Rimini, coppia di coniugi nominata alla guida di una parrocchia senza prete: è la prima volta. La scelta del vescovo per la crisi di vocazioni

Una coppia di coniugi per la prima volta alla guida di una parrocchia rimasta senza prete. Lo ha deciso il vescovo di Rimini, monsignor Francesco Lambiasi, per sopperire alla mancanza di clero che ha colpito anche la sua diocesi. Dopo la partenza di don Angelo Rubaconti, attualmente in un periodo di riposo e riflessione, monsignor Lambiasi ha nominato il diacono Davide Carroli e la moglie Cinzia Bertuccioli quali referenti pastorali della parrocchia dei Santi Biagio ed Erasmo di Misano Monte e collaboratori di don Giuseppe Vaccarini e don Roberto Zangheri nell’animazione dell’unità pastorale che unisce le parrocchie di Misano Adriatico, Misano Monte, Scacciano e Villaggio Argentina.

Una decisione analoga è stata presa, nel 2018, nella diocesi di Papa Francesco, ovvero Roma, dal cardinale vicario Angelo De Donatis. Il porporato, infatti, ha affidato la parrocchia di San Stanislao, nella zona di Cinecittà, alla cura di un diacono sposato, Andrea Sartori. Quest’ultimo si è trasferito nella canonica con la moglie Laura e i loro quattro figli. Ma, a differenza di Rimini dove il vescovo ha dato l’incarico alla coppia di coniugi, a Roma il cardinale De Donatis ha nominato soltanto il marito diacono e non anche la moglie.

Il porporato ha spiegato la sua decisione, che ha destato non poche polemiche, affermando che “San Stanislao vive una speciale vocazione che è quella di diventare una diaconia: una comunità cristiana che, in sinergia con le parrocchie del territorio della prefettura, diventa uno spazio di accoglienza e di accompagnamento dei poveri e delle persone ferite e sole, in vista del loro sviluppo umano integrale. L’idea che c’è dietro è quella di recuperare una prassi antica della Chiesa, che prevedeva il sorgere di diaconie a fianco alle parrocchie, per il servizio dei poveri del territorio. A Roma ne è documentata l’esistenza fin dal VII secolo”.

Il problema della mancanza di clero è da tempo all’ordine del giorno nella Chiesa cattolica. Se ne è discusso in modo molto approfondito durante il Sinodo dei vescovi sull’Amazzonia che si è tenuto nel 2019 in Vaticano. Alla vigilia dell’assemblea, l’ipotesi più accreditata era quella di ordinare sacerdoti uomini sposati, i cosiddetti “viri probati”. “Una delle cose principali da ascoltare – afferma il documento preparatorio di quel Sinodo – è il gemito di migliaia di comunità private dell’Eucaristia domenicale per lunghi periodi”. Ciò si rende necessario soprattutto in quei Paesi dove il calo di vocazioni è talmente alto da non consentire ai pochi preti presenti sul territorio di raggiungere tutti i fedeli con una certa assiduità, almeno per garantire i sacramenti e la messa domenicale.

Il Sinodo, però, ha scelto a larga maggioranza un’altra strada: la possibilità per i diaconi permanenti, ovvero uomini sposati che hanno ricevuto il primo grado dell’ordine sacro, di essere ordinati sacerdoti. Da sottolineare che sia nella diocesi di Roma che in quella di Rimini sono stati nominati proprio due diaconi per guidare le rispettive parrocchie. “Considerando – si legge nel documento finale dell’assemblea sinodale – che la legittima diversità non nuoce alla comunione e all’unità della Chiesa, ma la manifesta e la serve, come testimonia la pluralità dei riti e delle discipline esistenti, proponiamo di stabilire criteri e disposizioni da parte dell’autorità competente, nel quadro della Lumen gentium 26, per ordinare sacerdoti uomini idonei e riconosciuti della comunità, che abbiano un diaconato permanente fecondo e ricevano una formazione adeguata per il presbiterato, potendo avere una famiglia legittimamente costituita e stabile, per sostenere la vita della comunità cristiana attraverso la predicazione della parola e la celebrazione dei sacramenti nelle zone più remote della regione amazzonica. A questo proposito, alcuni si sono espressi a favore di un approccio universale all’argomento”.

Bergoglio, però, almeno per il momento, ha chiuso questa strada non mettendo in atto quanto proposto dal Sinodo dei vescovi sull’Amazzonia. Una possibilità, quella di ordinare preti alcuni diaconi sposati, non ipotizzata solo per quella vasta regione del pianeta, ma anche per altre realtà, per esempio europee, dove la mancanza di clero è un problema serio. Da tempo l’episcopato tedesco si interroga sulla scarsità di vocazioni. Nel suo ultimo libro, La Chiesa brucia, Andrea Riccardi, storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, sottolinea che “la crisi del cristianesimo interpella i cattolici e la classe dirigente della Chiesa. Nella gestione immediata delle difficoltà, specie dovute alla mancanza di personale ecclesiastico, i vescovi prendono provvedimenti quali l’accorpamento delle parrocchie o la loro soppressione”.

