Eremiti

di: Lorenzo Prezzi
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Nel contesto spirituale e sociale del dopo-concilio sono riemerse figure spirituali considerate al tramonto: dall’ordine delle vergini (un migliaio in Italia) all’ordine delle vedove, fino agli eremiti e alle eremite. Questi ultimi sono valutati in circa 300 nel nostro paese.

Il moltiplicarsi di persone che, a titolo religioso, sociale o colturale si definiscono eremiti e la permanente incertezza di criteri con cui una Chiesa locale può riconoscerli hanno suggerito alla Congregazione dei religiosi, a cui fanno riferimento le esperienze di vita consacrata, di dedicare un testo a La forma di vita eremitica nella Chiesa particolare.

Sviluppato in un’ottantina di pagine, il documento si riferisce agli eremiti operanti nelle Chiese locali che, quindi, fanno riferimento ai vescovi. Non si prendono in considerazione gli eremiti che appartengo a ordini monastici o famiglie religiose che prevedono questa scelta all’interno della propria testimonianza.

Oltre agli interessati, sono stati i vescovi a sollecitare un testo di riferimento per facilitare il loro compito di discernimento e di riferimento. La non facile gestazione dell’indirizzo spirituale e normativo è riconoscibile dal tempo trascorso fra la sua approvazione papale (31 luglio 2021), la firma del prefetto del dicastero (14 settembre 2021) e l’uscita a stampa con i tipi della Libreria editrice vaticana in queste settimane.

Uscire dal limbo

«La forma più antica e rigorosa di separazione dal mondo» (n. 2) come appare oggi? Chi sono i nuovi eremiti? Delle tipologie prevalenti, due appartengono alla tradizione e sono normate dal diritto proprio. Sono i chierici o i laici che appartengono a istituti di vita eremitica o a comunità monastiche e apostoliche che prevedono questa scelta di vita. Le altre due fanno invece riferimento alle Chiese locali: chierici e laici che fanno vita eremitica senza professare i voti; chierici e laici che fanno vita eremitica professando i tre voti di povertà, castità e obbedienza.

Per uscire dal limbo di identità occasionali e confuse, il documento sottolinea per i vescovi di verificare negli interessati lo stato di salute, la sufficiente maturità, l’equilibrio psico-affettivo. Anche l’età ha la sua importanza. Così la verifica delle precedenti esperienze che suggerisce di ricostruire i passaggi da altre comunità ed esperienze. Inoltre si richiede «l’assenza di debiti o di altre pendenze di natura civile, penale e canonica» (n. 32).

«Se l’eremita è vincolato ai voti, devono essere stabiliti, preferibilmente nel progetto (di vita): la durata dei periodi di assenza dall’eremo, l’inserimento o servizio nell’ambito diocesano, l’eventualità di tempi e spazi per l’accoglienza e l’ospitalità, in quali casi vi sia richiesta l’autorizzazione del vescovo» (n. 39).

E, per quanto riguarda l’abitazione, si dice: «L’eremo deve rispondere alle esigenze della più rigorosa separazione dal mondo e della solitudine che favorisce il silenzio e la preghiera. Allo stesso tempo, tale luogo non deve essere troppo isolato, impervio o di difficile accesso. Il luogo scelto non deve essere troppo lontano da un luogo di culto se l’aspirante eremita non è presbitero. Gli spazi devono assicurare, oltre alle esigenze minime della vita personale, anche la possibilità di un luogo adatto alla preghiera, alla conservazione dell’eucaristia, con il permesso del vescovo, e, se sacerdote, alla celebrazione eucaristica. Quando la proprietà non appartiene alla diocesi, è compito del vescovo, personalmente o tramite un suo delegato, verificare l’idoneità del luogo prescelto» (n. 41).

Questa note rapsodiche e frammentarie permettono di intuire l’insufficiente affidabilità di chi, maschio o femmina, si definisce eremita senza adeguata verifica, preparazione spirituale e maturità umana. Ma anche l’uso fragile del riferimento all’eremitismo senza l’attenzione al contesto abitativo, al legame ecclesiale e a una prudente gestione della propria salute e del proprio mantenimento.

La cordiale disponibilità ad accogliere e a riconoscere all’interno della comunità credente la donna e l’uomo di vita eremitica richiede prudenza, apertura di cuore e discernimento.

Fra Chiesa e storia del mondo

L’eremitismo, contrariamente ad una tradizione ancora presente nella coscienza ecclesiale, non è il vertice di una ricerca spirituale, un modelle superiore valutato in base alle rinunce che esso comporta. Non è l’esito ultimo di un progresso spirituale riservato a pochi (laici – consacrati – eremiti). È piuttosto una delle forme della chiamata universale alla santità, certo caratteristica e preziosa, ma collocata dentro una tradizione e definita dal suo rapporto con la comunità cristiana, il mondo e la storia.

