IDEE Mann, Freud e i veri «sonnambuli»

Nell’estate del 1926, durante una vacanza in Versilia, Thomas Mann ebbe modo di assistere all’esibizione dell’illusionista toscano Gabrielli, un personaggio sinistro che vantava facoltà di trasmissione del pensiero e suggestione. Nel corso dello spettacolo Gabrielli diede fondo al suo repertorio, e in particolare dimostrò la propria abilità di ipnotizzatore inducendo un giovane cameriere a mimare scenette di innamoramento che scatenarono l’ilarità del pubblico. La vicenda non ebbe alcun seguito rilevante, ma lo scrittore tedesco rimase tanto impressionato dall’episodio da farne il brogliaccio di un suo celebre racconto, Mario e il mago

A differenza di quanto era avvenuto nella realtà il racconto si chiudeva però tragicamente, perché alla fine l’illusionista finiva ucciso con un colpo di pistola da Mario, il timido cameriere soggiogato. Per Mann, Mario e il mago non era altro che una grande metafora dell’Italia sedotta da Mussolini e ormai priva di libertà. Ma il racconto era anche uno degli ultimi residui di una vera e propria moda culturale, che aveva imperversato nell’Europa della seconda metà dell’Ottocento, e i cui contorni sono ricostruiti con grande nitidezza da Clara Gallini in La sonnambula meravigliosa. Magnetismo e ipnotismo nell’Ottocento italiano, un libro uscito per la prima volta trent’anni fa e ora meritoriamente ripubblicato (L’Asino d’oro, pp. 397, euro 20.00).

Le radici del fenomeno affondavano alla fine del Settecento, ossia nel momento in cui Franz Anton Mesmer ritenne di aver scoperto il “magnetismo animale”, una nuova forma di energia, utilizzabile anche a fini terapeutici. Ma solo verso la metà del XIX secolo il magnetismo divenne una moda culturale, sia nelle classi sociali più abbienti, sia nel mondo popolare. L’intera Europa si riempì di gabinetti di magnetizzatori, che promettevano di risolvere gravi problemi di salute mediante l’ipnosi. E, contemporaneamente, i palchi dei teatri e i baracconi delle fiere si affollarono di magnetizzatori e sonnambule, che invariabilmente accampavano facoltà di chiaroveggenza. Per molti versi, la passione popolare per il magnetismo, l’ipnosi e le “sonnambule meravigliose” rappresentava una reazione al positivismo dell’epoca, alla fiducia cieca riposta nella scienza e nel progresso. 

Ma gli stessi studiosi positivisti furono tutt’altro che sordi al fenomeno. Anzi, tutti i principali esponenti delle nuove scienze positive si dedicarono con grande attenzione al magnetismo. Tanto che, a un certo punto, proprio il meccanismo della suggestione ipnotica divenne una chiave di lettura per spiegare quasi tutto, dalla logica dei criminali al comportamento delle folle, fino alle stesse basi della società, che Gabriel Tarde definì, per esempio, come una condizione di perenne sonnambulismo. Di lì a poco, proprio partendo dalla sperimentazione dell’ipnosi, Freud avrebbe cominciato a tracciare (e in qualche modo, a “inventare”) i confini dell’inconscio. Ma a quel punto della passione ottocentesca per il magnetismo rimaneva ben poco. La “suggestione” poteva così perdere quell’alone di “meraviglioso” che l’aveva circondata. E la “personalità magnetica” diventava, come nel racconto di Mann, solo una metafora sbiadita, un espediente retorico per “raccontare”, più che per spiegare, i meccanismi più misteriosi e inquietanti dell’agire politico.

 

Damiano Palano

IDEE. Testori, una cultura per respirare

Quando gli amici che hanno organizzato questo colloquio mi hanno comunicato il titolo della sessione entro cui io avrei dovuto dare una testimonianza ed ho saputo che il titolo era “Cultura per vivere”, mi sono domandato se il titolo non dovesse essere ancora più estremo, ad esempio qualcosa come “Una cultura per respirare”, proprio nel senso del respiro che esce dai polmoni.

