«Gli oratori ora sappiano essere scuola di fraternità»

Avvenire

La sfida della ripartenza non può prescindere da quella di una rinnovata fraternità. E da una socialità che, per i cristiani, coinvolge anche la dimensione della fede. Lo sottolinea monsignor Daniele Gianotti, vescovo di Crema, diocesi caratterizzata da una virtuosa sinergia tra parrocchie, oratori, circoli dell’associazione Noi e iniziative di Pastorale giovanile.

Si parla tanto, e in più ambiti, di ripartenza. Che ruolo ricoprono i nostri oratori in questo atteso ritorno alla normalità?

La normalità è senz’altro anche normalità di interazioni a cui dobbiamo sperare di tornare pienamente: normalità dell’incontro, del saluto, della parola scambiata, del tempo passato insieme. Quando, con i giovani di Crema, siamo stati pellegrini tra Loreto e Assisi, nel 2018, e abbiamo incontrato alcune comunità delle Marche colpite dal terremoto, ci siamo sentiti dire che il sisma aveva fatto perdere tutti i luoghi di socialità, e questo pesava molto sulla vita di quelle comunità. La pandemia ha provocato qualcosa del genere: ha bloccato per mesi tanti luoghi di socialità ‘fisica’ (che, in realtà, non è mai solo fisica, perché lo spirito si innesta nel corpo), compresi i nostri oratori, con conseguenze deleterie. Bisogna tornare ad ‘abitare’ questi luoghi per ritrovare noi stessi.

C’è un augurio che, più di altri, si sente di offrire ai tanti giovani coinvolti in queste settimane nei Gre- st e nelle attività estive delle parrocchie?

Quello che ho fatto, anche esplicitamente, in diverse visite fatte nelle settimane scorse alle attività estive: di vivere queste esperienze come esercizi di fraternità. La fraternità, che è dono e vocazione, e che sta al cuore del Vangelo, è sempre anche da imparare e da costruire: mi sembra che l’esperienza dei Grest possa e debba diventare una vera scuola di fraternità.

I mesi più duri della pandemia hanno trasformato la vita delle nostre comunità. Quale messaggio possiamo trarre da quel periodo per progettare il futuro?

Ci siamo resi conto che la vita di fede non può ridursi solo ai momenti ‘centralizzati’ di una parrocchia. Naturalmente ciò era vero anche prima della pandemia, ma forse abbiamo capito che non sempre i cristiani sono attrezzati per vivere la propria fede nell’intreccio con il quotidiano, tra le mura di casa, nei rapporti ordinari con le persone, o quando si tratta di fare i conti con i limiti, la ma-lattia, le difficoltà economiche e nelle relazioni. Nel primo lockdown avevamo coniato lo slogan #siamocasasiamochiesa, per dire che la vita di Chiesa non era certo interrotta per il fatto che gli oratori fossero chiusi o che non si poteva celebrare la Messa con la presenza fisica dei fedeli, ma ci siamo accorti che le risorse per vivere anche in casa la vita di fede erano un po’ ridotte. La pandemia ci ha ricordato l’importanza della dimensione del ritrovarsi, che definisce la natura stessa della Chiesa come comunità che si raccoglie intorno a Gesù, rispondendo alla sua chiamata. Si torna all’esigenza di una socialità che per i cristiani ha anzitutto una dimensione profonda di fede: è il ritrovarsi intorno a Cristo. Attorno a questo nucleo prendono poi forma le altre dimensioni del ritrovarsi, per costruire nuove forme di umanità condivisa.

L’esigenza della prossimità è, oggi più che mai, un’urgenza per la Chiesa. In che modo le parrocchie e i loro oratori possono affrontare questa sfida?

La parabola del buon samaritano offre una direzione chiara. Al dottore della legge, che domanda «chi è il mio prossimo?», Gesù risponde con l’esempio scandaloso del ‘samaritano’ (lo straniero, l’altro, l’eretico…) che si fa prossimo a chi è nel bisogno. La Chiesa – e dunque anche le parrocchie – sono messe alla prova in questo: farsi prossimo, secondo la parola di Gesù. A chi? A tutti, verrebbe da dire. Nel dubbio, un punto di partenza sicuro c’è: gli ultimi, quelli ai quali nessuno si avvicina, quelli che vengono lasciati sul ciglio della strada. Chi sono, per noi, oggi? Forse si tratta di ripartire da questa domanda.

Monsignor Daniele Gianotti insieme con i bambini dell’Estate Ragazzi

Giornata di preghiera per il Vescovo eletto Daniele

Giovedì 9 febbraio, giornata di preghiera in Diocesi per il vescovo eletto di Crema, monsignor Daniele Gianotti, che alla sera, alle 20.30, nella chiesa parrocchiale di Bagnolo, nella celebrazione eucaristica presieduta dal Vescovo, emetterà la professione di fede e il giuramento previsti prima dell’ordinazione episcopale.

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Quando dico “Credo” – scheda 8 III Dom. T.O. 27 Gennaio 2013

Dio Padre

Il vangelo di Luca, che stiamo leggendo alla domenica in questo anno liturgico, si caratterizza tra le altre cose per il modo in cui include le parole del Gesù terreno tra la risposta ai genitori che lo ritrovano nel tempio (“… non sapevate che debbo occuparmi delle cose del Padre mio?”: Lc 2,49; è la prima parola di Gesù nel terzo vangelo) e l’ultima parola di Gesù sulla croce (“Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”: Lc 23,46).

Così, con grande sapienza narrativa, Luca iscrive tutta la vicenda di Gesù sotto questo grande arco, che è il riferimento al Padre. Gli altri evangelisti hanno usato altri strumenti, ma la convinzione è comune: non si capisce nulla di Gesù, della sua persona e della sua missione, se non si tiene conto del modo in cui Gesù vive e manifesta la sua esperienza di Dio come Padre, il suo rapporto filiale con lui.

Abbiamo già accennato (cf. puntata n. 6) al modo caratteristico con cui Gesù sintetizza tutto questo nel termine abbà. Vale la pena di notare che Gesù non ‘inventa’ la parola “padre” per parlare di Dio: questo linguaggio è già conosciuto sia nel giudaismo che nel mondo greco, ed è un linguaggio che senza dubbio coglie qualcosa di importante intorno a Dio anche prima di Cristo. Ma la novità sta in ciò che Gesù ci mette dentro; sta nel modo singolare in cui egli riassume in questa parola la sua relazione con Dio e ciò che Egli è per gli uomini e per il mondo.

Il che vuol dire: quando professa la fede in Dio come “Padre”, il credente non proietta su Dio la propria esperienza terrena della paternità (o, eventualmente, della maternità). Questa esperienza, per quanto significativa, è sempre limitata; potrebbe essere, a volte, addirittura infelice. Parlando di Dio Padre, invece, il credente pensa al Dio di Gesù Cristo; pensa al modo in cui Dio si è fatto conoscere come Padre a partire dall’esperienza e dalla testimonianza di Gesù Cristo. Che Dio sia “Padre”, insomma, non lo impariamo dalla nostra esperienza umana, sempre limitata: lo impariamo in modo vero e pieno solo da Gesù Cristo, da tutte le sue parole e gesti, dalla sua intera esistenza.

E, forse, guardando alla paternità di Dio che ci è dischiusa da Cristo, impariamo non solo a essere figli, ma anche a essere meglio padri e madri, in ogni forma di paternità e maternità che ci è chiesto di vivere.

don Daniele Gianotti