Lo stesso Francesco, parlando alla Cei nel 2018, ha evidenziato questo problema: “La prima cosa che mi preoccupa è la crisi delle vocazioni. È la nostra paternità quella che è in gioco qui! Di questa preoccupazione, anzi, di questa emorragia di vocazioni, ho parlato spiegando che si tratta del frutto avvelenato della cultura del provvisorio, del relativismo e della dittatura del denaro, che allontanano i giovani dalla vita consacrata; accanto, certamente, alla tragica diminuzione delle nascite, questo ‘inverno demografico’; nonché agli scandali e alla testimonianza tiepida. Quanti seminari, chiese e monasteri e conventi saranno chiusi nei prossimi anni per la mancanza di vocazioni? Dio lo sa. È triste vedere questa terra, che è stata per lunghi secoli fertile e generosa nel donare missionari, suore, sacerdoti pieni di zelo apostolico, insieme al vecchio continente entrare in una sterilità vocazionale senza cercare rimedi efficaci. Io credo che li cerca, ma non riusciamo a trovarli!”.

Ai vescovi della Penisola, il Papa ha proposto “una più concreta e generosa condivisione fidei donum tra le diocesi italiane, che certamente arricchirebbe tutte le diocesi che donano e quelle che ricevono, rafforzando nei cuori del clero e dei fedeli il sensus ecclesiae e il sensus fidei. Voi vedete, se potete. Fare uno scambio di sacerdoti fidei donum da una diocesi a un’altra. Penso a qualche diocesi del Piemonte: c’è un’aridità grande. E penso alla Puglia, dove c’è una sovrabbondanza. Pensate, una creatività bella: un sistema fidei donum dentro l’Italia. Qualcuno sorride. Ma vediamo se siete capaci di fare questo”. Una proposta concreta che, però, finora è rimasta lettera morta. Con il rischio che, se non si interviene rapidamente per risolvere questo problema, diverse parrocchie si troveranno molto presto senza guida.

Il Fatto

Papa Francesco ai diaconi: né mezzi preti né chierichetti di lusso, ma servi umili

Il Papa saluta una famiglia durante l'udienza ai Diaconi permanenti della Diocesi di Roma

Non “mezzi preti” o preti di second’ordine, ma “bravi sposi e bravi padri” e soprattutto servitori “premurosi” e “umili”, perché “è triste vedere un diacono che vuole mettersi al centro del mondo”. È il ritratto che Papa Francesco delinea dei diaconi, ricordando il Concilio che ha rivalutato queste figure quali ministri “dediti al servizio” del popolo di Dio. Ed è proprio il servizio il mandato che il Papa affida ai diaconi permanenti della Diocesi di Roma, ricevuti in udienza stamattina nell’Aula delle Benedizioni. Un’udienza dal tono familiare, aperta con i saluti alle famiglie presenti: Francesco stringe le mani dei partecipanti assiepati dietro le transenne, scherza con i bambini, benedice i neonati, e accarezza la moglie di un diacono in sedia a rotelle.

La tradizione delle diaconie

A inizio udienza, dopo i saluti del cardinale vicario Angelo De Donatis, il Papa saluta Giustino Trincia, diacono nominato ieri come nuovo direttore della Caritas diocesana al posto di “don Ben”, il sacerdote romeno Benoni Ambarus, che Francesco a marzo aveva scelto a sua volta vescovo ausiliare di Roma. “Penso che con te crescerà perché sei il doppio di statura di don Ben!”, scherza il Papa. Con affetto, saluta anche Andrea Sartori, 49 anni, anch’egli diacono al quale tre anni fa è stata affidata la parrocchia di San Stanislao, nella zona periferica di Cinecittà, nella cui canonica vive con la moglie Laura e i quattro figli. Un’“antica consuetudine”, dice il Papa, quella di “affidare una chiesa a un diacono perché diventi una Diaconia”. A queste antiche tradizioni risalenti alle radici della Chiesa di Roma bisogna attingere, raccomanda: “Non penso soltanto a San Lorenzo, ma anche alla scelta di dare vita alle diaconie”.

Il diaconato aiuta a superare la piaga del clericalismo

Papa Francesco si sofferma poi sul ministero del diacono: “La via maestra da percorrere è quella indicata dal Concilio Vaticano II”, in particolare la Lumen gentium che spiega che ai diaconi “vengono imposte le mani non per il sacerdozio ma per il servizio”. Una differenza “non di poco conto”, rileva il Papa, perché il diaconato – precedentemente ridotto a un ordine di passaggio verso il sacerdozio – “riacquista così il suo posto e la sua specificità”. E questo “aiuta a superare la piaga del clericalismo, che pone una casta di sacerdoti ‘sopra’ il Popolo di Dio”.

“Questo è il nocciolo del clericalismo: una casta sacerdotale ‘sopra’ il Popolo di Dio. E se non si risolve questo, continuerà il clericalismo nella Chiesa. I diaconi, proprio perché dediti al servizio di questo Popolo, ricordano che nel corpo ecclesiale nessuno può elevarsi al di sopra degli altri”

Il potere sta nel servizio

Nella Chiesa deve vigere una logica opposta, “la logica dell’abbassamento”, afferma Francesco: “Tutti siamo chiamati ad abbassarci, perché Gesù si è abbassato, si è fatto servo di tutti. Se c’è uno grande nella Chiesa è Lui, che si è fatto il più piccolo e il servo di tutti”. Tutto comincia da qui: “Il potere sta nel servizio, non in altro”. “Nessuno vada oltre il potere del servizio”. Se non si vive questa dimensione, ammonisce il Pontefice, “ogni ministero si svuota dall’interno, diventa sterile, non produce frutto. E poco a poco si mondanizza”.

