Chiesa e giovani «in laboratorio»

Daniele Gianolla di Anilab, percorso su nuove vie per la catechesi: «Il punto non è con quale mezzo la Chiesa cerchi il confronto con i giovani, il punto è: la Chiesa cerca un confronto reale con i giovani o cerca di acchiapparli per fare numero?»

San Gelasio

Daniele Gianolla. 36 anni. Docente di ruolo in scienze naturali per la scuola secondaria. Da cinque anni ha creatoAnilab, itinerario di formazione laboratoriale per animatori di catechesi nella parrocchia di San Gelasio a Roma. Tale percorso è il frutto di una lunga esperienza come animatore (dal 1999) e formatore (dal 2007), e viene condotto da Daniele, insieme a Simone Pazzaglia, con lo spirito di chi vuole restituire quanto ricevuto ‘sul campo’: dai presbiteri Luciano Meddi (ora ordinario di catechetica missionaria all’Urbaniana) e Luca Pandolfi (ora ordinario di antropologia all’Urbaniana), allo staff del Settore Pace e Mondialità della Caritas di Roma (Oliviero Bettinelli, Luigi Pietrucci, Andrea Guerrizio), sino ai suggerimenti trovati ‘in biblioteca’ sui testi di Umberto De Vanna (In gruppo. Manuale per animatori e giovani leader), Klaus Vopel (L’animatore competente) e Carletti-Lusuardi (I linguaggi della catechesi).​

Anilab si articola in due fasi: corso base per chi comincia e approfondimenti (o ritiri) per chi già opera. Tirocinio ed affiancamento tra i giovani (15-18 anni) e gli esperti (25-40 anni) si sono rivelati essere il punto di forza del percorso. Il metodo è quindi esperienziale, ma sempre illuminato dal confronto con la Parola. Quest’anno, poi – ci ha raccontato Daniele – ad Anilab si stanno concentrando sulle relazioni, o meglio sulla qualità delle relazioni, con l’intento di sviluppare insieme ai ragazzi alcune delle fasi che articolerebbero la cosiddetta ‘dimensione generativa’ della persona e dunque della relazione personale nella costruzione di un gruppo: desiderare, far nascere, nutrire, accompagnare, lasciar andare. Chi meglio di Daniele, allora, per ragionare insieme sui luoghi e sui linguaggi dei giovani d’oggi?

SERGIO VENTURA: «Quale senso potrebbe avere per la Chiesa essere presente nei luoghi laici di maggior aggregazione giovanile? E secondo quali modalità?».

DANIELE: «Esiste una convinzione in ambito cattolico che è quella secondo cui la Chiesa, con i suoi simboli e i suoi linguaggi, debba penetrare e permeare tutti gli spazi di vita delle persone, con un’ansia più colonizzatrice che evangelizzatrice. In effetti, è vero che un cristiano maturo e consapevole vive ‘cristianamente’ ogni momento, anche quelli spensierati e ludici, ma solo perché crede negli stessi valori del Vangelo, senza bisogno di etichette o didascalie. Ricordo quando venne inaugurato a Roma un pub dedicato a Giovanni Paolo II, affrescato con le sue frasi o con le citazioni del Vangelo. L’effetto era di un’operazione commerciale, più che di una strada per accompagnare i giovani. In fondo, non è la Chiesa come istituzione che ha bisogno di essere presente nei luoghi di aggregazione, ma sono le persone che ne fanno parte che scelgono di entrare a dialogare con i propri giovani. Per cui se i ragazzi desiderano trascorrere del tempo insieme, è bello e utile che anche i ‘grandi’ di riferimento siano presenti in quegli spazi. Anche perché i ragazzi hanno spesso piacere a trascorrere del tempo insieme ai loro ‘fratelli maggiori’, traendone sicurezza, solidità e conforto (a volte anche nel conflitto). Ma non bisogna essere forzatamente presenti o invadenti nei loro confronti. L’importante è che i formatori abbiano voglia di stare adeguatamente a fianco dei ragazzi – e senza improvvisare…».

SERGIO VENTURA: «A tuo parere, nei luoghi ecclesiali di maggior aggregazione giovanile, qual è il giusto equilibrio che deve mantenere la Chiesa tra richiesta e attesa di una vita di fede nei giovani? Tra presenza evidente o soffusa di elementi e simbologie religiose?».

DANIELE: «Anche in questo caso, la Chiesa è fatta di persone e la Bibbia è Parola viva di Dio. Se la Chiesa non riesce a radicare l’esperienza di Fede e della Parola nella vita delle persone ha fallito e poi non può sperare di essere efficace affidandosi ai simboli o ai riti (ricordiamo l’uomo e il sabato). La Chiesa, quindi, non deve aver paura della complessità e – se necessario – di un po’ di rigore, perché ha (e dà) senso. Purché i simboli, che etimologicamente sono il ponte tra due esperienze, non diventino l’oggetto (e a volte purtroppo anche il protagonista) della proposta di fede. Tradurre la Parola in termini di vita vissuta è la vera sfida, e non significa semplificare né banalizzare il messaggio. C’è una tendenza a diluire gli aspetti più forti e coraggiosi della Parola trasformando tutto in un generale ‘volemose bene’, per poi coltivare un bizantinismo rituale e simbolico che resta poco fruibile. Invece la Bibbia ha degli aspetti di complessità e di conflitto che pure ad una prima lettura risultano difficili, ma possono trovare terreno molto fertile nelle esperienze dei ragazzi: i temi sociali, gli aspetti critici e apparentemente contraddittori della Parola (Gesù che si arrabbia, che propone scelte nette…), etc. . Ricordo un momento di preghiera durante un campo estivo, in cui approfondimmo il brano dell’indemoniato geraseno: i ragazzi caddero in un silenzio denso che si interrompeva solo quando uno di loro raccontava una propria esperienza dolorosa. Gli elementi c’erano tutti: confronto diretto col testo, un gesto che lo traducesse nella loro vita, apertura al dialogo sulla loro vita. L’effetto fu sorprendente! I ragazzi non hanno paura di andare nel profondo. Se guardiamo l’esperienza scout vediamo che è tutt’altro che facile, è impegnativa in termini di tempo, energie fisiche, emotive, intellettive e relazionali, ma i ragazzi la scelgono! La Chiesa non deve proporre esperienze facili, ma significative».

