Anniversario. Charles Péguy, fede e realtà contro gli intellettualismi

Per lo scrittore francese, nato il 7 gennaio 1873 e approdato al cattolicesimo dal socialismo, la vita richiede «l’inserzione dell’eterno nel temporale»
Charles Péguy (1873-1914)

Charles Péguy (1873-1914) – archivio

avvenire.it

«La Speranza sola non risparmia nulla». Pur essendo stato un uomo dalla triplice fedeltà, a Dio, alla civiltà contadina e alla nazione, la Fede ricopre un primato, perché esito di un cammino. Essa è testimoniata da Charles Péguy, alla pari della Carità, «il primo movimento del cuore», non in maniera intellettualistica, ancorata com’è al corpo e alla realtà concreta. Ma entrambe perderebbero vigore se non fossero sorrette dalla Speranza, «una bambina da nulla/ che traverserà i mondi» e che «sola guiderà le Virtù», come annunciano i versi di Il Portico del mistero della seconda virtù (1910). Erede della cultura paysanne e campione di una religiosità popolare radicata nel cattolicesimo, lo scrittore e pensatore francese è, secondo Hans Urs von Balthasar, uno dei dodici cristiani essenziali dai tempi di Cristo. E il suo tortuoso cammino esistenziale, che finirà nel 1914 nelle trincee della Grande Guerra, va colto, per il teologo svizzero, in maniera «indivisibile. Esso lo è grazie a un radicarsi nel profondo, là dove mondo e Chiesa, mondo e grazia si incontrano e si compenetrano sino a essere inscindibili».

Dissidente nell’animo, a suo agio nella polemica e nel corpo a corpo, Péguy, sia nell’essere socialista, nazionalista o cattolico, è uno scrittore che risponde costantemente agli eventi e ama essere al centro della mischia. Le idee per lui sono carne e richiedono una pugna spiritualis, anche quando si allontana dalla Chiesa. Egli lotta contro la disincarnazione del mondo moderno, esito di quello spirito di sistema e di quella ragione rigida, che lui osteggiava per la sua «dura arroganza nei confronti della realtà, nell’insolenza verso ogni specie di realtà». «Il mondo moderno avvilisce – scriverà nelle Situations -. È la sua specialità… è il suo mestiere… Avvilisce la città, avvilisce l’uomo, avvilisce l’amore, avvilisce la donna, avvilisce la razza, avvilisce il bambino. Avvilisce la nazione; avvilisce la famiglia. È riuscito ad avvilire ciò che c’è forse di più difficile da avvilire, perché è qualcosa che ha in sé, nel suo tessuto, una sorta di particolare dignità, come un’incapacità di essere avvilita: esso avvilisce la morte».

Péguy nasce il 7 gennaio 1873, esattamente centocinquanta anni fa, a Orléans da una famiglia di piccoli artigiani. Rimasto orfano di padre, morto per le conseguenze dell’assedio di Parigi ai tempi della guerra franco-prussiana, è cresciuto dalla madre, riparatrice di sedie, e dalla nonna, ultima testimone di una Francia oramai sul punto di eclissarsi. Da loro imparerà l’“onore del lavoro”, che permetteva di «impagliare sedie esattamente con lo stesso spirito e lo stesso cuore, e con la stessa mano con cui questo medesimo popolo aveva tagliato le sue cattedrali» scriverà in Il denaro (1913). Alla tradizione paysanne e alla sua terra natale rimarrà sempre legato, non solo perché aveva regalato a Giovanna d’Arco la sua prima vittoria militare, ma anche perché aveva assicurato a lui quel radicamento nella concretezza della vita perso altrove. Anche a causa di quella scuola repubblicana, lontana dalla cultura contadina resa obbligatoria a partire dal 1880, che comunque gli consentirà di entrare addirittura all’École Normale Supérieure. Da questa istituzione di prestigio si dimise nel 1897, dopo l’adesione a un socialismo che sarà, secondo uno dei suoi primi biografi, «più il socialismo di san Francesco che non quello di Karl Marx». Allora Péguy comincerà a scrivere per “La Revue Socialiste” testi intrisi di utopismo, anche se sarà l’affaire Dreyfus a gettarlo davvero nell’arena. A questa battaglia politica e civile dedicherà La nostra giovinezza (1910), il capolavoro del dreyfusismo scritto in polemica con Daniel Halévy, in cui non esitò a mostrare come la vita richiedesse «l’inserzione dell’eterno nel temporale».

Nel 1900 aveva fondato i “Cahiers de la Quinzaine”, la tribuna da cui condusse le battaglie contro il mondo moderno. La redazione si trovava in rue de la Sorbonne 8, proprio di fronte alla venerabile istituzione, il suo nemico più potente, il difensore del pensiero sistematico che avvilisce la realtà, la casa del “partito degli intellettuali” che alla concretezza dell’esistenza preferisce l’astrattezza della ragione. Esposto per tutta la vita agli attacchi dei corifei del razionalismo scientifico e del positivismo, Péguy incontrerà nella filosofia dell’amico Henri Bergson una percorso che gli consentirà di respingere l’intellettualismo dei professori e dei politici di professione, assicurandogli sempre l’accesso alla realtà. In lui la “durata” del futuro premio Nobel diventa la profondità della storia e l’intuizione l’antidoto all’intellettualismo della sua generazione. In una parola, libertà. La stessa offerta dai “Cahiers” dove non è soggetto ai vincoli dell’editoria, né a quelli del giornalismo. Il periodico, che raggiungerà i 229 numeri, è l’opera della sua vita ma anche un’avventura collettiva. Il numero degli abbonati, che gli assicurerà il supporto economico, oscillerà tra 900 e 1200. Tra loro figureranno Raymond Poincaré, il capitano Dreyfus, Claude Debussy, Joseph Reinach, l’ex capo di gabinetto del presidente del consiglio Léon Gambetta. Per non parlare dei prestigiosi collaboratori, da Daniel Halévy a Julien Benda, da Romain Rolland a Georges Sorel.

Legato alla cultura popolana, la sola a rappresentare l’aristocrazia del mondo del lavoro, dalla tribuna del suo quindicinale, Péguy ingaggiava battaglia contro la mitologia del progresso, perché «la miseria dell’uomo moderno, la sua angoscia, è una delle più profonde che la storia abbia mai registrato», preda com’è del denaro facile e del degrado. Ai pochi testi utopici dell’inizio sono seguiti rapidamente le critiche al mondo moderno, che recano tracce della potente nostalgia per il vecchio mondo. Il suo non è però un requiem per una società cristiana e popolana, in via di disgregazione sotto il regime del denaro. Per essa occorre ancora combattere, essere miles Christi, ma non per salvare se stessi, ma per salvare anche gli altri. «Non si deve salvare la propria anima come si salva un tesoro – dirà in Il mistero della carità di Giovanna d’Arco -. La si deve salvare come si perde un tesoro. Con il buttarla via. Noi ci dobbiamo salvare insieme. Noi dobbiamo arrivare presso il buon Dio insieme. Che cosa direbbe se arrivassimo presso di lui, arrivassimo a casa senza gli altri».

Gli studi di prosperi e Bruno
«Charles Péguy, ci ha lasciato pagine stupende sulla speranza», ha assicurato di recente papa Francesco. E a guidare alla scoperta di questo aspetto del pensiero dello scrittore d’Oltralpe, di cui oggi ricorre il 150° anniversario della nascita, ora arriva in libreria Mistero dei misteri di Paolo Prosperi (Morcelliana, pagine 178, euro 16,00). L’autore apre un varco certo nel pensiero di Péguy per comprendere come la virtù della Speranza, che «vede quello che non è ancora e che sarà / ama quello che non è ancora e che sarà», costituisca l’architrave per la addentrarsi nel mistero della storia e di ogni singola esistenza umana. Ma per inquadrarne, nell’insieme, la biografia, le amicizie, lo stile e le sue battaglie in favore della vita vissuta e non dello spirito di sistema e dell’astrattezza così presenti nel mondo moderno, un ottimo portolano è Charles Péguy. Amico presente di Giorgio Bruno (Ares, pagine 256, euro 16,00).