È una imitazione di Cristo che si configura «nella separazione dal mondo, si ripropone di riservare al silenzio, alla solitudine e alla preghiera, uno spazio che in quanto tale si dischiude alla lode di Dio e alla salvezza del mondo» (n. 9).

«Ogni singolo eremita fa propria una forma di vita che lo precede e lo supera, incarnandola storicamente, nella docilità all’azione dello Spirito Santo. In tal senso, quella eremitica è in se stessa incompiuta, parziale restituzione della multiforme forma Christi, ed è figura in aperta relazione con il corpo ecclesiale e il corpo della storia. Occorre pertanto passare oltre il retaggio storico e l’immaginario teologico-spirituale che considerava l’eremita come vertice “individuo” di una vita totalmente donata» (n. 10).

Come sottolineava Pier Damiani, l’eremita è una sorta di microcosmo in cui il mondo e la Chiesa vengono rappresentati davanti a Dio.

Caratterizzato dalla separazione dal mondo, dalla preghiera, dal silenzio e dall’ascesi, l’eremita ha il riconoscimento ecclesiale in una Chiesa locale «attraverso la conferma, la direzione e l’accompagnamento, da parte del vescovo diocesano. Si tratta di un delicato processo di discernimento che postula, per la sua migliore realizzazione, l’esercizio ecclesiale della sinodalità» (n. 12).

Riprendendo le caratteristiche già enunciate, il testo sottolinea anzitutto il silenzio come «atteggiamento fondamentale che esprime la radicale disponibilità all’ascolto di Dio» (n. 14).

L’eremita sperimenta una solitudo pluralis o una multitudo singolaris. «Quella dell’eremita non è una vita in cui la singolarità, e quindi la soggettività, assurge a criterio del tutto, ma una vita in cui la pluralità – quella che portiamo dentro e quella del mondo – trova il suo senso alla luce dell’Unico necessario, integrando la complessità dell’io di ciascuno come in un microcosmo» (n. 16).

La sua solitudine è altra cosa dall’individualismo contemporaneo e la disciplina personale è ben diversa dalla compiacenza narcisistica corrente.

Il deserto e le periferie

Con il silenzio, prende forma una particolare insistenza della preghiera, come adorazione, come lode, come supplica di intercessione. Il riferimento concreto è alla Liturgia delle ore, alla Parola di Dio e alla lectio divina.

Le pratiche ascetiche (il distacco, la veglia, il digiuno, la cura per la natura ecc.) sono volte ad affermare l’assoluto di Dio nella propria esistenza.

Vertice della preghiera è l’eucaristia anche quando non vi sia possibilità di celebrarla, come nel caso delle eremite o degli eremiti laici.

Più che di separazione dal mondo il documento parla di collocazione nelle sue periferie, accompagnata dalla genialità cristiana che trasforma il margine nella dilatazione dei confini. Il margine è la nuova immagine del tradizionale deserto. Se, nella tradizione, il luogo dell’eremita era il deserto, l’isola, poi la foresta, oggi è appunto il margine e il confine.

Solitudine, silenzio, preghiera, ascesi: sono tutti elementi che non contraddicono l’ospitalità se questa non si gonfia fino a condizionare la separatezza orante. Solo quest’ultima garantisce un approccio profondo al mistero contenuto anche nelle altre fedi.

Col vescovo nella Chiesa locale

Un ruolo molto particolare è rivestito dal vescovo. È lui che ha il compito del discernimento. L’eremo è un’esperienza esigente che ha necessità di un tempo congruo di prova e un programma di formazione continua.

Il testo privilegia una forma esplicita di consacrazione tramite i voti di povertà, castità, obbedienza. In ogni caso, va celebrato «un atto liturgico pubblico, presieduto dal vescovo diocesano, con il quale l’eremita emette la professione dei consigli evangelici e manifesta il senso ecclesiale di questa consacrazione» (n. 37).

Accanto ai voti, alla celebrazione ecclesiale della forma di vita, il documento sottolinea l’opportunità di scrivere una ratio vivendi, cioè una regola o programma di vita, dove l’eremita «puntualizza gli obblighi e gli impegni derivanti all’assunzione/professione dei consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza mediante voto o altri vincoli sacri. In appendice si offre un fax-simile della regola o progetto di vita.