“La generosità di un diacono che si spende senza cercare le prime file profuma di Vangelo, racconta la grandezza dell’umiltà di Dio che fa il primo passo per andare incontro anche a chi gli ha voltato le spalle”

No mezzi preti o chierichetti di lusso

Oggi, però, c’è un altro aspetto a cui fare attenzione che è la diminuzione del numero dei preti, a causa del quale si è moltiplicato l’impegno dei diaconi “in compiti di supplenza che, per quanto importanti, non costituiscono lo specifico del diaconato”. I diaconi, infatti, insegna il Concilio, sono soprattutto “dediti agli uffici della carità e dell’amministrazione” e nei primi secoli, quando si occupavano a nome del vescovo delle necessità dei fedeli, erano attivi tra poveri e ammalati. Oggi sono ben presenti nella Caritas e in altre realtà vicine ai poveri. È una buona strada, dice il Vescovo di Roma, perché “così facendo non perderete mai la bussola”.

“I diaconi non saranno ‘mezzi preti’ o ‘preti di seconda categoria’, né ‘chierichetti di lusso’, ma servi premurosi che si danno da fare perché nessuno sia escluso e l’amore del Signore tocchi concretamente la vita della gente”

Non far ruotare la vita attorno all’agenda

La spiritualità diaconale è dunque la spiritualità del servizio: Disponibilità dentro e apertura fuori”. “Disponibili dentro, di cuore, pronti al sì, docili, senza far ruotare la vita attorno alla propria agenda; e aperti fuori, con lo sguardo rivolto a tutti, soprattutto a chi è rimasto fuori, a chi si sente escluso”, afferma il Papa. E a braccio racconta di aver letto un passo di don Orione che, rivolgendosi ai religiosi della sua congregazione, parlava della “Chiesa dei bisognosi”: “Nelle case deve essere accolto chiunque ha un bisogno, qualsiasi necessità, anche che ha un dolore. E questo mi piace: ricevere non solo i bisognosi ma quello che ha un dolore. Aiutare questa gente è importante, confido in voi”.

Infine il Pontefice offre “tre brevi idee” che non vanno nella direzione delle “cose da fare”, ma delle “dimensioni da coltivare”.

Fare tutto senza lamentarsi

Anzitutto essere “umili. “È triste vedere un vescovo e un prete che si pavoneggiano, ma lo è ancora di più vedere un diacono che vuole mettersi al centro del mondo! Tutto il bene che fate sia un segreto tra voi e Dio. E così porterà frutto”, sottolinea il Papa. Poi chiede di essere “bravi sposi e bravi padri, e anche bravi nonni”.

“Questo darà speranza e consolazione alle coppie che stanno vivendo momenti di fatica e che troveranno nella vostra semplicità genuina una mano tesa. Potranno pensare: ‘Guarda un po’ il nostro diacono! È contento di stare con i poveri, ma anche con il parroco e persino con i figli e con la moglie. E anche con la suocera… è molto importante!’. Fare tutto con gioia, senza lamentarsi: è una testimonianza che vale più di tante prediche”.

Infine, il Papa vuole che i diaconi siano sentinelle: “Non solo che sappiate avvistare i lontani e i poveri – questo non è tanto difficile – ma che aiutiate la comunità cristiana ad avvistare Gesù nei poveri e nei lontani, mentre bussa alle nostre porte attraverso di loro. È una dimensione profetica – conclude – che aiuta gli altri a vedere oltre”.

Vatican News

Parrocchia e diaconato permanente

di: Enzo Petrolino

parrocchia

In uno dei passaggi dell’Istruzione su La conversione pastorale della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa si legge al n. 13 che, «per promuovere la centralità della presenza missionaria della comunità cristiana nel mondo, è importante ripensare non solo a una nuova esperienza di parrocchia, ma anche, in essa, al ministero e alla missione dei sacerdoti, che, insieme con i fedeli laici, hanno il compito di essere “sale e luce del mondo” (cf. Mt 5,13-14), “lampada sul candelabro” (cf. Mc 4,21), mostrando il volto di una comunità evangelizzatrice, capace di un’adeguata lettura dei segni dei tempi, che genera una coerente testimonianza di vita evangelica».

L’importanza dei ministeri nella comunità parrocchiale

Una delle grandi realtà originarie che il Concilio ha recuperato e riaffermato è che la Chiesa è tutta ministeriale: non si può capire la Chiesa se non la si intende pienamente come ministero, serviziodiaconia. Il soggetto primo, dunque, della ministerialità è tutta la Chiesa, anche se poi tale ministerialità viene di fatto esercitata da singoli soggetti.

Se la realtà della Chiesa è ministero, non c’è nessuno dei suoi membri che non sia coinvolto nel ministero che essa, nel suo insieme, esercita. Il Concilio, dopo aver sottolineato il carattere di mistero-sacramento della Chiesa, ha voluto introdurre, prima ancora di qualunque diversificazione interna, un concetto che comprendesse tutti i battezzati. Ha scelto perciò, a tal fine, la categoria di popolo di Dio, recuperando la dimensione biblica di storia, alleanza, elezione, missione e di cammino escatologico.

La felice intuizione ha avuto il pregio di mettere in rilievo il mutuo rapporto tra il sacerdozio ministeriale e quello comune, che si incentrano entrambi nell’unico sacerdozio di Cristo (LG 10). Questo popolo messianico è inviato al mondo intero, e tutti gli uomini, in qualche modo, sono ad esso chiamati (LG 9;13).

La concezione del Vaticano II riguardo al popolo di Dio è pervasa dall’esigenza di partecipazione e di comunione di tutti i battezzati al servizio «profetico, sacerdotale e regale» di Cristo (LG 10;12), il che si traduce nell’inserimento attivo nei vari servizi ecclesiali dei carismi donati per l’utilità comune (LG 12). Comune, dunque, all’intero popolo di Dio è la ministerialità.