Musica / Massimo Ranieri: devo a Dio il mio successo


Fonte: famigliacristiana.it
Finalmente incontriamo per Credere Giovanni Calone, in arte Massimo Ranieri. L’occasione è di quelle belle: l’uscita del suo nuovo album, Tutti i sogni ancora in volo (Warner Music). Un album di dodici brani inediti scritti da nomi importanti della musica italiana e da giovani promesse, fortemente voluto da Massimo Ranieri dopo oltre vent’anni di musica napoletana. È l’album di un altro “nuovo inizio”, con quel titolo che richiama la strofa di una delle sue canzoni più amate, Perdere l’amore, nonché il suo ultimo libro, pubblicato da Rizzoli lo scorso anno. Perché, dice, «il sogno di continuare a vivere la vita non mi abbandona: non smetto di sognare, e ringrazio Dio per questo e per tutta la mia vita meravigliosa. Sogno di sognare sempre».

LA CADUTA “PROVVIDENZIALE”
Lo scorso 6 maggio, un grave incidente lo mette fuori gioco per un lungo periodo: durante uno dei suoi spettacoli al Teatro Diana di Napoli, l’artista cade dal palco, perdendo l’equilibrio: si rompe quattro costole, l’omero e un polso. «C’è il video della caduta, ma non voglio vederlo: mi sembrerebbe di rivivere tutto il dolore provato. So soltanto io quante notti sono stato in poltrona perché non riuscivo a dormire: non trovavo la posizione. Mi faceva male dappertutto. E la ripresa è stata lunga. È stato un momento buio: ho capito poi che era una manna dal cielo. Era stato il buon Dio a tirarmi per la giacca, per avvertirmi, come mi avesse detto: “Non ti vuoi fermare, capatosta? Mo’ ti fermo io”. E aveva ragione, dovevo fermarmi, perché ero davvero molto stanco. Mi ha ricordato un po’ mia mamma che quando andavo a Napoli diceva: “Guaglio’, devi riposarti un poco figlio mio, sei stanco”, e io le dicevo: “Appena finisco queste serate…”, ma non le davo mai ascolto. Ecco, è arrivato Lui». Riprende l’artista: «È stato per me un periodo di riflessione: quei 50 giorni fermo e la lunga riabilitazione li ho vissuti come un giusto riposo − anche se forzato e doloroso − che mi ha fatto capire tante cose: innanzitutto che anche se me ne sento 30, ho già compiuto 71 anni e il fisico, certe volte, non risponde più come prima. Bisogna farci i conti: devo tener presente che non posso pretendere troppo da me stesso come quando ero un ragazzo».

TENERE STRETTO IL BUONO

«E poi ho compreso quanto sia importante accorgersi delle cose che ti capitano, tenere strette quelle buone e lasciarsi alle spalle le zavorre, ciò che conta poco. Non dico che comincio a fare i conti, ma inizio ad acchiappare le cose a cui prima non avrei fatto caso, a dire “questa mi serve” oppure “questa non mi serve”. Sempre con il sogno di continuare a vivere e di dare la giusta importanza alla vita. Quella caduta, che poteva davvero finire peggio, è stata la pacca di Dio sulla mia spalla. Nessuno però riuscirà a togliermi le mie corsette sul Lungotevere, quelle no!», ride. Giovanni Calone “il buon Dio” lo nomina spesso e lo ringrazia, e non è un modo di dire, un intercalare, ma è un riferirsi a un amico, a Qualcuno che ha sempre sentito vicino, fin dai primi anni della sua esistenza. Nato a Napoli, nel rione Pallonetto di Santa Lucia, il 3 maggio 1951 in una famiglia tanto povera quanto unita, Giovanni è il quinto degli otto figli di Giuseppina Amabile e Umberto Calone. Abitavano tutti in un’unica stanza al quinto piano, il ballatoio era la cucina e c’era una solidarietà tra vicini che Massimo non ha più trovato e che rimpiange.

L’INCONTRO CON DE SICA
Della sua famiglia Massimo parla con amore e tanta gratitudine, ricorda la pasta e patate così odiata che la madre metteva insieme con fatica, della fame in agguato, dei primi lavori a sette anni come garzone di una vineria, poi fattorino, ragazzo di bottega, commesso, barista e intrattenitore nelle cerimonie. E, anche, dell’incontro con Vittorio De Sica che, ascoltandolo cantare in italiano, lo rimprovera: «Figlio mio, ma come, tu che sei napoletano, e con la voce che ti ritrovi… Dovresti cantare Napoli!». Il resto è storia: della musica, del teatro, del cinema e della televisione, perché da allora Massimo Ranieri non si è più fermato. «In ogni cosa c’è sempre Dio, che mi ha dato un grande dono, un talento che non va sciupato: è come aver ricevuto una chiamata, la più importante. Non sprecare i miei doni è il mio modo di ringraziarlo, è la mia risposta di responsabilità. Perché ha scelto me tra milioni di persone. Dietro a ogni successo, io sento l’intervento di Dio: e vale per tutti. Qualsiasi sia la propria vocazione».

L’ESEMPIO DEI GIOVANI

Una fede, quella di Massimo, che non lo abbandona e che gli arriva dai genitori: «La fede è tutto. Ti dà coraggio, ti fa sentire più forte. Non ti fa dimenticare gli altri. Chi ha fede crede sempre nel prossimo e cerca di aiutare il più debole, chi in quel momento ha più bisogno. Nella vita ci sono momenti belli e brutti: la fede ti aiuta ad affrontarli. Quando vivi dei momenti belli bisognerebbe accorgersene: è lì che vince la fede e ti mette le ali. Ma anche nelle difficoltà ti indica la possibilità di giornate con il sole e non con le nuvole». Così, per tornare al titolo dell’album, per Massimo Ranieri i sogni sono ancora in volo, tutti lì ad aspettarlo: «Sto lanciando il disco ma sto già pensando al prossimo progetto: è un sogno che ho da sempre. Riuscire a fare un concerto accompagnato da una grande orchestra di 120 elementi: sono 47 anni che ho questo desiderio!», e batte il pugno sul tavolo, ridendo, «Ho la testa dura!». «Mia madre ci ha messo nove mesi per mettermi al mondo, mio padre è quello che mi ha creato come cantante, ha creduto in me, mi ha permesso di diventare l’uomo che sono, ha continuato a sognare con me: ma io dico sempre grazie Patatè (Patatèrno: Padreterno in napoletano, ndr) che mi hai messo al mondo. Grazie a Dio ancora mi diverto e non mi annoio mai, magari sono stanco, ma la mia fede è questa: mi hai messo al mondo e mi stai facendo fare un viaggio meraviglioso e incredibile, e nessun sogno poteva regalarmelo».

CANTANTE, ATTORE E SHOWMAN
Cantante, attore, conduttore televisivo, showman e regista teatrale italiano. La carriera di Massimo Ranieri è lunga e ricca di successi. Nel 1964, a soli 13 anni, con lo pseudonimo di Gianni Rock incide il suo primo disco e sbarca a New York in tournée come spalla di Sergio Bruni. Nel 1969 vince al Cantagiro con Rose rosse. Nel 1988 vince il Festival di Sanremo con il brano Perdere l’amore. Ha pubblicato 31 album e 36 singoli, raggiungendo anche “picchi record” di vendite, segno dell’amore che il pubblico nutre per lui: con quattordici milioni di dischi è tra gli artisti italiani che hanno venduto di più nel mondo. Ha avuto alcuni amori importanti ma non si è mai sposato. Ha una figlia, Cristiana, che lo ha reso nonno.

CHI É
Età 71 anni
Professione Artista a tutto tondo
Famiglia Proviene da una famiglia umile e credente
Fede Sincera, ereditata dai genitori

Teologia / Calendario e speranza. Ogni giorno apre per noi una nuova possibilità: per vivere, credere, imparare, amare


Fonte: famigliacristiana.it
Lessi tantissimo tempo fa – non mi ricordo dove – un bel testo “sapienziale” sul calendario e sul tempo che passa. Mi sono rimaste nell’anima poche immagini di questo testo, tra cui la seguente: il calendario è uno specchio della tua vita, tu ne strappi una pagina e lui prende un giorno della tua vita…

Ero giovanissimo, un ragazzino, quando lessi queste righe, ma ricordo che quella presa di coscienza del tempo che passa mi scosse profondamente. Vivendo ormai da più di due decenni lontano dalla mia famiglia di origine e vedendo mediamente i parenti una volta l’anno (e anche meno), ho iniziato a vedere a ogni visita – e sempre più – il passaggio del tempo sulla pelle, negli occhi, nelle “cose”. Ok… vi starete chiedendo: «Sto leggendo il primo numero dell’anno, mi vuoi deprimere?». Tranquillo, sto solo creando l’atmosfera! Vorrei condividere un pensiero personale (e positivo, spero) sul tempo, quel tempo che passa inesorabilmente sia che siamo presenti o assenti. La buona notizia è che il tempo che passa non è una fatalità.

