Cultura: frammenti sparsi di una spiritualità al femminile

di ROBERTO CARNERO

Laura Bosio

Laura Bosio è nata a Vercelli nel 1953. Appassionata di musica e teatro, si è affermata come scrittrice nel 1993 con il romanzo I dimenticati. Vive da alcuni anni a Milano (Foto di M. BAZZI/ANSA).

«La spiritualità, e forse, in particolare, quella delle donne, non è sentimentalismo; al contrario, è desiderio di superare, fino a estinguerle, le vicissitudini delle sensazioni e dei sentimenti». Così Laura Bosio sintetizza uno degli aspetti fondanti di una spiritualità al femminile. Tema che indaga nel suo recente volume D’amore e di ragione. Donne e spiritualità (Laterza, pp. 100, H 10), attraverso la lettura e il commento di pagine di filosofe, poetesse, mistiche e scrittrici, dall’antichità a oggi. Laura Bosio ha esordito nella narrativa con I dimenticati (Feltrinelli, 1993, Premio Bagutta Opera prima), seguito da Annunciazione (Mondadori, 1997; nuova edizione Longanesi, 2008), Le ali ai piedi (Mondadori, 2002), Teresina. Storie di un’anima (Mondadori, 2004), Le stagioni dell’acqua (Longanesi, 2007, finalista Premio Strega) e Le notti sembravano di luna (Longanesi, 2011).

D'amore e di ragione. Donne e spiritualità indaga in profondità la spiritualità delle donne

D’amore e di ragione. Donne e spiritualità indaga in profondità la spiritualità delle donne.

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Laura Bosio, com’è nata l’idea di questo libro?

«Il libro prosegue, ampliandola, una ricerca cominciata nel 1999 con il volume antologico La ricerca dell’impossibile, pubblicato da Oscar Mondadori, su un’idea di Ferruccio Parazzoli, e poi continuata in un intervento al Festival della mente di Sarzana nel 2010. L’intento è quello di raccogliere voci di una spiritualità femminile che non rinvia necessariamente a un credo religioso: frammenti di lettere, autobiografie, trattati, romanzi, poesie, dialoghi, accostati liberamente in una trama di associazioni che trovano punti di contatto inattesi. Mi è piaciuto immaginare che queste voci siano riunite in un “museo”, dove alle pareti non compaiono dipinti ma parole, e ogni voce risuona con la vicina e con quelle delle altre stanze… Voci limpide e concrete di donne come Saffo o Eloisa, Chiara d’Assisi o Ildegarda di Bingen, Jane Austen o Marina Cvetaeva, Juana de la Cruz o Elsa Morante, la sufi Rabi’a o la tibetana Ma gcig. I loro testi sono di per sé importanti, sul piano del linguaggio, dell’invenzione, del pensiero».

Esiste uno specifico femminile in ambito spirituale?

«Spiritualità è un termine ampio. Per circoscrivere il campo e restare a come l’ho inteso in questo libro, lo definirei respiro interiore, spazio dove l’io arriva ad aprirsi. Non credo che esista uno specifico femminile in ambito spirituale, visto che tutti, uomini e donne, siamo fatti dello stesso strano impasto. Sono uomini i primi grandi esseri spirituali della storia che ci è arrivata. Certo, una storia dove le donne non avevano molta voce in capitolo. Verso l’interiorità delle donne si è sempre avuto un qualche rispetto, purché rimanesse nei confini di quel corpo dove la società le aveva segregate, esiliate dentro sé stesse. Ma proprio lì, in quell’interiorità e in quel corpo che la necessità di sopravvivere ha reso plurale, c’era altro da scoprire, e c’è ancora. Dentro e oltre, due parole della spiritualità, sono parole delle donne: dentro come accoglienza e oltre come disponibilità a gettarsi oltre ogni orizzonte. Le ricerche interiori, spirituali, non hanno ricadute soltanto personali, ma sociali, niente affatto intimistiche. Elémire Zolla, controcorrente, diceva che gli esseri spirituali sono candidati a diventare “eroi del nostro tempo”, duttili, leggeri, disposti a spostarsi in altri livelli di esistenza. Né uomini né donne, più di quanto siano bianchi o neri, eterosessuali o omosessuali, vecchi o giovani».