I punti di riferimento teologico-pastorali

Dall’Istruzione emerge che oggi c’è l’esigenza del rinnovamento della parrocchia, in forza del nuovo modo di intenderla, di essere e di esprimersi, dei cambiamenti socio-culturali, di una sua possibile e necessaria integrazione con altre realtà sociali e strutturali. Problema che, da tempo, è posto all’attenzione della riflessione teologico-pastorale. Sicuramente «le diverse componenti in cui la parrocchia si articola sono chiamate alla comunione e all’unità».

Nella misura in cui ognuno recepisce la propria complementarità, ponendola a servizio della comunità, allora, da una parte, si può vedere realizzato a pieno il ministero del parroco e dei presbiteri che collaborano come pastori; dall’altra, emerge la peculiarità dei vari carismi dei diaconi, dei consacrati e dei laici, perché ognuno si adoperi per la costruzione dell’unico corpo (cf. 1Cor 12,12).

Il cap. VIII alla lettera e) dell’Istruzione è dedicato ai diaconi dove viene affermato che «sono ministri ordinati, incardinati in una diocesi o nelle altre realtà ecclesiali che ne abbiano la facoltà; sono collaboratori del vescovo e dei presbiteri nell’unica missione evangelizzatrice con il compito specifico, in virtù del sacramento ricevuto, di «servire il popolo di Dio nella diaconia della liturgia, della parola e della carità».

La riattivazione di questo ministero permette che la simbolica diaconale giochi a fondo nella Chiesa. Di fronte a tutti i ministri ordinati, vescovi compresi, oltre che ai laici, i diaconi significano e realizzano la dipendenza di tutti verso Cristo servo che, per la forza del suo Spirito, impegna tutta la Chiesa ad essere soprattutto un popolo di servi e a ridonare al mondo il gusto del servizio.

Dentro a queste linee essenziali, il problema di quale forma concreta debba assumere il ministero diaconale non può essere deciso a tavolino, ma deve poter usufruire di molta esperienza ancora, di tanta storia, di figure di santità.

A salvaguardia dell’identità dei diaconi, in vista della promozione del loro ministero, papa Francesco ha dapprima messo in guardia contro alcuni rischi relativi alla comprensione della natura del diaconato: «Dobbiamo stare attenti a non vedere i diaconi come mezzi preti e mezzi laici. […] E nemmeno va bene l’immagine del diacono come una specie di intermediario tra i fedeli e i pastori. Né a metà strada fra i preti e i laici, né a metà strada fra i pastori e i fedeli. E ci sono due tentazioni. C’è il pericolo del clericalismo: il diacono che è troppo clericale. […] E, l’altra tentazione, il funzionalismo: è un aiuto che ha il prete per questo o per quello».

Onde evitare questo rischio, a mio avviso, sono tre le esperienze che risulteranno decisive: la comunione, la missionarietà e la diocesanità.

Anzitutto l’ecclesiologia di comunione

È, come noto, il principio unificante e la chiave ermeneutica di tutto il magistero conciliare. Frutto della riscoperta del dato neotestamentario (soprattutto le lettere paoline) e della genuina tradizione ecclesiale (cf. Ignazio di Antiochia) è l’ecclesiologia di comunione.

La prima istanza che si pone alle nostre Chiese è quella di far maturare nelle comunità quella che i documenti chiamano la «coscienza diaconale», ovvero la consapevolezza della comunionalità che si traduce nella partecipazione e nella corresponsabilità a tutti i livelli e nelle sue diverse forme. «Contesto idoneo alle vocazioni al diaconato è… una Chiesa intenta a discernere le vie per le quali il Signore la chiama a sostenere le responsabilità del Vangelo, a vivere e manifestare il mistero della comunione, a tradurre in opere e istituzioni le premure della carità e i diversi servizi pastorali» (CEI, I diaconi permanenti nella Chiesa in Italia. Orientamenti e Norme, 1993, n. 10). È questo, dunque, il terreno più proprio per far sbocciare e coltivare le vocazioni al ministero diaconale.

La missionarietà

Missione e comunione, ovviamente, sono due facce della stessa medaglia. È la missione stessa che rinsalda la comunione, che detta le esigenze alla comunione, perché è il desiderio di donare agli altri Cristo che unisce i cristiani.

In uno dei passaggi della nota pastorale della CEI dal titolo Il volto missionario delle parrocchie in Italia si legge: «Il futuro della Chiesa in Italia, e non solo, ha bisogno della parrocchia. È una certezza basata sulla convinzione che la parrocchia è un bene prezioso per la vitalità dell’annuncio e della trasmissione del Vangelo, per una Chiesa radicata in un luogo, diffusa tra la gente e dal carattere popolare. Essa è l’immagine concreta del desiderio di Dio di prendere dimora tra gli uomini».

Con questa nota – scrivono i vescovi nell’introduzione al documento – «non si è voluto neanche fare una riflessione generale sulla parrocchia, ma solo mettere a fuoco ciò che è necessario perché essa partecipi alla svolta missionaria della Chiesa in Italia di fronte alle sfide di quest’epoca di forti cambiamenti» (n. 5).

E, più avanti, parlando del segno della fecondità del Vangelo nel territorio, i vescovi sottolineano che la presenza della parrocchia si deve esprimere anzitutto «nel tessere rapporti diretti con tutti i suoi abitanti, cristiani e non cristiani, partecipi della vita della comunità o ai suoi margini. Presenza nel territorio che vuol dire sollecitudine verso i più deboli e gli ultimi, farsi carico degli emarginati, servizio dei poveri, antichi e nuovi, premura per i malati e per i minori in disagio» (n. 10).