E, per rendere l’idea, vorrei condividere con voi tre prospettive degne di noi cristiani, a inizio anno. La prima prospettiva: la cosa di cui vale la pena prendere coscienza non è la fatalità del tempo che passa, ma la possibilità che abbiamo in ogni nuovo istante di essere dono, di essere presenti agli altri e a Dio. La seconda cosa, più importante della prima: pensavo come la sapienza della Chiesa ha calcato l’anno liturgico sul ciclo di un anno per ricordarci che questo tempo presente è «eternità velata» (per citare lo scrittore inglese C.S. Lewis) o, ancor più, è “l’Eterno rivelato”, è Dio che ci fa compagnia, che cammina con noi nel nostro quotidiano. La terza prospettiva tira le somme delle altre due: dato che il tempo è ancora presente e disponibile, dato che il Signore è presente in questo tempo, c’è ancora e sempre un barlume di speranza.

A volte è difficile vederla. A volte è addirittura difficile sopportarla o annunciarla. Ma ogni giorno del nostro calendario “strappa” per noi una nuova possibilità: per vivere, per credere, per imparare, per amare, per permettere all’Amato di sanarci e di santificarci. Buon anno nuovo!

Giovani, fede, multimedia

Giovani, fede, multimedia – Facoltà Teologica del Triveneto

Realtà giovanile, linguaggi multimediali, comunicazione della fede: si costruisce sull’intreccio di queste tre dimensioni il libro Giovani, fede, multimedia. Evangelizzazione e nuovi linguaggi, a cura di Assunta Steccanella e Lorenzo Voltolin, con prefazione del sociologo Fausto Colombo, Università Cattolica del Sacro Cuore, nuova uscita nella collana Sophia della Facoltà teologica del Triveneto in coedizione con Edizioni Messaggero Padova.

La riflessione nasce all’interno di un laboratorio teologico-pastorale condotto nella stessa Facoltà per indagare una variabile determinante introdotta dalla pandemia di Covid nel panorama della comunicazione: lo spazio digitale come dimensione ormai imprescindibile.

Di qui la ricerca, sviluppata da una decina di autori, ha approfondito alcuni aspetti dei linguaggi multimediali, avvicinati nelle loro peculiarità e coordinate fondamentali, per trovare un orientamento sui modi adeguati di incarnare la missione nello spazio digitale. «Pensare e sperimentare forme nuove di partecipazione, nuovi codici e nuovi modi di comunicare la fede: si tratta di una grande sfida con risvolti potenzialmente fecondi in un tempo complesso come l’attuale» si legge nell’introduzione firmata da Assunta Steccanella. «Porsi alla scuola dei percorsi comunicativi dei giovani offre alla pastorale non solo la possibilità di entrare in relazione con loro ma anche di imparare nuove vie per il cammino dell’evangelizzazione tout court».

Il procedere della ricerca si muove fra tre poli: l’ascolto, il discernimento, le pratiche, secondo lo schema proprio della teologia pratica che mette in circolo prassi e teoria in un rimando continuo che ha come sfondo la centralità dell’agire umano nel processo conoscitivo.

La prima parte del libro – In ascolto del mondo giovanile – si sofferma su alcune prassi di comunicazione attraverso i new media, sul ruolo delle emozioni e sulla portata comunicativa dell’agire concreto (contributi di Carlo Meneghetti, Domenico Cravero e di alcuni componenti della fraternità del Sermig).

Il secondo passaggio – Coordinate per il discernimento sul mondo giovanile – considera i criteri che valgono per tutta l’azione evangelizzatrice della Chiesa mettendo a tema quelle coordinate che sembrano particolarmente preziose quando ci si voglia rivolgere ai giovani e abitare lo spazio digitale (Roberto Tommasi, Sergio Gaburro, Dario Vivian, Assunta Steccanella, Leonardo Paris, Giorgio Bonaccorso, Lorenzo Voltolin).

La terza e ultima parte si concentra sulle Nuove pratiche per il mondo giovanile, presentando alcune concrete esperienze di comunicazione della fede in ambiente digitale, che possono aprire l’orizzonte di ricerca e progettazione di prassi a-venire che assumano un linguaggio capace di comunicare il vangelo: un piccolo tentativo di inculturazione della fede verso il mondo giovanile in ambiente digitale.

«Il confronto con la comunicazione digitale che viene introdotto nel testo sollecita e accompagna il lettore verso la conoscenza di una realtà che abbraccia diverse dimensioni, personali e sociali. In e per mezzo di essa il soggetto è coinvolto: nelle sue emozioni, con la sua immaginazione, attraverso il linguaggio visivo e sonoro – subìto e agìto – egli elabora il proprio universo interpretativo della realtà» spiega Steccanella.

«Scopo del cammino svolto è stato quello di individuare e offrire alcune coordinate orientative per il lavoro di comprensione e di apprendimento di un tale modo – multimediale – di comunicare, prezioso anche per la comunicazione della fede, in particolare verso i giovani. Non si tratta di una missione impossibile: una sollecitazione emergente, infatti, è a riscoprire il patrimonio di linguaggi performativi propri della tradizione cristiana, così contemporanei nella loro struttura. La sfida è quella di ri-mediarli adeguatamente nell’ambiente digitale, uno spazio di evangelizzazione non più nuovo, molto frequentato ma non sempre valorizzato».

  • STECCANELLA A. – VOLTOLIN L. (a cura), collana Sophìa Praxis, Ed. Messaggero, Padova 2022, pp. 296, € 23,00, EAN 9788825054606.
  • fonte: settimananews.it

La testimonianza di fede della giornalista Rai Marina Nalesso

La giornalista Marina Nalesso

Famiglia Cristiana

«Gesù mi ha presa per i capelli. Ero così disperata che avevo persino cominciato a frequentare incontri di buddisti nel tentativo di cercare lì la pace». È la testimonianza di fede della giornalista Rai Marina Nalesso, conduttrice di Tg1 e Tg e dallo scorso 18 novembre portavoce del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, che ne ha parlato in un’ampia intervista al settimanale Maria con te, in edicola da giovedì 8 dicembre, nella quale ha anche raccontato il motivo per cui non rinuncia, anche quando va in video, alla corona del rosario indossata con orgoglio e convinzione, anche quando era stata travolta dalle polemiche. Era il 2016, conduceva il suo primo telegiornale Rai. Il rosario delle polemiche è tornato, per la verità, alla ribalta nel 2019 e, più di recente, a fine ottobre di quest’anno. Stessa storia. Marina Nalesso si presenta al Tg2 con il suo rosario. E riparte la giostra degli attacchi, dei commenti più e meno politicizzati, ognuno dice la sua. Dall’altra parte c’è lei. Che non arretra di un millimetro e spiega a Maria con te: «Non lo tolgo mai, proprio mai e non ho intenzione di farlo in futuro. Non mi è mai passato per la testa, neppure per un secondo, di toglierlo o nasconderlo prima di andare in onda. Perché mai dovrei farlo. Racconta del mio amore per Maria e Gesù. Ogni tanto scoprono che porto il rosario al collo e riesplode il delirio, ma io sono assolutamente serena. La Madonna è arrivata nella mia vita di pari passo con il mio risveglio interiore. La prego spesso perché mi dia la forza di non agire d’impulso, di non replicare alle azioni degli altri, specie in circostanze di aggressività o prevaricazione».

Maria con te la giornalista racconta il suo travagliato percorso di conversione: «Dopo l’incontro con don Antonio, cappellano della Rai, arriva un altro incontro a cambiarmi, questa volta definitivamente, la vita», ha detto, «un’amica m’invita alla sua cena di compleanno e qui conosco un altro sacerdote, giovane e schietto, con cui mi metto a parlare per ore. Un dialogo illuminante, folgorante oserei dire. Che mi ha spalancato le porte della fede e dell’amore per Cristo. È come se, di punto in bianco, mi si fosse aperto il cuore, il cervello e, allo stesso modo, ho cominciato a sentire il bisogno di andare in chiesa, di pregare, di andare a messa tutti i giorni. Se non lo faccio, ora, sto male: devo andare a messa, a costo di farlo la mattina presto prima di andare al lavoro. Se non incontrassi Gesù tutti i giorni, non riuscirei più a vivere».

