertici delle imprese ci sono sempre più anziani e meno giovani. Da un’indagine sulle “persone con cariche” nelle imprese realizzata Unioncamere e Infocamere emerge che tra il 2012 e il 2021 le persone con più di 70 anni che ricoprono ruoli centrali nelle aziende (titolari, soci, amministratori o altre cariche di alto livello) sono aumentate del 27,4%, passando da circa 1 milione a quasi 1,3 milioni. Anche la classe di età successiva, quella dei 50-60enni, è in crescita ai vertici aziendali: il sistema delle Camere di commercio registra un aumento del 17,1%, a 4,3 milioni di persone. Crollano invece le generazioni più giovani. Le persone con cariche di età compresa tra i 30 e i 49 anni tra il 2012 e il 2021 sono diminuite del 28%, da 4,4 a 3,2 milioni, mentre quelle con meno di 30 anni segnano un -25,9%, scivolando da 500mila a 370mila persone. Stabile la presenza femminile tra le ‘persone con cariche’: le donne erano il 27% nel 2012 e sono salite appena, al 27,8%, nel 2021. Il numero complessivo di persone coinvolte nei vertici aziendali secondo i dati dell’indagine è di poco superiore ai 9 milioni (dentro ci sono ovviamente tutti gli autonomi, che fanno il ‘grosso’ del gruppo).

Colpisce come questa dinamica di invecchiamente non riguardino solo le posizioni più di rappresentanza, come quella del titolare o socio di un’impresa, che non è tenuto a lavorare a pieno ritmo per l’azienda. Tra gli amministratori, che hanno la gestione operativa delle società, l’invecchiamento è anche più rapido. Alla fine dei dieci anni analizzati dall’indagine, l’Italia si trova con 200mila amministratori d’impresa in più con un’età superiore ai 70 anni: sono 613mila e sono aumentati del 45,9%. Gli amministratori più giovani, con meno di 30 anni, sono solo 50mila (42,8%) mentre i 30-40enni sono 1,2 milioni, in calo del 23,4% tra il 2012 e il 2021. Aumentano, invece, gli amministratori 50-60enni, che passano da 1,5 a 1,9 milioni (+24,3%).

Unioncamere non nasconde che la situazione è allarmante. «Il forte calo di giovani alla guida delle imprese, causato anche dall’invecchiamento della popolazione, pone un serio problema di passaggio generazionale dell’imprenditoria italiana che va affrontato in modo deciso» avverte il presidente Andrea Prete, che spiega: avere pochi giovani ai vertici «rischia di rallentare il processo di modernizzazione in corso del modo di fare impresa in Italia cogliendo i vantaggi legati alla transizione 4.0». (P. Sac.)

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L’allarme del presidente Prete: «Viviamo un serio problema di passaggio generazionale»

I consigli. Ecco come investire su di sé e sulla propria carriera

Formazione continua, competenze “soft” e trasferibili, fare esperienze internazionali, farsi notare da Hr, gestire la paura del cambiamento. Un manuale per imparare l’autopromozione
La formazione è necessaria per migliorare la propria carriera