Di questa presenza i primi responsabili sono i parroci e i diaconi ai quali – come si esprime l’episcopato italiano – bisogna affidare ambiti ministeriali, «secondo una figura propria e non derivata rispetto a quella del presbitero, nella prospettiva dell’animazione del servizio su tutti i fronti della vita ecclesiale» (n. 12). Vediamo alcuni di questi impegni.

I diaconi a servizio del popolo di Dio

«Nell’esercizio del suo ministero, il diacono aiuta gli altri a riconoscere e a valorizzare i propri carismi e le proprie funzioni nella comunità; in tal modo egli promuove e sostiene le attività apostoliche dei laici».

Il rapportarsi del diacono ai laici nasce dal fatto che egli, attraverso la grazia sacramentale, è abilitato a recepire le varie necessità, facendo emergere e suscitando servizi e ministeri nel popolo di Dio. Tale posizione che vede il diacono a servizio del popolo di Dio implica che il diacono, anche se, da un lato, appartiene al clero in quanto ha ricevuto un’ordinazione, dall’altro, condivida la vita dei laici i quali lo sostengono come appartenente a loro.

Da questa realtà il ministero del diacono, partecipando del sacramento dell’ordine, ha tra i fedeli un’autorevolezza analoga a quella del presbitero; ma, nello stesso tempo, egli, partecipando della condizione comune del popolo, condivide e comprende i problemi di tutti, aiutando anche i presbiteri in tale comprensione.

Certamente il ritmo eccessivamente dinamico e talvolta alienante che caratterizza la nostra società e le nostre comunità ecclesiali svuota della loro carica umana i contatti personali e diretti con la gente, per ridursi ad un caotico incrociarsi di rapporti secondari, senza più punti di contatto e senza possibilità di uno scambio vitale di esperienze e di collaborazione. Queste difficoltà sono oggi presenti anche nelle nostre realtà parrocchiali, dove le nostre comunità si avviano verso un anonimato senza volto, verso incontri prevalentemente di massa e talvolta solo formali, privi del contatto umano e personale.

È una crisi di comunicazione, perché la gente oggi non fa più riferimento alla parrocchia per ricevere una formazione adeguata. «Solo una comunità accogliente e dialogante può trovare le vie per instaurare rapporti di amicizia e offrire risposte alla sete di Dio che è presente nel cuore di ogni uomo. Oggi si impone la ricerca di nuovi linguaggi, non autoreferenziali e arricchiti dalle acquisizioni di quanti operano nell’ambito della comunicazione, della cultura e dell’arte.

Per questo è necessario educare a una fede più motivata, capace di dialogare anche con chi si avvicina alla Chiesa solo occasionalmente, con i credenti di altre religioni e con i non credenti». In tale prospettiva, è necessario che «in ogni comunità l’approfondimento di una fede consapevole abbia piena cittadinanza nel nostro tempo, così da contribuire anche alla crescita della società» (CEI, La restaurazione del diaconato permanente nella Chiesa italiana, 1971, n. 26).

Spesso l’unico momento nel quale il presbitero può raggiungere i suoi fedeli è quello della messa domenicale. Momento che lascia poco spazio al dialogo spontaneo e costruttivo. In questo senso il diaconato e il suo esercizio devono essere visti in relazione ad una Chiesa che cresce nella consapevolezza di essere missionaria. Un impegno che deve far decollare la pastorale oltre la semplice conservazione dell’esistente, per farla aprire in maniera coraggiosa alle nuove sollecitazioni che provengono dalla società.

Nelle comunità parrocchiali senza presbitero

Uno dei fenomeni dell’attuale momento storico ecclesiale è la diminuzione del numero dei presbiteri e, conseguentemente, il progressivo moltiplicarsi di comunità parrocchiali senza la presenza del presbitero. Al n. 98 dell’Istruzione è scritto che «il vescovo, a suo prudente giudizio, potrà affidare ufficialmente alcuni incarichi ai diaconi come la celebrazione di una liturgia della Parola nelle domeniche e nelle feste di precetto, quando, “per mancanza del ministro sacro o per altra grave causa diventa impossibile la partecipazione alla celebrazione eucaristica”. Si tratta di un’eventualità eccezionale, a cui fare ricorso solo in circostanze di vera impossibilità». 

Anche se la restaurazione del diaconato nella Chiesa non nasce da motivi dovuti alla scarsità di vocazioni presbiterali, i vescovi italiani, nel delineare gli spazi dove il diacono può esercitare il suo ministero, dicono primariamente che esso si caratterizza come servizio attivo nel piano pastorale diocesano e come apertura e disponibilità per i bisogni dell’intera Chiesa particolare. Ciò non toglie, dunque, che il diacono possa essere anche impegnato nelle comunità parrocchiali senza presbitero residente.

Davanti a tali situazioni la Chiesa non è rimasta indifferente: sia da parte dei vescovi sia da parte delle stesse comunità cristiane si è avuta una certa preoccupazione tesa ad assicurare soprattutto la tradizione cristiana della domenica, come giorno del Signore. Questo per ribadire primariamente che i cristiani, in tale giorno, si riuniscono con il Risorto da cui sempre viene l’iniziativa della convocazione.

Questo incontro, fondamentalmente, è la celebrazione dell’eucaristia. Quando però non può aver luogo questa pienezza sacramentale, è tuttavia possibile incontrarsi con il Signore attraverso altre forme della sua presenza reale nella Chiesa: la parola di Dio, l’assemblea stessa dei credenti. Una risposta in tal senso è stata data dalla Congregazione per il culto divino con la pubblicazione nel 1988 del Direttorio per le celebrazioni domenicali in assenza del presbitero.