Dopo questo percorso, è sbocciata anche la devozione mariana: «Maria è arrivata di pari passo con il desiderio crescente di condividere, di pregare insieme a qualcuno. E il vuoto si è riempito, ancora una volta, grazie all’incontro con un consacrato: un frate francescano, padre Cristoforo Amanzi, fondatore di una comunità, la Fraternità francescana intitolata a Maria Madre della Riconciliazione e della Pace, di cui ho abbracciato in pieno la spiritualità. È grazie a loro, ai frati e alle suore che ne fanno parte, che dopo Gesù ho scoperto Maria…».

Rivela, infine, che il suo “luogo del cuore” è Medjugorje: «È la mia seconda casa. Ci sono andata la prima volta nel 2007 con don Antonio, il cappellano della Rai, e ci torno ogni volta che posso anche perché la mia Fraternità, a cui appartengo da laica, ha una casa di spiritualità proprio lì».

Le domande che nutrono la fede: «La Chiesa a volte le teme ma sono un esercizio spirituale, soprattutto quando non conosci la risposta»

Le domande… le domande… sono loro il cruccio di padre Maurizio. Nella Chiesa è raro avere la possibilità di porre domande. Ecco perché da giovane prete, quando nel 2008 arrivò a Roma, ebbe l’intuizione dei “Cinque passi”. Un percorso di formazione che da quattordici anni richiama più di 500 giovani a incontro, oltre alle migliaia collegate in streaming da tutta Italia. Ogni anno si tengono cinque serate, ciascuna su un singolo tema, senza un filo conduttore unico. La prima mezz’ora è una catechesi. Dopo, chiunque e in qualsiasi momento, può porre domande in maniera anonima, scrivendole su un foglietto.

Quel cretino di un cristiano. Cinque passi al mistero

«Gli argomenti dei cinque incontri li scegliamo all’inizio dell’anno insieme alle persone che frequentano l’Oratorio di San Filippo Neri», spiega padre Maurizio. «Ognuno è libero di proporre, se ne parla e poi se serve si vota. Talvolta i temi che presento vengono bocciati, vedremo quest’anno… ora stiamo scegliendo i prossimi», commenta sorridendo. Tra gli argomenti possibili si spazia dal tema del corpo ai novissimi (cioè le “cose ultime” che stanno al termine della vita: la morte, il giudizio, l’aldilà), dalla gratitudine alla vecchiaia.

Incontro padre Maurizio Botta, 47 anni, piemontese di Biella, nella comunità dell’Oratorio di San Filippo Neri a Santa Maria in Vallicella – Chiesa Nuova, in pieno centro a Roma. Mi accoglie nella sua stanza, stracolma di libri. «Questo per me è fondamentale: lo studio, l’approfondimento. Una volta i preti erano uomini di cultura, oggi questo aspetto mi sembra si stia perdendo. Ma come fai a dialogare con la gente se non sei una persona ricca di interessi, di passioni?».

MISSIONARIO DEL DIALOGO

Proprio grazie alla preparazione e alla riflessione che precede ogni incontro padre Maurizio prova a confrontarsi con ogni tipo di domanda. «All’inizio mi preoccupava il fatto di espormi ai quesiti senza conoscerli prima. Poi, ho deciso di fidarmi di quello che Gesù dice nel Vangelo: lo Spirito Santo vi suggerirà cosa dire.

Il vero problema della Chiesa mi sembra che continui a essere la mancanza di fede. Io non ho paura delle domande, non perché sappia tutte le risposte, ma perché mi fido e cerco il confronto con dolcezza. Una domanda è sempre buona, mentre secondo me nella Chiesa abbiamo un problema con le domande, non c’è uno spazio in cui porle. Sono temute, eluse, fanno paura».

Riprende: «Per me è un esercizio spirituale, sono consapevole che espormi a una domanda può voler dire anche entrare in contatto con le ferite delle persone, con chi è arrabbiato con Dio o con la Chiesa. Molte volte, soprattutto all’inizio, mi sono sentito in difficoltà, mi tremava la voce, ma ora non temo di dire che su quell’argomento non ho una risposta, che ci devo riflettere: ecco perché sono tranquillo. In pratica in questo modo ti abitui a non vincere nella risposta. Io non voglio vincere, voglio confrontarmi».

Il dialogo aperto e disarmato è anche quello che cerca costantemente con i ragazzi e le ragazze delle scuole medie e superiori in cui insegna e con cui cerca di relazionarsi con un approccio «missionario esplorativo», spiega, «facendomi accompagnare alla scoperta del loro mondo, e un atteggiamento né giovanilistico, né giudicante, ma capace di mettersi sullo stesso piano, alla pari, con sincero interesse».

Come quando, ricorda, chiese a una ragazza del liceo di chi fosse il volto ritratto sulla maglietta che indossava; da quella domanda – questa volta posta da padre Maurizio – nacque un dialogo profondo su una canzone della cantautrice Billie Eilish.

La scuola è «una palestra, un’esperienza che ti stana» perché spesso c’è distanza tra la fede e i giovani «che però hanno una visione della religione meno ideologica rispetto al passato, a volte sono indifferenti, ma anche l’opposizione è superficiale, non è radicata ideologicamente come nel passato, c’è un terreno potenzialmente fertile, disponibilità».

Anche tra i banchi padre Maurizio si confronta ogni giorno con tematiche e domande di ogni tipo, che affronta nonostante si tenga lontano da mondi in cui i giovani sono immersi, come quello della tv e dei social media. «In questo sono molto pasoliniano. Pier Paolo Pasolini disse cose profetiche contro la tv: vent’anni di regime fascista non hanno cambiato il popolo come pochi anni di tv».

CERCASI ADULTI APPASSIONATI
Non si considera un sacerdote anti-tecnologico, ma solo contrario alla superficialità e alla dispersività di alcuni mezzi. «Non so se vale per tutti, ma a me aiuta stare lontano dai social», confida padre Botta. «Quando dico che non ho lo smartphone la gente mi guarda come se fossi il ragazzo di campagna o con la tenerezza con cui guardi un gattino – racconta prendendosi in giro – ma io ho fatto esperienza di dialoghi bellissimi a scuola, pur avendo 30 anni più dei miei studenti ed essendo un disadattato tecnologico. Vedo che si crea vera condivisione, vero interesse reciproco, in un dialogo alla pari. Invece sui social noto morbosità, assenza di realismo. Poi, il fatto che siano strutturati per creare dipendenza mi impedisce di fidarmi del mezzo in sé».

Riprende: «Il fatto di non averli mi aiuta a vivere il silenzio, da cui nasce la vera comunicazione, mi apre, non mi chiude. La capacità di comunicare non risiede negli strumenti. I giovani desiderano solo adulti appassionati, che sappiano indicarti una meta. Come quando guardi l’Everest. Io cerco di far vedere che è bello, che deve essere stupendo andarci. Ma poi provarci è un’avventura, un percorso. Il mio compito come prete non è abbassare l’Everest ma indicare la sua bellezza e risvegliare la voglia di raggiungerlo».

CHI È PADRE MAURIZIO BOTTA – L’IDENTIKIT
Età: 47 anni

Vocazione: Sacerdotale

Congregazione: Oratorio di San Filippo Neri

Fede: Alimentata dal dubbio

IL CAMMINO DEI CINQUE PASSI

L’esperienza dei Cinque Passi al Mistero si svolge ogni anno nella Chiesa di Santa Maria in Vallicella a Roma (Chiesa Nuova). Da quattordici anni richiama più di 500 giovani a incontro. Ogni anno si tengono cinque serate, ciascuna su un singolo tema, senza un filo conduttore unico. È possibile seguire gli incontri in streaming sul canale YouTube Oratorium.

>> L’ULTIMO LIBRO SULLE DOMANDE DELLA FEDE


Padre Maurizio Botta è un autore prolifico: ha scritto diversi libri fra cui – da ultimo – Quel cretino di un cristiano. Cinque Passi al Mistero, pubblicato da San Paolo lo scorso gennaio. Il testo, con la prefazione di Costanza Miriano, raccoglie le domande e le risposte degli incontri dell’edizione 2019-2020 del percorso dei Cinque passi. Fra i temi affrontati: il legame tra scienza e fede, la libertà e i suoi confini.