SERGIO VENTURA: «La Chiesa come utilizza – se li utilizza – i linguaggi giovanili della musica, dei mass-media e dei social network? Riesce a farlo senza rendersi – come spesso è rimproverata di essere – goffa o strategica?».

DANIELE: «La strategia è ipocrita se non è autentica. Non si può essere sempre sinceri né tantomeno sempre spontanei in una relazione educativa. Ma l’autenticità è una scelta molto più profonda, che costruisce una relazione di fiducia. Davanti ai ragazzi un adulto deve essere leale e su questa base si possono usare tutti i mezzi di comunicazione, senza apparire ridicoli. L’importante, come dice Rodari a proposito delle favole, è non avere il doppio fine moralista. Ha senso usare parole di poeti e cantautori, ma non per far dire al testo (o peggio per far dire ai ragazzi) ciò che vogliamo noi, ma per ascoltare le idee dei destinatari, magari provocarli, farli sobbalzare sulla sedia… Il punto non è con quale mezzo la Chiesa cerchi il confronto con i giovani, il punto è: la Chiesa cerca un confronto reale con i giovani o cerca di acchiapparli per fare numero? Una volta che il dialogo è aperto allora gli uomini e le donne di Chiesa possono dire la propria, accompagnare o persino salvare, ma finché non ci porremo sinceramente in ascolto il rapporto resterà effimero e superficiale».

SERGIO VENTURA: «In queste esperienze la Chiesa non rischia di ‘appiccicare’ il (vecchio) contenuto religioso alle nuove (ma strumentalizzate) forme di comunicazione? Cosa potrebbe significare per te, invece, ‘fondere’ le forme nuove di comunicazione con un contenuto sì antico ma grazie ad esse rinnovato?».

DANIELE: «Alcuni uomini di Chiesa non rischiano di appiccicare, lo fanno! Molte volte ho sentito citare De André da sacerdoti o laici che invece erano perfettamente allineati, oppure utilizzare i social network per illustrare categorie pastorali ultra-tradizionali​, come le opere di misericordia nella loro formulazione ‘classica’ oppure i dieci comandamenti ancora in una traduzione ‘preconciliare’. Il punto è domandarsi con quale obiettivo si utilizzano le parole di un artista: coinvolgere o stupire? Attivare un pensiero o attrarre persone? Cercare il senso o la bella presenza? Se vogliamo essere al passo con i tempi facciamo domande autentiche e ascoltiamo le risposte vere, restiamo saldi ma non immobili. I ragazzi hanno bisogno di interlocutori credibili, affidabili, leali, magari tormentati da dubbi, ma autentici, presenti e aperti al confronto. Che all’occorrenza sappiano dire dei no, ma che non siano di circostanza. In un certo senso, la via di comunicazione è secondaria. Ci sono esperienze ecclesiali assai significative proposte da personalità apparentemente poco affascinanti (Don Milani, Giovanni Paolo I, mons. Tonino Bello, mons. Romero), come al contrario ci sono esperienze fascinose fuori dalla Chiesa che possono essere strumentalizzate in direzione ultraconservatrice. Poi ci vuole studio e meditazione, perché per fondere nuovi linguaggi a contenuti antichi bisogna innanzitutto assicurarsi di aver capito il testo antico (cosa che non sempre è facile), e poi aprirsi alle domande, alle provocazioni, ricordandosi di quello che ci ha affascinato o messo in crisi. Il contenuto antico si rinnova se riesce ad entrare nelle vite delle persone, altrimenti resta un testo che non ha più niente da dire. Per arrivare a questo livello, però, un educatore non deve aver paura di osare, di destrutturare le proprie conoscenze ed essere aperto al nuovo. Se i ragazzi capiscono di poter dare loro stessi un’interpretazione nuova, di poter dare vita alle vicende, allora la Chiesa si manterrà ancora viva. Mi vengono in mente due ‘tentazioni ecclesiali’ con cui mi sono confrontato: la prima – quella dell’educatore che vuole solo dare – fu nel 2005 in El Salvador, quando incontrai per caso un missionario italiano che parlava alla gente del posto quasi come a dei selvaggi o dei bambini, senza capire i reali problemi di povertà che la gente doveva affrontare; la seconda – quella dell’educatore che vuole solo prendere- fu nel 2010 a L’Aquila, quando notai una volontaria adolescente che era lì senza riconoscere alcun pregio a se stessa, mentre diceva di voler solo imparare da chi aveva vissuto il trauma del terremoto. Ecco, un educatore deve raggiungere invece l’equilibrio tra la voglia di dare agli altri e quella di prendere dagli altri; in ogni caso è soprattutto il dialogo e l’ascolto dell’altro che permette una relazione nella quale non si resta chiusi in schemi mentali – pur accattivanti – che siano solo innovativi o solo tradizionali».

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