La diocesanità

Il diacono viene ordinato sempre in relazione ad una Chiesa particolare, nella quale si incardina. Ogni ordinazione è relativa ad una precisa comunità; non è conferita per accrescere semplicemente la dignità personale, ma per poter esercitare concretamente un servizio al popolo di Dio.

Una volta indicati gli ambiti, l’articolazione dei compiti precisi sarà decisa dalla convergenza di diversi fattori: i doni personali (carattere psicologico, competenze e carismi), le storie e le situazioni personali e familiari, la reale configurazione della Chiesa particolare. Non sarà fuori luogo rievocare la celebre e antichissima formula contenuta nel primo documento che parla dell’ordinazione diaconale, e cioè la Tradizione apostolica di Ippolito (III secolo). In essa si afferma che il diacono è ordinato «non per il sacerdozio ma per il ministero “del vescovo”». Nell’evoluzione successiva la formula è diventata semplicemente «per il ministero», come si evince dal testo sui diaconi della LG.

Da tutto questo si possono trarre alcuni importanti corollari.

Anzitutto lo stretto rapporto che il vescovo deve instaurare con i suoi diaconi e che questi devono avere con lui: un rapporto di comunione, permeato di obbedienza che, dalla persona del vescovo, si deve estendere anche al progetto pastorale della diocesi; un rapporto, inoltre, da parte del vescovo, di ascolto e di dialogo intorno alle istanze e agli impegni prioritari di carattere diocesano, visto che il diacono è «l’occhio, l’orecchio e la bocca del vescovo» secondo la felice espressione del documento patristico noto come Didascalia degli Apostoli.

In questa prospettiva si può anche comprendere che la parrocchia di per sé non è l’ambito proprio del ministero diaconale se non in via eccezionale e quindi transitoria. Questo anche per evitare che il diacono venga considerato una sorte di “vice-parroco” dimezzato.

La priorità dell’evangelizzazione

È un altro punto imprescindibile di riferimento per mettere meglio a fuoco il ministero diaconale oggi e le sue prospettive di impegno per il futuro. Vorrei, anzitutto, sottolineare il carattere prioritario dell’evangelizzazione nella missione della Chiesa. Si tratta di una priorità logica e temporale nel dinamismo della salvezza, che ha una duplice radice e un duplice fondamento.

Prima di tutto di ordine teologico, che chiama in causa la nostra fedeltà a Cristo, servo di Dio e degli uomini, il quale ha iniziato la sua missione salvifica con l’annuncio del Vangelo del Regno e l’appello alla conversione e alla fede (cf. Mc 1,15). Questa, infatti, nasce dall’ascolto della parola di Dio e ad essa si alimenta (cf. Rom 10,17) e perciò costituisce – come ricorda già il concilio di Trento – l’initium salutis.

L’altra ragione è di ordine pastorale e scaturisce dalla situazione e dai mutamenti socio-culturali del nostro tempo, legati alle conseguenze del pervasivo fenomeno della secolarizzazione, che hanno determinato la scristianizzazione, una diffusa indifferenza, un’appartenenza parziale e condizionata a Cristo e alla Chiesa, una perdita delle evidenze etiche con una forte ricaduta nel soggettivismo e nel relativismo morale ecc.. In questa situazione, già dal concilio Vaticano II, e sempre più insistentemente in questo trentennio che è seguito all’assise ecumenica, si è parlato e si parla di una “nuova evangelizzazione”.

Ecco alcune “vie” privilegiate della comunicazione della fede e quindi della missione dei diaconi.

  • Quella, anzitutto, della “capillarità”, e cioè dell’annuncio della parola di Dio in piccoli gruppi o comunità inferiori e della penetrazione evangelica negli ambienti di vita e di lavoro, famiglie, caseggiati, borghi dispersi delle campagne ecc…, dove è più facile realizzare il dialogo, la circolazione della parola, l’adesione del messaggio alle situazioni. Sono elementi importanti per la formazione di piccole comunità che dovrebbero avere poi il loro sbocco e la manifestazione unitaria più forte e significativa nell’assemblea eucaristica domenicale.
  • C’è poi un’altra via privilegiata di evangelizzazione che s’impone oggi, nel contesto di pluralismo e d’indifferenza che caratterizza il clima culturale: è quella della testimonianza personale – e soprattutto comunitaria – della misericordia e della carità, di fronte alle antiche e nuove povertà.

Vorrei sottolineare che il diacono, in questi campi, non è e non può essere soltanto un protagonista (lo dovrebbe essere ogni fedele laico formato e ogni operatore pastorale!) bensì un animatore, un responsabile, un educatore di fratelli e sorelle che s’impegnano su queste frontiere. Il diaconato si deve porre oggi come lievito nella pasta della tradizionale parrocchia per lievitarla dal di dentro, ponendosi in stretto legame con la Chiesa locale e assumendo pienamente la pastorale della diocesi stessa, con particolare attenzione al problema degli adulti e dei lontani.

Questo ministero dovrebbe nascere dalla base, nei quartieri, nei rioni, nei condomini, nelle zone rurali, favorendo la dimensione cellulare della Chiesa, dimensione che è tale da consentire un rapporto immediato e fraterno tra persone e famiglie, giovani e adulti: un rapporto fondato sulla Parola di Dio che convoca e unisce nella comunione.

L’esistenza di rapporti personali immediati costituisce il terreno più favorevole per un’attenzione alle esigenze delle persone e dei gruppi umani, e per dare spazio quindi alla corresponsabilità dei fedeli, nell’esercizio di servizi e ministeri diversi, in conformità dei loro carismi. Questa attenzione è possibile dove si realizzano rapporti personali immediati, per un’evangelizzazione efficacemente capillare, favorendo la nascita di zone di influenza territoriale chiamate diaconie.