(Foto in testata: Stefano Dal Pozzolo/Contrasto)

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Ripartenze… Vedere oltre

Nel monastero benedettino Mater Ecclesiae dell’isola di San Giulio, scoglio selvaggio sul lago d’Orta, c’è un laboratorio dove si restaurano antichi tessuti pregiati. Nel tempo scandito dalla regola dell’“ora et labora”, mani sapienti sono all’opera per ridare nuova vita a indumenti sacri e profani, manufatti ecclesiastici, stendardi. Le lavorazioni sono commissionate da musei, amministrazioni comunali e privati cittadini. L’anno scorso le suore hanno confezionato una parte del manto realizzato per l’Incoronazione della Madonna di Oropa, una cerimonia che avviene ogni cento anni a partire dal 1520 e che a causa della pandemia era slittata al 2021. Il manto è un enorme patchwork costruito cucendo assieme migliaia di pezzi di tessuto spediti al santuario da persone che volevano rendere omaggio alla Vergine con qualcosa che testimoniasse un momento speciale della loro vita. Quando incontrai suor Lucia, la responsabile del laboratorio, mi disse: «Restaurare non è solo dare nuova vita a un tessuto, è un’avventura che ci fa penetrare nel mistero presente in ogni cosa.

Si entra in un silenzioso rapporto tra passato e presente. Mentre lavoriamo, i tessuti raccontano la loro storia attraverso frammenti di fili, rammendi, cuciture». Ci vogliono un cuore e occhi speciali per vedere “oltre”.

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I best seller della fede. Sul podio fa capolino Simone Cristicchi

A CURA DI REBECCALIBRI

Aria nuova al vertice del podio con l’ultimo libro di Simone Cristicchi: legato a uno spettacolo teatrale e ispirandosi a Comizi d’amore di Pasolini porta il lettore alla scoperta del senso profondo delle cose. Tra i rientri e nuove entrate, la riflessione spirituale in chiave ironica e provocatoria come nel libro di Nerosfina edito nel 2016.

La classifica dei libri più venduti nelle librerie religiose viene elaborata da ‘Rebeccalibri’ rilevando i dati dalle librerie Ancora, Paoline, San Paolo. Sono esclusi i titoli inferiori a 5 euro e non sono compresi la Bibbia, i testi liturgici, la catechesi, i sussidi. Info: www.rebeccalibri.it, il portale dell’editoria religiosa italiana.

In «Arabia meridionale» per una Chiesa vicina, delle genti

Quando parla del servizio che sta per iniziare, della realtà che lo attende, usa l’immagine della Chiesa in cammino, spiega l’importanza di essere vicini alle persone, indica nell’appartenenza un valore da far crescere. Monsignor Paolo Martinelli, 63 anni, frate minore cappuccino, dal 2014 vescovo ausiliare di Milano, è il nuovo vicario apostolico dell’Arabia Meridionale. Una regione molto vasta che comprende gli Emirati Arabi Uniti, l’Oman e lo Yemen, per una popolazione di circa 43 milioni di persone, tra cui, più o meno, un milione di cattolici. La nomina, di papa Francesco, è arrivata lo scorso 1° maggio. «Da una parte – spiega monsignor Martinelli – è stata certamente una sorpresa perché non me l’aspettavo. Dal-l’altra parte i frati cappuccini sono molto impegnati in quell’area e da oltre un secolo ne esprimono il vicario apostolico. Quando ho ricevuto la comunicazione della nomina ho capito subito di che cosa si trattava, essendo questa una missione ben conosciuta nel mio ordine. Ho vissuto tutto con grande gratitudine e con un profondo desiderio di preghiera ».

La sua nuova comunità è composta quasi del tutto da lavoratori migranti. Il suo predecessore, monsignor Paul Hinder la definisce una Chiesa pellegrina.

L’accostamento tra Chiesa di migranti e Chiesa pellegrina è molto bello. In questa prospettiva nell’essere Chiesa composta da migranti, provenienti da tanti Paesi diversi, si esprime qualche cosa di essenziale per tutta la Chiesa. Significa concepirsi conti- nuamente in cammino, verso la pienezza del regno di Dio. Si tratta di offrire a tutti i fedeli in modi adeguato alle proprie condizioni di vita la possibilità di approfondire la propria fede, la vita cristiana in tutti i suoi aspetti, facendo sentire la vicinanza della Chiesa alla gente, nella gioia e nel dolore. I fedeli nell’Arabia meridionale frequentano molto la Chiesa, chiedono i sacramenti, sentono con particolare intensità la celebrazione eucaristica. È importante far crescere il senso di appartenenza alla Chiesa come popolo di Dio.

Domani inizierà il suo servizio. Come?

Sarà una cosa molto semplice: inizierò il mio ministero celebrando la santa Messa nella Cattedrale di San Giuseppe ad Abu Dhabi, sede del vicariato apostolico, insieme al mio predecessore, monsignor Paul Hinder, ai sacerdoti e ai fedeli.

La sua nomina, come si diceva, conferma l’importanza della presenza francescana in questa terra così particolare.

Direi, da una parte, che la famiglia francescana è da sempre coinvolta nel Medio Oriente, nella Terra santa. Questa presenza è radicata nella esperienza stessa di san Francesco d’Assisi. Si tratta di una storia di otto secoli che intreccia i francescani con il Medio Oriente. Dall’altra parte i frati cappuccini sono impegnati da tanto tempo proprio nella penisola arabica e portano avanti una preziosa presenza con i migranti e di dialogo interreligioso, in particolare con i fedeli musulmani.

Tornando a Hinder, cosa le ha consigliato in particolare?

Ci sentiamo regolarmente, mi sta piano piano introducendo in questa nuova missione. È un uomo di grande sapienza ed equilibrio. Ha fatto cose straordinarie in questi anni. La realtà del vicariato è molto cresciuta sotto il suo episcopato. Avremo modo di stare insieme presto e sono desideroso di ascoltare tutti i suoi preziosi

consigli.

Immagino che un ruolo importante come punto di riferimento lo svolgerà il Documento sulla fratellanza umana.

Si tratta di un testo fondamentale. Essendo stato firmato proprio ad Abu Dhabi da papa Francesco e dal grande Imam di Al-Azhar penso che noi abbiamo il dovere e la responsabilità di custodirne la memoria e di approfondirne le implicazioni culturali, sociali e religiose. Data l’attuale situazione mondiale, questo documento sta diventando ogni giorno sempre più importante.

Elemento molto importante in una realtà dove i cristiani sono minoranza sarà il dialogo interreligioso, da calare nella realtà quotidiana.

Credo ci siano diversi livelli di relazioni interreligiose. Da una parte è necessario approfondire la conoscenza reciproca, favorire il dialogo; dall’altra parte occorre mostrare il contributo che le religioni possono e devono dare allo sviluppo della pace, della giustizia e della fratellanza universale. In questa prospettiva è molto interessante il lavoro che il vicariato sta facendo attraverso le scuole cattoliche. Oltre all’immenso lavoro fatto dalle parrocchie, che servono pastoralmente oltre un milione di cattolici presenti in questa zona, è decisivo il lavoro fatto dalle nostre scuole; infatti molti studenti sono musulmani. Si tratta di una grande occasione di confronto. Il ruolo dell’educazione è fondamentale per il dialogo concreto tra cattolici e musulmani.

Qual è la maggior preoccupazione, se c’è, e la più grande gioia che l’accompagnano all’inizio di questo cammino?

Da una parte sento certamente il timore di essere chiamato ad affrontare una esperienza pastorale tanto diversa da quanto ho vissuto finora. Si tratta di una realtà complessa, non mancano ricchezze ma anche situazioni dolorose come quella drammatica dello dello Yemen. Dall’altra parte sono contento di poter contare su collaboratori molto validi e ben radicati sul territorio. Non pochi frati cappuccini che troverò nell’Arabia meridionale sono stati miei studenti a Roma, quando insegnavo teologia. Questa è per me una grande gioia. Sono soprattutto certo che il Signore è presente ed è all’opera anche in quella terra. È importante rinnovare il mio affidamento totale al Signore.

Lei è stato a lungo vescovo ausiliare di Milano, cosa vorrebbe esportare di ambrosiano in questa nuova esperienza?

Porto con me la ricchezza di questi otto anni vissuti al servizio della Chiesa ambrosiana. Inoltre, anche la Chiesa di Milano sta riflettendo da anni sull’essere “Chiesa dalle genti”, popolo di Dio formato da fedeli portatori di culture, tradizioni e carismi diversi. Porto con me questo spirito perché anche in Arabia meridionale la Chiesa sia sempre più unita e pluriforme.