L’“essere di più” di cui parla Giovanni Paolo II nella sua allocuzione all’Unesco (2 giugno 1980), letto nel suo nucleo più caritatevole, più caritativo, ma anche più drammatico, non significa essere in quanto pensare, in quanto respirare? Dobbiamo porci questo interrogativo noi, in questa specie di civiltà in cui abbiamo lasciato o voluto che molti uomini, molti giovani scegliessero di non pensare più, anzi di non respirare più, scegliessero il suicidio o la morte! Nell’allocuzione del Santo Padre all’Unesco, che è fondata sulla speranza e nella speranza, non si può non leggere un allarme terribile, tanto più terribile quanto più è grande la speranza che la percorre, e anzi che costituisce l’interrogazione prima, rivolta attraverso quella sede a tutti gli uomini di cultura e a tutti gli uomini del mondo.

Basterebbe leggerne due frammenti: «Queste società (di civilizzazione tecnica) si trovano davanti la crisi specifica dell’uomo, che consiste in una mancanza crescente di fiducia nei confronti della propria umanità, del significato del fatto di essere uomo e dell’affermazione e della gioia che ne derivano e che sono sorgente di creazione. La civiltà contemporanea tenta d’imporre all’uomo una serie di imperativi apparenti, che i loro portavoce giustificano ricorrendo al principio dello sviluppo e del progresso. Così, per esempio, al posto del rispetto della vita l’”imperativo” di sbarazzarsi della vita e di distruggerla…».

Più avanti questo allarme si fa ancora più esplicito: «Ci rendiamo conto… che l’avvenire dell’uomo e del mondo è minacciato, radicalmente minacciato, a dispetto delle intenzioni, certamente nobili, dell’uomo di cultura, dell’uomo di scienza. Ed è minacciato perché i meravigliosi risultati delle sue ricerche e delle sue scoperte, soprattutto nell’ambito delle scienze della natura, sono state e continuano ad essere utilizzate – a pregiudizio dell’imperativo etico – per dei fini che non hanno niente a che vedere con le esigenze della scienza e persino a fini di distruzione e di morte, e questo ad un grado mai conosciuto fino ad oggi, causando dei danni veramente inimmaginabili.

Allorché la scienza è chiamata ad essere al servizio della vita dell’uomo, si constata troppo sovente che essa è asservita a scopi che sono distruttori della vera dignità dell’uomo e della vita umana». Di fronte a queste parole, che danno un’immagine giusta, lucida, dell’estrema situazione in cui la società è giunta, mi domando quale sia la funzione della cultura se non quella di arrivare al luogo da cui prevengono questi “imperativi apparenti”.

Mi domando se la prima funzione della cultura non sia quella di snidare il meccanismo che ci invia questi “imperativi apparenti”, e di vedere perché, a dispetto delle intenzioni, quindi nonostante le buone intenzioni, il risultato non sia per la vita ma per la morte. […] La cultura, e tanto più la cultura cristiana, non può non accusare, non può non indicare questo misterioso ma terribile, insinuante luogo. Questa misteriosa, terribile, insinuante entità che ci manda i suoi apparenti, ma poi reali ricatti, abita in un meccanismo; ormai non è più neppure il caso di parlare, credo, di ideologia. Le ideologie sono cadute, sono uscite dalla mente, dal corpo, dalle ossa delle persone e dei popoli che le avevano costruite e hanno creato su questi popoli, su questi uomini una sorta di mostruosa entità chiamata con due termini uguali: il potere o anche, dobbiamo avere il coraggio di dirlo, l’Anticristo. […]

L’origine del potere è nell’uomo ritenuta come frutto di un caso. Ed è per giustificare questo caso, per gestirlo, che si instaura il meccanismo del potere – lo stesso potere che poi guida, opprime, deprime, soffoca e trasforma in una galera continuamente condizionata l’essere dell’uomo. La sua origine viene soppressa, sostituita, giustificata con questa trasformazione del caso nel potere, che verrebbe a salvare la casualità della nascita dell’uomo, direi quasi a renderla sostenibile per l’uomo. A questo punto l’uomo è pronto per diventare completamente vittima, cioè per non essere uomo.