Lei pone una differenza tra spiritualità e religione, nel senso che la prima dimensione non necessariamente trova risposta nella seconda. Vuole spiegare meglio?

«A me pare che le Chiese, le istituzioni, con i loro dogmatismi, le loro sordità, gli arroccamenti in difesa di tradizioni o privilegi indifendibili, sono spesso il contrario della spiritualità, di quello spazio interiore di cui si diceva: di quel respiro che ci sottrae all’asfissia e permette che l’incontro con l’altro, o l’Altro, diventi un’occasione che dà senso al nostro vivere. Prendiamo un’esperienza radicale come quella mistica. Le Chiese, pur accogliendola nella loro tradizione più alta, si sono sempre mostrate caute: il rapporto tra dogmatica e mistica è stato teso e sofferto, e in molti casi ha prevalso la reciproca incomprensione. Chi cerca il divino secondo il modo della libertà mal sopporta i limiti di un’ortodossia rigida e capziosa. Gli stessi santi hanno seguito vie diverse, tutte impervie. Alcuni si sono fatti idioti e hanno abbracciato la strada della controcultura; altri si sono fatti maleducati, per manifestare la loro avversione al potere; altri bambini, sbeffeggiatori della gravità e del decoro; altri ancora, acrobati, giullari. Prendo a prestito parole di Rabi’a, vissuta nell’Iraq dell’VIII secolo in totale povertà, dispensatrice di sapienza ai grandi del suo tempo, considerata la madre del sufismo, la linea mistica più illuminata dell’islam: “Rendi il tuo cuore vigile”, si legge nei Detti. “Se sarà vigile, vedrai con gli occhi del cuore il cammino, e ti sarà facile raggiungere la dimora”. Aggiungo due versi di Else Lasker-Schüler, berlinese, ebrea, morta a Gerusalemme nel 1945, autrice di opere messe al rogo dai nazisti: “Vogliamo conciliarci la notte / se ci abbracciamo non moriamo”».

«Il rapporto tra dogmatica e mistica è stato teso e sofferto, e in molti casi ha prevalso la reciproca incomprensione. Chi cerca il divino secondo il modo della libertà mal sopporta i limiti di un'ortodossia rigida e capziosa»

«Il rapporto tra dogmatica e mistica è stato teso e sofferto, e in molti casi ha prevalso la reciproca incomprensione. Chi cerca il divino secondo il modo della libertà mal sopporta i limiti di un’ortodossia rigida e capziosa» (Foto di M. MAGLIANI/ARCHIVI ALINARI).

Come ha affrontato personalmente il problema della fede?

«Proprio su Jesus, qualche anno fa, era uscita una “Lettera al mio Dio” di alcuni scrittori. In quella che avevo immaginato, mi ponevo queste domande. Mi chiedevo: chi è il non credente? E rispondevo: è un uomo che non crede a un’immagine. Chi è il credente? È un uomo che si rivolge a un “tu”. Concludevo riconoscendo che io mi sentivo entrambi. Ecco, è così che mi sento ancora. Parlo al Dio della religione che ci ospita: a quella parte di Dio che è scesa e si è incarnata. A un “tu” che non è onnipotente, ma conosce il male e lotta insieme a me, o almeno con quella parte di me che si apre faticosamente al rapporto con gli altri, contro la sofferenza sterile. E lo sento indulgente verso il piacere che ci libera temporaneamente dall’angoscia. Se il “regno dell’amore” verrà, sarà forse grazie a quell’abbassamento, che eliminando la distanza ci consente di amare, e non di odiare, come a volte si sarebbe tentati, il mondo e noi stessi. E che mi porta a non inseguire salvezze in misteriose anime universali o in astratte armonie cosmiche, ma qui, sulla terra, luogo della crudeltà e dell’idiozia, ma anche della bellezza e del silenzio. È certo che la dimensione verticale, verso l’alto e verso il basso, è entrata nel mio orizzonte».