Avvenire

Tra ‘Corpus Domini’ e festa del ‘Sacro Cuore’: cosa dicono a noi, oggi, queste feste?

In questi giorni la liturgia ci fa attraversare due feste un po’ particolari, a prima vista difficili da decifrare e quasi appartenenti ad un tempo e forse una fede diversi: la festa del ‘Corpus Domini’ (il pane consacrato, segno vivo e reale dell’Eucaristia celebrata) e la festa del ‘Sacro cuore di Gesù’ (da cui sgorgano “sangue e acqua”, sulla croce).
Se oltrepassiamo il linguaggio, anzi in realtà se ci entriamo dentro, scopriamo che la realtà di queste due feste è profondamente antropologica: l’esperienza cristiana – che trae origine da un mistero di incarnazione – non si accontenta di offrire parole e riti, sguardi al Cielo e gesti ‘sacri’, ma si contamina con la verità della nostra esistenza. E noi siamo fatti di carne, sangue, cuore, cibo che ci alimenta e che diviene segno profondo di condivisione e di cura, di dono ricevuto e offerto.

Il fatto di trovare – al principio della nostra via spirituale – il gesto di Cristo che prende se stesso, totalmente, e si fa pane (e vino) buono per la nostra esistenza, che ama al punto da consumarsi, da non tenere più niente per sé, e che – ogni volta che ci ritroviamo nel suo nome – spezza l’eternità di Dio nelle briciole della nostra finitezza, ci aiuta a non cadere nell’inganno di pensare che la fede sia anzitutto un esercizio di virtù, un coraggio nel compiere gesti ‘che Dio vuole’, una volontà che si piega e sottostà a Qualcuno che percepisco sopra di me, confusamente, impersonalmente.

Al principio sta l’obbedienza: non quella intellettuale o meccanica, ma quella dell’essere amati, chiamati, convocati. L’obbedienza del non aver scelto ma dell’essere stati scelti. L’obbedienza di trovare un dono che ci precede, un cibo che ci nutre e pretende di essere essenziale, necessario.
In questa obbedienza, in questo essere sopresi dall’Amore che Gesù ci mostra, intuiamo la profondità dell’animo di Dio, che si riversa nell’animo di suo Figlio, che ci inonda del dono dello Spirito. Il cuore di Gesù non è la sede dei buoni sentimenti, ma delle decisioni, della libertà che si radica e porta frutto, della passione che si apre al dolore e alla fragilità degli esseri umani e non si fa travolgere, ma con umiltà si mette a servizio.

Il discepolo guarda Gesù, le mani che accarezzano, guariscono, consolano; che spezzano il pane e versano il vino, che vengono inchiodate. E vede il cuore del Figlio dell’Uomo che lo chiama ad avere un cuore grande, non impaurito, non blindato, non ‘sclerotico’.
Come leggiamo nell’enciclica Deus Caritas est: “Tutta l’attività della Chiesa è espressione di un amore che cerca il bene integrale dell’uomo”. Non è un programma aziendale, ma un’esigenza, un’urgenza. È essere stati trasformati e non potersi sottrarre alla Parola che ci invia. È carne, sangue, cuore. È sovrabbondanza di vita.

Siamo, con te, Maestro,
come i discepoli in cammino verso Emmaus,
in cammino sui sentieri della storia.
Ci fai scoprire il senso vero del nostro vivere,
ci inviti a restare con te per scoprirti come amore che si dona.
Ti cerchiamo Maestro,
vorremmo incontrarti nelle piccole cose della nostra vita,
raggiungerti tutte quelle volte in cui ci sembri lontano.
Noi ti cerchiamo, affannati, e invece tu sei qui,
tu abiti in quel luogo che noi conosciamo così poco di noi:
il nostro cuore.
Un cuore affannato, distratto, stanco,
che noi abbiamo trasformato in pietra.
Tu invece lo conosci e ne hai compassione:
conosci le nostre paure, i nostri limiti,
le nostre incoerenze, le nostre debolezze.
Ci accogli così, senza chiederci niente,
ti fai nostro compagno di strada:
ti fai pane per noi!
Ti preghiamo, Signore: fa’ che stando davanti a Te
lasciamo spazio alla tua presenza.
Fa’ che anche il nostro cuore si faccia ardente,
e sappiamo riconoscerti sempre
sulle strade della vita.

vinonuovo.it

Correre ancora…

di: Antonio Torresin

pasqua

Prima ancora che sorga il sole qualcosa si muove, anzi c’è gente che corre. Corrono le donne a portare gli aromi, corre Maria di Magdala, corrono anche Pietro e il discepolo amato che Maria chiama; tutti corrono ma dove stanno andando così di fretta?

Proprio loro che prima stavano a guardare da lontano – come le donne – o erano fuggiti – come i discepoli, ora corrono. Che fretta c’è? Che cosa li ha smossi dal loro torpore?

Corrono mentre è ancora buio, la luce non è ancora sorta all’orizzonte; sembrano voler “svegliare l’aurora” come dice il salmo. Bel paradosso: dovrebbe essere il sole a risvegliarci! Eppure, nulla sarebbe accaduto se loro non si fossero messi in moto per andare incontro alla luce. Solo chi cerca può trovare, e l’annuncio della risurrezione lo riceve solo chi gli corre incontro.

Ma cosa spinge queste donne (perché sono loro le prime) a sfidare la notte? Non è tutto finito? Non ha ragione chi pensa che ormai non c’è più nulla da fare, che tanto un cadavere non scappa, e quindi non c’è fretta se si tratta solo di elaborare un lutto e una perdita definitiva?

In questa urgenza che muove le donne, che spinge Maria a correre, c’è un presagio forse? Un’intuizione tipica di chi ama e non si arrende alla perdita dell’amato? Un’intuizione d’amore senza contenuto: non sanno cosa sperare, cosa troveranno, ma cercano e sperano perché il loro cuore non smette di battere, perché l’amore non si è spento del tutto.

Corrono per non perdere il contatto con quel corpo – dove l’hanno messo? – con quella storia d’amore, perché senza quel corpo non possono vivere, non potrebbero andare avanti.

La tomba vuota

La sorpresa inaspettata è che ad attenderle trovano una tomba vuota. Quel corpo che cercavano non c’è, e al suo posto un vuoto che all’inizio mette paura alle donne, lascia smarrita Maria. Che cosa significa? All’inizio solo questo: è davvero successo, le hanno portato via il suo Signore, il suo amato.

E il primo atto di fede consiste nel restare davanti a quel vuoto, entrare – come fanno Pietro e il discepolo amato, pur senza capire – prendere atto, accettare una perdita. Maria lo fa con il cuore gonfio d’amarezza: rimane davanti alla tomba vuota, non accetta di andarsene, non riesce a staccarsi da quel vuoto.

È difficile stare davanti alla tomba vuota. Per Maria lo sguardo è velato dalle lacrime: non vede che il suo dolore, ma dovrà proprio attraversare quel lago di lacrime come si attraversa il mare per entrare nella terra promessa, come si attraversa la morte per entrare nella vita. Dovrà vedere meglio perché all’inizio non riconosce nel giardiniere null’altro che un estraneo: ma sempre il Signore si fa vicino senza essere conosciuto, come uno straniero. E come il popolo nel deserto, davanti a quel vuoto, le donne sono prese dalla paura.

Per questo l’annuncio della Pasqua è preceduto da una parola che invita al coraggio: “non abbiate paura” dice l’angelo alle donne.

Attraversare la paura, reggere il vuoto, vedere oltre le lacrime, oltre il dolore: perché quel vuoto possa parlare, possa rivolgere loro una parola inattesa e sorprendente di speranza. Dalla tomba un buon annuncio, un Vangelo. Ed ecco che proprio da quella tomba giunge alle donne una parola, un Vangelo, un annuncio.

Questa parola pasquale ha a che vedere con un passato e con un futuro: restituisce un senso nuovo a quella storia che sembrava finita e che invece le attende davanti a loro, le aspetta in un futuro che si apre.

Così è per le donne al sepolcro: la pietra è tolta, un angelo – un messaggero che porta loro un annuncio, un Vangelo – rivolge loro queste parole: “voi cercate Gesù, il crocefisso. Non è qui, è risorto e vi attende in Galilea”.