Ci si domanda allora come può una cultura fare quest’opera di attacco, di snidamento, di continua e instancabile messa in accusa di questo mostruoso meccanismo del potere, se non nascendo e formandosi come creaturalità che deriva, che nasce, come creaturalità che si rende possibile per il riconoscimento che al nostro punto di nascita come uomini non c’è la cecità, non c’è un buio da riempire con un potere, ma c’è una volontà, un amore che ci ha formati. Solo in questa accettazione una cultura d’attacco sente la necessità di essere anche una forma, cosa di cui il potere ha paura. Ciò di cui ha paura il potere, e lo si vede anche qui da noi, è dell’uomo che esce dall’intimità o trasforma l’intimità in gesti, in azioni, in forma. Allora si scende sulle strade e si pesta, si ferisce, si colpisce.

Allora si mettono le museruole, si impediscono le parole, perché proprio questo riconoscimento di essere creature determina nella cultura d’attacco, come deve essere la nostra, una cultura assolutamente non tranquilla, anche se serena, determina una forma che si oppone a questo meccanismo di potere. Quindi la negazione dell’uomo, che si sta compiendo, la negazione perfino del respiro dell’uomo, non può avvenire senza che questa forma di vita, questa proposta di cultura non assuma tutta la forza, la pregnanza che assume un figlio, che assume un feto quando Dio decide che sia uomo. La cultura deve avere questa irrefutabilità, si deve sapere che se si uccide questa forma di cultura si uccide l’uomo, esattamente come si deve sapere che se si uccide un feto, piccolo, ancora apparentemente senza forma, si uccide un uomo e quindi si scinde, si stacca, si nega quella volontà originale. […]

La nostra croce oggi è terribile: è evitare questo scontro o questo incontro, questo attraversamento della tragicità del momento in cui viviamo, è veramente evitare la croce e assumercene altre che sono sempre più comode. […] La speranza sta invece nell’assumersi la croce tragica dell’uomo, quindi la speranza è dolce, è tenera, ma è terribile. Non dobbiamo farci illusioni. […] Questa che ho cercato di esprimere in brevissime parole non è un’ipotesi. Per quello che mi riguarda è ciò che consiste, e sempre è consistita, ma ancor di più consiste la mia vita. E la parola, che Dio mi ha dato in qualche modo il dono e la responsabilità di usare, non ha senso, o sento che la tradisco e che diventa menzogna, quindi servizio di meccanismo e odio all’uomo anche se, “a dispetto delle intenzioni”, secondo l’espressione di Giovanni Paolo II, appena la tolgo, per mio proprio comodo, da questo attraversamento del dramma della società di oggi.

 

Giovanni Testori – avvenire.it

IDEE La scuola ha bisogno di nuovi Socrate

Nel campo dell’istruzione l’America deve affrontare tre grandi sfide che impongono un miglioramento dei programmi di formazione didattica più che mai urgente. Primo, l’istruzione che milioni di americani hanno ricevuto in passato non è più al passo con i tempi. In un’economia globale competitiva, persino chi possiede un diploma delle superiori, se non si iscrive all’università, si ritrova con una gamma limitata di possibilità.

Secondo, oggi più che mai dobbiamo riconoscere la necessità – e il dovere per una scuola pubblica – che tutti gli studenti possano trarre dall’insegnamento tutto il potenziale possibile. Allo stato delle cose, tuttavia, ci troviamo ben lungi dall’avere conseguito l’agognato obiettivo di pari opportunità educative. Attualmente quasi il 30% dei nostri studenti abbandona la scuola o non riesce a terminare gli studi superiori nei tempi previsti. A malapena il 60% degli studenti afro-americani e ispanici riesce a diplomarsi entro i regolari anni di corso. Se abbiamo a cuore il desiderio di offrire possibilità, di ridurre le disuguaglianze, di promuovere la coscienza civica e la partecipazione, è l’aula scolastica il punto da cui partire.