A una beve narrazione della chiamata personale si aggiungono gli aspetti costitutivi della vita eremitica, l’impegno alla formazione permanente, lo spazio e i luoghi della vita con i riferimenti esterni utili, come dove celebrare l’eucaristia per i non chierici. E ancora gli elementi fondamentali della propria vita spirituale e dei voti, la relazione con il vescovo e con la Chiesa locale, l’utilizzo dei mezzi di comunicazione. Non ultimo, il lavoro da cui trarre sostentamento e le necessarie garanzie per l’assistenza sanitaria e pensionistica.

La scelta del lavoro è rilevante. Spesso si privilegia quello a metà tempo o un servizio interno alla diocesi. Non viene escluso il lavoro manuale o dipendente. Per il chierico può essere il ministero sacerdotale, ma in forma occasionale e non prevalente. Non deve in ogni caso soffocare il proprio della vita eremitica.

Alcuni numeri del documento sono dedicati al chierico, già appartenente a un istituto che non prevede la forma eremitica. Il vescovo avrà cura di accoglierlo dopo che il superiore (ordinario) avrà scritto al dicastero. E il candidato dovrà accettare un tempo di prova, prima di essere incardinato in diocesi. Per gli eremiti e le eremite il cambiamento del vescovo è un passaggio delicato da affrontare con la necessaria disponibilità.

Infine, il testo prevede il possibile abbandono dell’eremo che può avvenire tramite una formale dispensa del vescovo dai voti o dai sacri vincoli per gravi e fondate cause.

Ispiratori

Il tono complessivo della nota del dicastero è ispirato dalla necessità di offrire ai vescovi uno strumento di riferimento per la loro responsabilità, ma non manca di sottolineare l’accogliente cordialità per riconoscere il dono dell’eremitismo nella Chiesa di oggi.

Fra i nomi che emergono dalle citazioni ricordo quello di Teodoro Studita, di Atanasio, del padre del monachesimo occidentale Benedetto, di Pier Damiani. Un riferimento particolare viene fatto a Charles de Foucauld, alla sua straordinaria intuizione sulla vita segreta di Gesù a Nazareth e sul senso del deserto: «Il deserto mi riesce profondamente dolce; è bello e salutare porsi nella solitudine di fronte alle cose eterne; ci si sente invasi dalla verità».