Voi cercate Gesù, quel Maestro che vi ha amato, che avete incontrato sulle strade della Galilea e che è morto. Non vi sembra possibile che quell’uomo così unico che vi ha guarito, vi ha dato così tanta vita, ora sia quel crocifisso sconfitto sul quale la violenza sembra aver prevalso. Non è qui. Non è prigioniero della morte, perché la sua fine non è stata una smentita della sua vita, ma il dono totale di quell’amore con cui tutto è iniziato.

E un amore così totale non finisce, non può essere trattenuto dalla morte. Vi aspetta in Galilea: dovete tornare dove tutto è iniziato, dovete riprendere i primi passi della vostra storia con lui, dovete capire da capo quello che è successo e che non è finto. Lo potrete ritrovare nella memoria delle sue parole e delle sue opere, quelle che, mentre accadevano, non potevate capire fino in fondo, ma che ora potete ritrovare e rivivere, perché il Signore è vivo e voi vivrete ancora con lui per sempre.

Anche per Maria di Magdala c’è da raccordare il passato con il futuro. Si sente chiamata per nome, come la prima volta, come nessuno l’aveva chiamata con quella voce, con quell’amore. L’inizio dell’incontro con il Risorto è iscritto in una memoria viva della sua voce, di quella prima parola che aveva dato inizio a tutto.

Una memoria vivente che risveglia l’amore, che permette di attraversare il lago delle lacrime, di uscire dal dolore e vedere in modo nuovo. Così riconosce in quello straniero il suo Maestro – Rabbunì – il suo amato.

Correre ancora

Così le donne corrono in Galilea, con i discepoli, e Maria corre dai suoi fratelli a portare un annuncio di vita nuova. Correre ancora, con un cuore nuovo, con una speranza nuova. Quei discepoli, sopraffatti dalla stanchezza, abbattuti nel sonno la notte della prova, fuggiti per la paura ora corrono ancora.

Quelle donne smarrite che seguivano il crocifisso da lontano, corrono ancora. Maria di Magdala, che sembrava impietrita davanti al sepolcro, incapace di muoversi, paralizzata dalla perdita del suo Signore, corre ancora.

Chiediamo in questa Pasqua che il Signore ci rimetta in cammino, anzi ci faccia correre ancora. Se siamo giunti a questa Pasqua con tutta la stanchezza di anni difficili che ci hanno visto chiuderci nelle case, smarriti e impotenti davanti al male, alla violenza e alla guerra, ora possiamo correre ancora. La vita non è finita, è sempre all’inizio.

La memoria del Signore, delle sue parole e delle sue opere, la voce amorevole con cui ci ha chiamati la prima volta, non è finta: ci attende in avanti, ci aspetta in un futuro che non conosciamo ma che è certo e più forte della morte. Possiamo correre incontro al futuro nella certezza che ad attenderci ci sarà il Risorto, la vita nuova, i fratelli e le sorelle che il Signore sempre raduna da tutti i luoghi in cui ci siamo dispersi.

Correre ancora, amare ancora, sperare ancora, perché il Signore ha vinto la morte. Il futuro non fa più paura.

settimananews

Il primo comandamento di Cristo è l’amore, e l’amore è sempre rischioso. Non diversamente dalla fede, richiede il coraggio di trascendere sé stessi per entrare in un mistero sconosciuto

Tomáš Halík

Tomáš Halík – Epa/Facundo Arrizabalaga

Quest’anno Natale arriva di pomeriggio, in anticipo persino rispetto alla Messa della Vigilia. Di pomeriggio, mentre cui il giorno è ancora nella sua pienezza, e non alla sera, quando si potrebbe temere che sia già troppo tardi. Afternoon of Christianity, “Il pomeriggio del cristianesimo”, è il titolo del nuovo saggio di monsignor Tomáš Halík, in uscita nei prossimi mesi da Vita e Pensiero, la casa editrice che sta proponendo organicamente le opere del teologo ceco, vincitore di premi prestigiosi come il Templeton e il Guardini. Dopo Voglio che tu sia (2017) e Pazienza con Dio (2020), di recente è apparso Tocca le ferite (traduzione di Paolo Baiocchi, pagine 182, euro 16), sorta di manifesto programmatico di una “spiritualità della non-indifferenza” che ha nell’apostolo Tommaso il suo imprevedibile patrono. Nato a Praga nel 1948, Halík è stato segretamente ordinato sacerdote nel 1978 a Erfurt, in Germania. La sua vocazione è maturata nel silenzio delle chiese distrutte dal regime comunista. Da quelle volte devastate, racconta, ha imparato a guardare verso il cielo. Durante il confinamento planetario del 2020, ha pubblicato un breve saggio, Il segno delle chiese vuote, che attinge alla sua esperienza personale per annunciare i temi del nuovo libro. «Ogni tempo – riassume Halík per i lettori di Avvenire – è un tempo propizio».

Il concetto di kairós, in effetti, è decisivo del suo lavoro.

Kairós è il termine biblico che indica appunto il tempo opportuno. Per me praticare un metodo cairologico significa interpretare teologicamente i segni dei tempi, ossia tutto quello che accade nella cultura e nella società contemporanea, comprese le crisi e non esclusi i cambi di paradigma. Un cristianesimo maturo è in grado di abbracciare la vita nella sua interezza: non soltanto la luce del Tabor, ma anche le tenebre del Getsemani. La fede, non dimentichiamolo, cresce proprio grazie alle difficoltà, si tratti della secolarizzazione o della pandemia. Il mistero pasquale è il cuore del cristianesimo, ma di questo mistero fa parte il grido di Gesù abbandonato sulla croce così come il canto dell’allelluia all’alba della Risurrezione.

Tra i credenti, però, permane ancora un sentimento di paura: come mai?

Il comandamento fondamentale di Cristo è l’amore, e l’amore è sempre rischioso. Non diversamente dalla fede, richiede il coraggio di trascendere sé stessi per entrare nella nube di un mistero sconosciuto. Da dove viene la paura? Gesù pone la medesima domanda ai discepoli: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?», chiede. Ad essere spaventati sono i cristiani che hanno confuso la fede con l’ideologia o con una credenza religiosa. Perché la fede è un orientamento esistenziale, non una visione del mondo.

Per questo motivo lei è così interessato ai testimoni della contraddizione?

Da Pascal, Kierkegaard e Chesterton ho imparato a considerare il cristianesimo come una religione del paradosso. Mi sento ispirato da coloro che camminato nella notte oscura della fede, come hanno fatto molti mistici, da san Giovanni della Croce a Teilhard de Chardin. E poi c’è il genio oscuro di Nietzsche, il più divino tra i senza Dio. A fianco di queste notti individuali, nella storia dell’umanità e della Chiesa ci sono anche le notti oscure collettive. Teilhard ha concepito la sua grandiosa visione di unificazione universale, che per tanti aspetti anticipa l’enciclica di papa Francesco Fratelli tutti, nelle trincee della Grande Guerra.

Anche la sua generazione ha sperimentato una notte oscura?

Più di una, direi. Prima sotto la persecuzione comunista, poi con il dilagare degli scandali nella Chiesa. La lezione che possiamo trarne è sempre la stessa: ogni crisi è un kairós, un’occasione per purificarsi, scendere in profondità e crescere. In una parola, un’opportunità di trasformazione, di metànoia. Uno dei mie libri ha preso il titolo da un verso del poeta ceco Vladimír Holan, «Solo chi trema rimane fermo». Solo un medico che sia stato ferito può veramente comprendere e curare, solo una Chiesa ferita può diventare «ospedale da campo». Secondo una leggenda, un giorno il diavolo assunse l’aspetto di Cristo per apparire a san Martino, che però riuscì a smascherarlo con una semplice domanda: «Dove sono le tue ferite?». Sinceramente, non riesco a credere a un Dio, a una Chiesa o a una fede che non mostri le proprie ferite.

Deriva da qui la sua simpatia per gli atei?

Non esiste un ateismo assoluto. Quando cerca di assolutizzarsi, l’ateismo si costituisce in religione sui generis. L’ateismo è un fenomeno che presuppone una relazione, perché ha sempre la necessità di fare riferimento a qualcos’altro, e cioè a una particolare forma di teismo, a una specifica idea di Dio. Ogni volta che sento un ateo negare il Dio che ha in mente, mi viene da rispondergli che, grazie a Dio, io non credo in quel Dio lì. Insomma, laddove entrano in gioco le primitive e addirittura volgari convinzioni dei fondamentalisti, oppure si sostiene l’immagine deleteria di un Dio come crudele poliziotto morale, anch’io mi sento un po’ ateo, nel senso che quello non è il mio Dio. Ci sono tanti tipi di atei, così come ci sono tanti tipi di credenti. Esiste un ateismo non meno stupidamente dogmatico del suo fratello gemello, che è il fondamentalismo religioso, ma ci sono anche gli atei che, come Nietzsche e molti altri, non si stancano di lottare appassionatamente con Dio. Ecco, già l’Antico Testamento ci rivela la predilezione di Dio per questi lottatori dello spirito: Giacobbe e Giobbe, per esempio. Allo stesso modo, la Scrittura mostra il disprezzo verso i tiepidi e gli indifferenti, che sanno vomitati.