La terza sfida è l’esodo di massa dal corpo insegnanti da parte delle persone nate negli anni del baby boom previsto per il prossimo decennio. Attualmente contiamo 3,2 milioni di insegnanti che lavorano in circa 95.000 scuole. Nei prossimi quattro anni potremmo perdere un terzo dei nostri insegnanti e funzionari scolastici più esperti, causa pensionamento e logoramento. La nostra capacità di attrarre, ma, ancor di più, di trattenere i grandi talenti nei prossimi anni lascerà un’impronta profonda sull’istruzione pubblica.

È davvero un’opportunità che capita una sola volta nell’arco di una generazione. Per mantenere competitiva l’America, e per trasformare in realtà il sogno americano di un’uguale istruzione garantita a tutti, è nostro dovere reclutare, retribuire, formare, ascoltare e rispettare una nuova generazione di insegnanti di talento. Per ottenere questo è tuttavia essenziale elevare lo standard dei programmi di formazione didattica poiché agli insegnanti di oggi, rispetto anche a soli dieci anni fa, chiediamo molto di più.

Il presidente Obama si è infatti posto l’ambizioso obiettivo di far riguadagnare all’America, entro il 2020, il primato della nazione che vanta, in proporzione, il più alto numero di laureati al mondo. Per raggiungere tale obiettivo, tuttavia, sia il nostro sistema scolastico sia i programmi di formazione didattica devono migliorare sensibilmente. La posta in gioco è immensa e il tempo di aggrapparsi al passato è finito. C’è una ragione per cui molti di noi ricordano per sempre il proprio insegnante preferito. Un grande insegnante può letteralmente cambiare il corso della vita di uno studente. Gli insegnanti accendono una curiosità che dura tutta la vita, destano il desiderio di partecipare alla democrazia e instillano la sete di conoscenza.

Non sorprende che tutti gli studi affermino ripetutamente come sia la qualità dell’insegnante responsabile della classe il fattore decisivo per la crescita scolastica di uno studente, e non le condizioni socio-economiche o l’ambiente familiare. Reclutare e addestrare questo esercito di nuovi, grandi insegnanti dipende fortemente dalle nostre facoltà di Scienze dell’educazione. Esse avranno il compito di formare più della metà dei nostri futuri docenti.

Le facoltà umanistiche e scientifiche rivestono un ruolo assolutamente essenziale nel consolidare il bagaglio culturale di un futuro insegnante. Fatico a capire i rettori e i presidi delle facoltà umanistiche e scientifiche che trascurano i programmi di Scienze dell’educazione delle loro università. Il fatto è che Stati, distretti, e governo federale sono ugualmente responsabili della costante debolezza dei programmi di formazione didattica delle facoltà di Scienze dell’educazione. Gran parte degli Stati membri approvano d’ufficio i programmi delle facoltà che, solitamente, si basano su criteri di valutazione degli studenti affidati a test scritti senza una reale valutazione della loro effettiva preparazione all’insegnamento in una classe.

Pochissimi Stati e pochissimi distretti monitorano attentamente il lavoro degli insegnanti, valutando se e quali programmi di formazione didattica hanno creato docenti ben preparati e quali invece insegnanti dal rendimento scarso. Dovremmo, da un lato, studiare e riprodurre le pratiche rivelatesi efficaci e, dall’altro, esortare gli insegnanti meno efficienti a rivedere il proprio modo di lavorare o a rinunciare a questa professione.

S’è detto spesso che i grandi insegnanti sono eroi di cui non sono cantate le gesta, ma a parer mio questa evidente verità ha un significato profondo. L’insegnamento è una delle poche professioni che non è solo un lavoro o addirittura un’avventura estemporanea: è una vocazione. I grandi insegnanti si sforzano di aiutare ogni studente a sbloccare il proprio potenziale e a sviluppare l’atteggiamento mentale che gli servirà per tutta la vita. Essi lavorano nella convinzione che tutti gli studenti abbiano un dono, anche quando dubitano di se stessi. Le sfide che il nostro sistema scolastico ed educativo deve affrontare sono enormi. Ma altrettanto immensa è l’opportunità di servire al meglio i nostri figli e il bene comune.

Arne  Duncan – Segretario di Stato all’Educazione degli Stati Uniti in avvenire 2/6/2010