Nelle parrocchie affidate “in solidum”

Nel contesto del progetto delle Unità pastorali (c. VII) il vescovo può anche decretare il raggruppamento stabile e istituzionale di varie parrocchie all’interno del vicariato foraneo, tenendo conto… che ogni parrocchia di tale raggruppamento deve essere affidata a un parroco o anche a un gruppo di sacerdoti in solidum, che si prenda cura di tutte le comunità parrocchiali (nn. 54-60).

Una rilevante conseguenza pratica viene dedotta dal fatto che il «diacono può essere impegnato anche nelle comunità… affidate in solidum ad un gruppo di sacerdoti, per la cura di quegli ambiti che sono propri del ministero diaconale».

In questi anni stiamo assistendo ad una trasformazione della pastorale che coinvolge il volto della parrocchia la quale deve adeguarsi ad un mondo che cambia, senza perdere di vista la propria identità e la sua tipica originalità di “laboratorio” di prima e nuova evangelizzazione.

Quando si parla di Unità pastorali, si parla di un nuovo modo di rapportare la parrocchia con il territorio che la abita. È ormai riconosciuto alla parrocchia il carattere di fondamentale articolazione della Chiesa e del suo ministero, per riferimento alle forme quotidiane della vita cristiana. Essa è il luogo “ordinario” della celebrazione eucaristica, sorgente e forma della comunità ecclesiale, luogo della catechesi di iniziazione cristiana.

Il suo carattere “territoriale” la presenta come “luogo” di vita cristiana, per tutti i fedeli, “casa comune” per tutti, che non indulge a criteri elitari di scelte e dedica una cura particolare a chi appare più povero, più emarginato e più lontano. Tuttavia, il carattere “rigorosamente” territoriale della parrocchia è oggi messo in discussione dalle mutate condizioni sociali. La gente oggi vive in una mobilità sociale e in una quantità di situazioni e di ambienti che travalicano il raggio dell’azione pastorale “normale” delle nostre parrocchie. La nascita e i motivi che hanno determinato la costituzione delle Unità pastorali sono da ricercarsi nella necessità di promuovere una pastorale coordinata, cioè una pastorale d’insieme.

Certamente il progetto delle Unità pastorali non può essere riconducibile solo al problema della diminuzione numerica dei presbiteri e, conseguentemente, della loro ridistribuzione sul territorio. La motivazione più profonda è da ricercare nell’ecclesiologia del Vaticano II che ci ha offerto una visione di Chiesa nella quale dev’essere promossa e attuata la partecipazione e la corresponsabilità di tutti i fedeli, secondo il principio dell’unità di missione nella diversità dei ministeri, degli uffici e delle funzioni.

Tutto questo significa riscoprire, da una parte, la vocazione missionaria della Chiesa e, dall’altra, la comunione per una pastorale d’insieme, cioè lavorare insieme riconoscendo i carismi e i ministeri presenti nella comunità cristiana e impostando in una maniera nuova il servizio pastorale, la sua conversione.

Questa rinnovata visione porta necessariamente a ripensare la pastorale parrocchiale e in particolare il suo animatore. Si tratta, in definitiva, di affidare, in solido, la cura pastorale di più parrocchie o comunità cristiane situate in un’area omogenea territoriale ad uno o più presbiteri coadiuvati da diaconi, religiosi e fedeli laici.

In solidum significa che è affidata ad ogni membro del gruppo l’attività pastorale delle comunità parrocchiali interessate, attività da svolgere in comunione con tutti gli altri. Tutta la linea di azione pastorale e l’affidamento dei vari compiti e servizi saranno coordinati da un moderatore, così come viene chiamato dal Codice di diritto canonico (can. 517 § 1) colui che ha la responsabilità e informa stabilmente il vescovo.

È evidente che con le Unità pastorali non si vuole affermare il superamento della parrocchia intesa tradizionalmente come «comunità territoriale», ma si ha il superamento della sua autonomia, passando da una parrocchia chiusa in se stessa ad una comunità parrocchiale aperta, in un contesto di comunione e di coordinamento dell’azione pastorale.

Risulta quindi necessario “riequilibrare” l’azione pastorale, spostando il baricentro della parrocchia intesa in senso “autoreferenziale” (tutta concentrata all’ombra del campanile) verso la prospettiva tipicamente “missionaria”, intesa come normalità quotidiana e dimensione costante della cosiddetta «pastorale ordinaria».

Gli ambiti di azione comune possono essere individuati nei rapporti con la società civile, le iniziative di volontariato, la pastorale d’iniziazione cristiana e sacramentale in genere, la formazione degli operatori pastorali, la pastorale giovanile. Pertanto, una delle condizioni necessarie per dare vita a tale realtà è quella di avere figure ministeriali necessarie per la vita della comunità che, collaborando, mettano a disposizione i propri doni e le proprie risorse spirituali e materiali.

Conseguentemente si pone un problema molto delicato, cioè quello del rapporto tra i presbiteri e i diaconi. Da una parte, i parroci devono avere la possibilità di ripensare al proprium originario del loro ministero: dedicazione alla preghiera e al ministero della Parola. L’esperienza concreta di modelli di comunione e di buon rapporto tra questi due ministeri ordinati può favorire certamente la promozione del diaconato nelle nostre comunità locali.