La formazione è necessaria per migliorare la propria carriera – Archivio

da Avvenire

L’estate è anche l’occasione utile per stilare un bilancio sulle proprie competenze, sul proprio lavoro e sulle prospettive di crescita personali e professionali. Fare carriera, oltre a una solida motivazione e alla giusta dose di ambizione, richiede la costruzione di un percorso che tenga conto di diversi aspetti. Non si tratta, infatti, solo di prefigurare i vari passaggi in termini di obiettivi e tempi in cui raggiungerli. La pianificazione deve includere aspetti da sviluppare nel tempo per arricchire il bagaglio professionale, esperienziale e di conoscenze. Wyser, brand globale di Gi Group Holding che si occupa di ricerca e selezione di profili di middle e senior management, ha stilato un vademecum di cinque consigli per dare uno sviluppo alla carriera. Eccoli:
1. Crescere senza invecchiare: il segreto è la formazione continua
Il luogo comune secondo cui “nella vita non si smette mai di imparare” si potrebbe tradurre in una sorta di imperativo per quella professionale: “nel percorso di carriera non si deve mai smettere di imparare”. La transizione al digitale, l’applicazione in generale di nuove tecnologie trasversalmente a tutti i settori, modificano il modo di lavorare e le competenze richieste per moltissime figure o addirittura fanno emergere lavori e ruoli nuovi. Curiosità e aggiornamento continuo sono vantaggi competitivi per restare attrattivi sul mercato del lavoro.
2. Competenze “soft” e trasferibili: un passepartout per opportunità in tutti i settori
In un mercato del lavoro caratterizzato da un forte skill-shortage, le aziende tendono ad attingere anche a settori differenti da quello del proprio business per trovare risorse. Abbiamo già accennato alle abilità digitali, che sono un ibrido tra hard e soft skill, come competenze trasversali e oggi ormai richieste in tutti i settori. Allo stesso modo, sono considerate trasferibili e quindi sfruttabili in diversi ambiti, anche tutte quelle le competenze meno “hard” e più marcatamente manageriali – time management, comunicazione efficace, qualità di leadership e gestione del team, saper lavorare per obiettivi, capacità di “far accadere le cose”. È più complesso sintetizzare le soft skill all’interno del proprio cv, mentre è opportuno valorizzarle in fase di colloquio attraverso esempi di scenari in cui si è chiaramente dimostrato di possedere le abilità in questione.
3. Fare un’esperienza in un contesto internazionale
Padroneggiare una lingua differente dalla propria e la conoscenza di un mercato estero sono certamente vantaggi competitivi sul mercato del lavoro. Ma fare un’esperienza professionale in un contesto internazionale e multiculturale offre soprattutto la possibilità di allargare i propri orizzonti entrando in contatto con culture del lavoro differenti e di mettere alla prova la capacità di adattamento, diventando poi promotori di cambiamento.
4. Curare il network e farsi notare da Hr e head hunter
Costruire una rete di relazioni professionali solide, basate sulla stima e il rispetto reciproco, consente di avere un sostegno quando si presenta una candidatura per fare carriera all’interno della propria azienda, ma anche di poter contare su referenze qualificate quando si affronta un colloquio per una nuova posizione.
Il networking non deve però limitarsi a colleghi e clienti, ma includere anche i professionisti che si occupano della ricerca e selezione. Essere nella rete di relazioni professionali di responsabili delle risorse umane e head hunter, aiuta ad essere sempre informati sulle opportunità emergenti e, talvolta, ad essere presi in considerazione per ruoli di responsabilità anche a prescindere da una candidatura specifica.
5. Gestire la paura del cambiamento
Se da un lato un’opportunità nella direzione della crescita professionale è uno stimolo positivo, l’altra faccia della medaglia è la paura dei cambiamenti che questa comporta: le responsabilità di cui ci si carica, il necessario riassetto delle abitudini e dell’equilibrio vita-lavoro, un nuovo ambiente e team di lavoro, talvolta persino il cambio del settore di cui ci si occupa oppure città o Paese in cui si vive. É, perciò, necessario gestire la parte emotiva per evitare che preoccupazioni e paure sovrastino le spinte positive necessarie ad abbracciare il cambiamento, ricordando sempre che questo è parte integrante della nostra vita, sia professionale sia personale.
«La costruzione di un futuro di successo richiede il giusto mix tra pianificazione razionale dei vari step e gestione dei propri desideri e ambizioni – commenta Carlo Caporale, ad di Wyser –. La possibilità, per i manager di contare su una figura esperta che li guidi attraverso opportunità e cambiamenti che possono anche spaventare, può fare la differenza. Per questo in Wyser, consapevoli dell’impatto che il nostro lavoro ha sulla vita delle persone e delle organizzazioni, adottiamo una strategia di collaborazione orientata a relazioni di lunga durata, sia con i candidati, sia con le aziende. L’obiettivo finale è quello della creazione di valore per entrambi, oltre che per il mercato del lavoro».

Un manuale per imparare il personal branding

Cosa significa fare personal branding? Sbaglia chi pensa che sia un tema lontano dal quotidiano: ognuno di noi fa autopromozione ogni giorno, cioè si presenta e comunica chi è e cosa fa a colleghi, amici, superiori, familiari e, in questo modo, crea i ricordi che gli altri avranno di lui o di lei, le informazioni che richiameranno alla mente quando, per esempio, dovranno decidere a chi affidare un determinato incarico. Davide Caiazzo, “imprenditore seriale”, nonché il più seguito su LinkedIn in Italia, docente di LinkedIn e personal branding, spiega con un linguaggio sempre chiaro, diretto e molti esempi pratici, come prendere il controllo della propria immagine o di quella della propria azienda per migliorarla, farla emergere e farla ricordare nel modo più efficace. In poche parole: per attrarre business e lavoro. I segreti del personal branding è un manuale fondamentale per chiunque voglia crescere professionalmente mettendo a punto il proprio personal brand e imparando a comunicarlo nel modo più efficace: imprenditori, free lance, dipendenti. Che si vogliano aumentare i clienti, cambiare o trovare lavoro o migliorare in generale la propria reputazione professionale, il punto di partenza è definire e investire tempo e pensieri sul proprio personal brand. I social network, poi, moltiplicano enormemente la possibilità di mettere in evidenza il personal brand, le competenze, i talenti e le specificità di ciascuno: se comunicati in modo corretto, si trasformeranno in una sicura fonte di crescita e di successo. Il personal branding è un processo di sviluppo personale che consiste nel mettere a fuoco le qualità specifiche e uniche di ciascuno, puntando sulla verticalità: più sarà specifico il know how e il servizio offerto, unico e chiaro da capire, maggiore sarà il successo perché chi ha quella necessità si rivolgerà naturalmente a chi ha maggiore competenza. Nel libro Caiazzo insegna a trasformare questa specificità in valore: un approccio che deve essere sviluppato, promosso, trasmesso, curato per ottenere il massimo successo possibile.