Qual è allora il vero avversario della fede?

L’idolatria, che comporta l’assolutizzazione di ciò che è relativo. Durante la pandemia, nel tempo delle «chiese vuote», Dio ci ha invitati a essere così creativi da stabilire una relazione personale con Lui anche al di fuori delle pareti di un edificio consacrato. Dal mio punto di vista, è stato un monito profetico: questo è quello che succederà in molte parti del mondo, se la Chiesa non si impegna subito in una riforma radicale. La chiamata di papa Francesco a intraprendere un percorso sinodale non poteva cadere in un momento migliore. Dobbiamo comprenderlo e agire di conseguenza, altrimenti le chiese, i conventi e i seminari chiuderanno presto e finiranno in vendita, uno dopo l’altro.

Che cos’è «il pomeriggio del cristianesimo»?

Ho preso spunto dalla metafora che Carl Gustav Jung applica alla vita umana. Secondo il fondatore della psicologia del profondo, dopo infanzia e gioventù (che corrispondono al mattino dell’esistenza) verso mezzogiorno arriva la crisi di mezza età, il cui superamento consente di entrare nella maturità del pomeriggio. In maniera analoga, nell’epoca premoderna abbiamo avuto un mattino del cristianesimo, impegnato nella costruzione di strutture istituzionali e dottrinali. La modernità ha portato con sé la crisi meridiana, che ha scosso le strutture tradizionali e che ha ormai raggiunto il culmine. Ma proprio adesso, quando secolarizzazione e ateismo sembrano all’apice, si apre la possibilità di un cristianesimo più consapevole e più fortemente connotato in senso ecumenico. Veniamo da una stagione nella quale la volontà di difendersi dagli esiti della Riforma protestante e della rivoluzione scientifica ci aveva indotti a rifugiarci entro i confini angusti di un cattolicesimo meramente confessionale. Emanciparsi da questo schema non può però indurci a dissolvere il cristianesimo nell’indistinto pluralismo postmoderno, né a perdere la nostra identità per conformarci al pensiero corrente. Al contrario, questo è il momento in cui dobbiamo tornare a interrogarci sulla nostra fede, andando al centro del messaggio evangelico. Questo, a mio avviso, è l’invito che Gesù ci rivolge oggi: operare per la metànoia, essere disponibili al rinnovamento. La metànoia è una forma di esodo, è la disponibilità a svincolarsi dalle strettoie dell’ego per andare incontro al mistero degli altri e di Dio. Un compito che coinvolge tutti, individui e Chiese. Insieme, dobbiamo rinunciare alle seduzione del narcisismo di massa e dell’autocompiacimento.

Non è più il tempo di guardare al passato, dunque?

Le due forme che il cristianesimo ha fin qui conosciuto, vale a dire religio (la perfetta integrazione tra fede e società, come nel Medioevo) e confessio (l’assimilazione della fede a una certa visione del mondo, come nella contrapposizione fra protestantesimo e cattolicesimo), somigliano ad abiti passati di misura a causa della crescita del bambino per cui erano stati confezionati. Nel suo pomeriggio il cristianesimo sarà sì una religione, ma in un altro senso, quello del verbo latino re-legere, “leggere di nuovo”. Abbiamo bisogno di un’ermeneutica inedita, che ci permetta di reinterpretare non solo le Scritture e la nostra tradizione, ma anche e specialmente i segni dei tempi. Il magistero di papa Francesco va esattamente in questa direzione e lo stesso metodo cairologico, in fondo, non è se non la prosecuzione dell’attitudine profetica che, nel corso della storia, ha permesso ai cristiani di rileggere in chiave sapienziale e contemplativa gli eventi nei quali di volta in volta si trovavano coinvolti.

Anche il Natale può spingersi verso il rinnovamento?

Pensi all’esclamazione dell’apostolo Tommaso davanti alle piaghe di Gesù: «Mio Signore e mio Dio!». In nessun altro brano dei Vangeli la divinità di Cristo è proclamata tanto esplicitamente. Ma anche la povertà della grotta di Betlemme è come una finestra attraverso la quale, per paradosso, la divinità del Bambino si rivela a noi. Le ferite e la povertà che incontriamo nel mondo sono le finestre che ci permettono di scrutare nell’intimità del mistero di Gesù, che è la sua unione con il Padre. Se ci rivolgiamo a Gesù come al nostro Dio e Signore, e se riconosciamo Dio nel Padre, sforzandoci di continuare ad ascoltare la Sua voce, non possiamo fare a meno di lasciare aperte le finestre della compassione, non possiamo permettere che il nostro cuore si inaridisca.

La fede è rischio, prova, confronto con il dubbio, esperienza di ricerca

La fede – lo abbiamo già visto – non è una certezza granitica, come mettere i soldi in banca in un conto corrente sigillato. Essa è rischio, prova, confronto con il dubbio, esperienza di ricerca. Anche Giobbe, l’innocente sofferente, ha avuto i suoi momenti di grande instabilità di fede, ma ha sempre mantenuto aperta e viva la relazione con il suo Creatore. Henry Bauchau, scrittore belga di lingua francese, ci dice qualcosa del genere nel suo romanzo Il compagno di scalata (e/o) mentre il protagonista vive la sofferenza della malattia della giovane nuora: «In quel momento pensavo che contasse solo l’amore di Dio, e che gli altri amori, maschili o femminili, fossero solo passeggeri, peregrini. Le cose sono andate diversamente. L’amore di Dio ha illuminato la mia vita con segnali brillanti e intermittenti. Le intermittenze di Dio, ecco la mia reale esperienza. Sono stato irradiato, talvolta illuminato, ma solo l’amore umano mi ha riscaldato».

Bauchau con questa affermazione ci insegna due cose: la prima, che la fede resta un dono gratuito e libero di Dio, una possibilità accordataci di poter guardare la vita con un terzo occhio divino; la seconda, che in queste «intermittenze» si manifesta la decisione dell’uomo di aderire a questa proposta divina.

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Il tempo che vola e non è mai solo nostro e la fede che apre

Lettera ad Avvenire

Caro direttore, i latini dicevano: “Ruit hora” (il tempo vola). C’è chi, un po’ paradossalmente, afferma che non il tempo passa per noi, ma noi passiamo nel tempo. Questo passaggio è estremamente rapido. Economizziamo il tempo, poiché è tanto prezioso! Solo chi potrà dire di averlo saputo spendere bene potrà anche dire di aver veramente vissuto. Mi auguro, dal profondo dell’anima, che l’anno 2021 porti luci di gioia e di speranza nei nostri cuori in un periodo tra i più bui della storia. Fede, speranza e carità siano le vere e invincibili armi di ogni cristiano e di ogni uomo e di buona volontà. Martin Luther King diceva: «Se la paura bussa alla tua porta, manda ad aprire la fede e vedrai che non c’è nessuno».

Franco Petraglia

Lunghi mesi senza un fuori, la fede dà «diritto di vuoto»

Gli enunciati del Credo alla luce del «vuoto» dei mesi di lockdown. «L’uomo ha diritto di voto, la bellezza ha diritto di vuoto per brillare» scrive il teologo Marco Pozza in ‘Ciò che vuoto non è’ (San Paolo, 224 pag., 16 euro scontato su Amazon). Pozza, parroco in un carcere del Nord-Italia, frequenta «gente abituata a stare chiusa da anni, decenni» ed è «posizione fortunata per poter riflettere sull’andamento del fuori. I miei uomini, a colpi di divieti, si sono abituati al vuoto. Lo chiamano mancanza: della libertà, della casa, degli affetti». L’effetto specchio è immediato. E allora si può indagare quel vuoto già a lungo indagato da qualcuno prima di noi, e farlo con l’aiuto di parole di fede. Di una fede che, da quel mattino di Pasqua del 33 d.C. sa sentire ‘pieno’ un sepolcro ‘vuoto’.

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