Settimana News

SPIRITO giusto per salvarci dal caos

«Come a Ninive è tempo di mettersi in discussione, di aprirsi all’azione dello Spirito Santo. Il male che ci opprime, il disordine, lo smarrimento della società, per quanto grandi e pervasivi, non sono che un vortice di cupezza dentro un oceano di luce. Dobbiamo riconnetterci a quella luce. Questa è la prospettiva». Come gli abitanti di Ninive che hanno ascoltato Giona, «accogliendo lo Spirito cominciamo a divenire più consapevoli della nostra situazione, perché quella luce illumina». Lo Spirito genera in noi un’insopprimibile nostalgia di luce. Antonella Lumini, che vive a Firenze una realtà eremitica in un appartamento cittadino, dopo anni di nascondimento ha sentito la spinta di comunicare la sua esperienza. Autrice di libri di ricerca spirituale (l’ultimo, con Paolo Rodari, è in uscita per Einaudi col titolo La custode del silenzio) e animatrice di incontri di spiritualità, tiene dal 17 al 19 giugno, come ormai da diversi anni, il consueto «Incontro sul silenzio » dedicato quest’anno al tema «L’azione dello Spirito Santo nell’umanità». L’iniziativa, nel suggestivo monastero di Valledacqua sui Monti Sibillini, consiste in quattro incontri di preghiera, meditazione e silenzio. Noi siamo nella situazione di Ninive? «Siamo come ingoiati da un vortice di cupezza che ci tira giù, sconnessi dalla nostra interiorità assetata di luce e di infinito. Il lavoro spirituale consiste nello smantellamento delle forze egoiche che ci dominano, delle dipendenze psichiche che ci allontanano dalla luce. Affidarsi allo Spirito significa affidarsi all’amore, alla sua azione rigeneratrice ». Come ci si rende conto della necessità di aprirsi allo Spirito? «Prendendo contatto con la realtà più intima: quel vuoto che niente riesce a colmare. C’è sempre un momento di crisi in cui ci si pone la domanda. Spesso la crisi è pesante e sembra non avere soluzioni. A quel punto crollano le maschere, le false illusioni, e si entra in contatto con la verità che ci abita nel profondo. Solo allora, in quella nudità che fa gridare aiuto, possiamo conoscere il Consolatore, come lo chiama Giovanni evangelista. In questi momenti, in cui lo Spirito si apre un varco al nostro interno, possiamo lasciarci amare dall’amore che chiede di abitare stabilmente in noi. Quel momento arriva per tutti perché la salvezza è per tutti, e arriva non solo una volta. Se ci rendiamo disponibili, la nostra vita si ricongiunge a quell’oceano di luce che pervade la creazione, ma che non riusciamo più a vedere. A quel punto inizia un’altra storia». La consolazione è la beatitudine degli afflitti. «Lo Spirito è consolatore perché effonde dalla relazione di comunione che unisce il Padre e il Figlio attraendo a sé l’umanità. Lo Spirito Santo unisce tutti coloro che si aprono alla sua opera. Il corpo mistico vive di questa comunione di spirito, è la comunione dei santi. Solo se si attinge alla fonte dell’amore si diventa capaci di amare. È lasciandosi consolare che si impara a consolare». Da dove viene l’idea di un ciclo di incontri su Spirito e silenzio? «Tutto ebbe origine quando, molti anni fa, a seguito di una crisi esistenziale, scoprii il silenzio. Da allora incominciai a percepire una presenza amorosa, un abbraccio di tenerezza a cui non sapevo dare una spiegazione. Col tempo ho compreso che quella presenza viva, rigenerante, materna, era lo Spirito Santo (ne ho parlato nel libro Dio è madre). Un grande sconosciuto, che è invece molto intimo e presente: solo che non ci poniamo mai in ascolto». Come se ne percepisce la presenza? «Leggendo gli Atti ci si rende conto di come gli apostoli percepivano lo Spirito: una costante presenza viva, come fosse una persona. Decide, consiglia, spinge le azioni, aiuta in tutto. È vero che c’era stata la Pentecoste e che le linanzitutto gue di fuoco si erano posate su di loro, ma anche ogni cristiano riceve il battesimo in “Spirito Santo e fuoco”. Basterebbe vivere in pienezza il nostro battesimo per percepire questa presenza vivificante, che rigenera la vita tutti i giorni». Il nostro modo di vivere sembra così distante da tutto questo… «In realtà lo Spirito non è distante. C’è una percezione completamente distorta dovuta a un inganno della mente abituata troppo a ragionare. Questo soffoca il cuore. Lo Spirito Santo è la sostanza pura che emana dalla sorgente della vita per espandersi negli universi, è la potenza creatrice che nutre di amore ogni essere vivente. È come un oceano di luce. L’immagine più efficace si trova all’inizio della Genesi: lo Spirito di Dio che volteggia sulle acque dà l’idea della luce divina che si irradia per formare i mondi. Siamo tutti dentro questa irradiazione. Una scintilla di quella luce è nel cuore di ognuno e Gesù viene nel mondo per risvegliare queste scintille. È come vento che rivitalizza il fuoco celato sotto la cenere. Se si riaccende la memoria della luce, la nostra scintilla interiore si rianima, cresce, diviene fiamma». A Valledacqua parlerà di come lo Spirito si manifesta nella Bibbia…«Dalle Sacre Scritture ho ricavato quaranta pagine di citazioni. NelPentateuco il termine ruah, sostantivo femminile che significa “vento”, “alito”, è sempre seguito dal nome di Dio nelle due varianti Elohim eAdonai. Lo Spirito appartiene solo a Dio, è Dio che lo effonde sui profeti. Nei libri sapienziali, in Giobbe, nei Salmi, compare ruchi, “il mio spirito”, per indicare lo spirito dell’uomo. Poi cominciamo a trovarlo declinato con altre parole: spirito contrito, spirito infedele, spirito altero, spirito di smarrimento… Assume cioè tutte le valenze psichiche. Si evidenziano due piani: c’è lo Spirito di Dio che è luce, intelligenza, sapienza, amore, ma anche uno spirito oscurato, tenebroso. Per questo viene introdotto l’aggettivo “santo”, per distinguere lo Spirito di Dio dallo spirito decaduto. L’espressione Spirito Santo compare nell’Antico Testamento pochissime volte, mentre diviene subito presenza soggettiva nel Nuovo Testamento». E l’attualità dello Spirito? «Lo Spirito è sempre attuale perché la sua opera è costante. È luce, vita che si rinnova. Del resto nei Vangeli la morte è cecità, buio, morte spirituale. Se penso alla cupezza, al vuoto che incombono sul nostro tempo, direi che l’attualità dello Spirito è il coraggio di vivere, la testimonianza di una presenza d’amore nel mondo». © RIPRODUZIONE RISERVATA

 

Intervista «Oggi il male, il disordine, lo smarrimento sociale ci opprimono come a Ninive nei tempi della Bibbia Per uscirne dobbiamo ascoltare il profeta Giona e riconnetterci alla luce che ci permette di divenire consapevoli della situazione» Parla Antonella Lumini, «eremita urbana» e maestra di spiritualità L’eremita Antonella Lumini

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