Una figura di cui parla è quella di Teresa d’Avila. Che cosa l’affascina di lei?

«È un’esperienza seguirla nella sua vita, nella Spagna dorata e insanguinata del Cinquecento dove è vissuta, ha combattuto, ha costruito. E scoprire nella sua scrittura e nella sua estasi amorosa, scolpita per sempre da Bernini (foto in alto a sinistra, ndr), una rivoluzionaria coscienza di sé. È come se la “guerriera di Avila” sfuggisse al suo mondo, alla sua epoca, e ci raggiungesse in questo terzo millennio. In vari passi del Castello interiore richiama all’autoeducazione necessaria per raggiungere il “cuore fermo”, la condizione che aiuta il pensiero nel suo lavoro più oneroso: cercare aperture di senso quando ogni misura del vivere sembra mancare, progettare ritmi e direzioni dell’esistere anche quando il disorientamento prevale e c’è il rischio di lasciarsi muovere in maniera cieca e sorda dall’esterno».

Un’altra Teresa che cita è Teresa di Lisieux. Ce ne vuole parlare?

«È stata un’autentica avventura per me incrociare la “piccola Teresa”, spinta di nuovo da Parazzoli. Avevo letto la Storia di un’anima, senza esserne particolarmente attirata: mi infastidivano i suoi diminutivi tardo-ottocenteschi, babbino, mammina, uccellino, fiorellino, li sentivo distanti, anche respingenti. Ma poi, sollecitata, ho provato a rileggerla senza filtri e il suo pensiero d’amore mi ha conquistata. I diminutivi si sono capovolti in accrescitivi, la patina ottocentesca è svanita, e mi è arrivata la sua forza, il suo coraggio, anche la sua bizzarria. La stessa priora del convento di Lisieux la trovava “un poco comica, un poco mistica”. Nel suo libro più eccentrico, e forse più provocatorio, Ortodossia, Chesterton mette a segno uno dei suoi paradossi. Durante la permanenza sulla terra, osserva, Gesù non ha mai nascosto né le lacrime né la collera: ha pianto con gli uomini, si è indignato per l’ingiustizia delle leggi, ha patito con loro e come loro. Però ha sempre coperto qualcosa. Qualcosa di troppo grande perché potesse mostrarcelo mentre camminava veloce in mezzo a noi: “La sua allegrezza”. È come se Teresina, mirando dritta al cuore dei Vangeli, quella allegrezza l’avesse trovata».

A un certo punto lei scrive che «lo humour è un tratto e una spia di ogni ricerca spirituale autentica». Perché?

«Per molti spiritualità e umorismo non vanno insieme, ma a me sembra che sia vero il contrario. Umorismo e umiltà, verso la quale tendono gli esseri spirituali, hanno una curiosa vicinanza, non solo di grafia e di suono. Entrambe le parole rimandano a un elemento acquoso e fertile, l’umorismo a umor, l’umidità, e l’umiltà a humus, la terra. Sembra quasi che lo humour sia il nome laico dell’umiltà. Il loro effetto è lo stesso: rovesciando la prospettiva, tutti e due impediscono di prendersi troppo sul serio».

Da quali altri personaggi femminili ha imparato in campo spirituale?

«Etty Hillesum, ad esempio, o María Zambrano, o Emily Dickinson, che ha scritto versi come questi, con un riso dolce e impertinente: “Che grande noia essere qualcuno! / Quanto volgare dire il tuo nome / per tutto giugno – come fa la rana – / a un pantano che ti ammira”».

jesus ottobre 2012