PROFUGHI ERITREI Una battaglia di civiltà che è solo all’inizio

di GIULIO ALBANESE – avvenire

 Tripoli ha dunque ceduto alle pressioni italiane (soprattutto) e internazionali (meno convinte a livello governativo), concedendo l’agognato ‘permesso di soggiorno’ ai circa 400 migranti irregolari eritrei che rischiavano di fare una brutta fine nel deserto libico. La cautela è d’obbligo, non foss’altro perché la concessione avviene in cambio di «lavori socialmente utili». Una dizione che, secondo alcuni osservatori, potrebbe celare un’altra dolorosa punizione, quella dei lavori forzati. Per non parlare del fatto che la Libia non riconoscerà mai loro lo status di rifugiati per tutelarli. Andrebbe comunque ricordato che si tratta di una vecchia storia: in questi anni un altissimo numero di africani che tentavano di fuggire dall’inferno dei loro rispettivi Paesi – dal Darfur all’Eritrea, per non parlare della Somalia – sono stati lasciati morire o rispediti al mittente dalle autorità libiche, decretando di fatto la loro condanna alla pena capitale. Ecco perché lo scorso 29 giugno, dopo la ribellione degli eritrei al porto di Misurata, esplosa perché non potevano imbarcarsi per l’Europa, i profughi sono stati arrestati e deportati in massa in pieno deserto, lontano da occhi indiscreti e soprattutto da aiuto umanitario. Eppure, la Provvidenza ha voluto che scattasse una vera operazione di salvataggio, innescata da un semplice sms lanciato dalle roventi celle del campo libico di Brak di Sheba, e ripreso in Italia da una rete improvvisata di nostri connazionali, espressione eloquente di quella solidarietà fattiva che scorre nel sangue di tanta gente di buona volontà. Al contempo, andando al di là delle contrapposizioni nell’arena politica italiana, vanno riconosciuti sia l’impegno in questa penosa vicenda della nostra diplomazia guidata dal ministro Frattini, con una doverosa ‘pressione’ su Tripoli, in ottemperanza al trattato di amicizia italo-libico; come anche la sensibilità dell’opposizione nel richiedere e sostenere l’intervento governativo a seguito delle denunce di pestaggi e altre vessazioni. D’altronde, qualora questi profughi fossero stati rimpatriati, il regime di Asmara si sarebbe comunque vendicato nei loro confronti. Bisognerà ora vedere fino a che punto la Libia manterrà fede al proprio impegno, considerando anche i lavori socialmente utili che gli eritrei dovrebbero svolgere nelle prefetture libiche. Detto questo, è ormai evidente che l’Europa deve assumersi le proprie responsabilità, concertando un’azione politica comune, rispettosa del diritto d’asilo, nei confronti di quei migranti provenienti da Paesi vittime di regimi totalitari. Ben vengano dunque iniziative di monitoraggio sui diritti umani, come nel caso dell’ordine del giorno Marcenaro, accolto al Senato, che impegna il nostro governo a vigilare sull’applicazione del trattato di amicizia con la Libia. E come l’accoglienza in Europa, dunque anche in Italia, di profughi e rifugiati politici. Sono molti a credere che la distinzione oppositiva tra migranti economici ed esuli non possa essere interpretata rigidamente, come spesso avviene in Europa, in quanto la maggior parte delle persone in cerca di asilo oggi è anche un migrante economico. Sarebbe pertanto pretestuoso lavarsi la coscienza di fronte a questi drammi. Parafrasando un opinionista, equivarrebbe a una sorta di imperdonabile «analfabetismo emotivo».