Mi piace concludere con le parole dei vescovi italiani che, parlando della dimensione missionaria dell’azione educativa, affermano, facendo riferimento ad Atti 1,8, che «è lo Spirito a formare la Chiesa per la missione, la testimonianza e l’annuncio. Grazie alla sua forza, la Chiesa diventa segno e strumento della comunione di tutti gli uomini tra loro e con Dio, manifesta l’amore fraterno da cui ciascuno può riconoscere i discepoli del Signore (cf. Gv 13,35) e proclama in ogni lingua le grandi opere di Dio tra i popoli (cf. At 2,9-11)».

Dunque, l’azione educativa necessita di luoghi credibili: anzitutto la famiglia, con il suo ruolo peculiare e irrinunciabile; la scuola, orizzonte comune al di là delle opzioni ideologiche; la parrocchia, «fontana del villaggio», luogo ed esperienza che inizia alla fede nel tessuto delle relazioni quotidiane.

In ognuno di questi ambiti l’apporto della qualità del ministero dei diaconi diventa una delle vie privilegiate della missione evangelizzatrice della diaconia della Chiesa.

  • Enzo Petrolino è presidente Comunità del diaconato in Italia.
  • Settimananews

Diaconi da tutto il mondo a Roma per il Giubileo della Misericordia

“Il diacono, immagine della misericordia per la promozione della nuova evangelizzazione” è questo il tema del Giulileo dei diaconi permanenti giunti a Roma da tutto il mondo per l’Anno Santo e nella speciale ricorrenza dei 50 anni della re-istituzione del diaconato permanente, avvenuta con il Concilio Vaticano II. Questa domenica i diaconi parteciperanno alla Messa presieduta da Papa Francesco. Il servizio di Marina Tomarro da Radio Vaticana

Secondo i dati dell’Annuario pontificio, sono circa 45mila i diaconi in tutto il mondo che operano accanto ai sacerdoti e tra la gente portando una testimonianza di fede e di carità, con una particolare cura verso le famiglie e verso quanti vivono situazioni di disagio spirituale e materiale. In Italia sono oltre 4000, la maggior parte di loro sposati e impegnati insieme alle famiglia in questa importante missione. Ascoltiamo la testimonianza di Giorgio Albani, diacono a Roma nella parrocchia dei Sacri Cuori di Gesù e Maria:

R. – Io credo che non sia un ruolo importante, ma che la cosa importante sia essere al servizio della Chiesa là dove ti chiama, là dove servi. Io, in particolar modo, mi occupo di pastorale battesimale e di pastorale familiare. Per me e per mia moglie questo è un grosso dono, perché ci dà la possibilità di sentire e di vivere concretamente il vissuto odierno, cioè come la gente vive la famiglia, le difficoltà, soprattutto anche dei valori, che sono in crisi oggi.

D. – Come nasce la tua vocazione di diacono?

R. – La mia vocazione di diacono nasce da lontano, nasce da un’esperienza di sofferenza in cui mia figlia ha vissuto un momento di malattia. Questo mi ha scosso molto. Dopo mi sono sempre interrogato su cosa desiderasse il Signore da me. Io già ero nella Chiesa, ma con quel segno di guarigione io ho avuto questa necessità di dare al Signore qualcosa. E si è aperta questa strada che non conoscevo. Non sapevo infatti cosa fosse il diaconato.

D. – Tu sei sposato, in che modo si concilia la tua vocazione di diacono con la vita familiare?

R. – La prima vocazione nell’ambito del diaconato è il matrimonio. Se mia moglie non avesse la vocazione al servizio, non sarei potuto diventare diacono. Sicuramente questo è fondamentale. Insieme a mia moglie abbiamo sempre lavorato in parrocchia, soprattutto nella pastorale familiare. Questo ci ha reso più uniti, con tutte le difficoltà che ci sono. Non nascondo, infatti, che a volte serve un equilibrio anche in questo e che conciliare la vita familiare non è facile.

D. – Renata tu sei la moglie di Giorgio. Cosa vuol dire accompagnarlo nel suo servizio?

R. – E’ una scelta di vita che nasce senza rendertene conto. Certo, il diaconato è stata una cosa inaspettata, perché anch’io come lui non sapevo in cosa consistesse. E’ stato quindi un sacrificio. Ma quello che oggi vedo è che si tratta di una scelta di vita ponderata, perché ho sperimentato tante cose dal Signore. E’ una gratuità, quindi, che ti viene dentro e tu la dai con gioia. Si fa, quindi, con sacrificio, ma sempre lieti nel Signore.

E Giorgio con il suo esempio, ha coinvolto anche suo genero Leonardo Micacci, che opera nella parrocchia romana del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo. Ascoltiamo la sua storia:

R. – Sono sposato con Laura, abbiamo tre figli e mi occupo principalmente di pastorale familiare. Aiuto giovani famiglie in un percorso di accompagnamento alla fede e penso che forse sia uno dei ruoli fondamentali cui oggi il Signore ci chiama come diaconi. Mi riferisco in particolare alle famiglie, quindi all’accompagnamento di un diacono che è anche sposo e può portare una testimonianza. Un altro ambiente cui il Papa ci chiama sempre ad evangelizzare è il mondo del lavoro.

D. – Questo è il Giubileo della Misericordia, quanto è importante la misericordia nel vostro servizio?

R. – Deve permeare tutto il nostro servizio: tutto, quindi, parte dalla misericordia e tutto ritorna alla misericordia. Avere questa carità che non è solo una carità operosa, ma è anche la carità dell’ascolto, dell’essere prossimo all’altro, di non allontanare nessuno, ma anzi di prestare l’orecchio per ascoltare, accogliere. E il Signore ci chiama a questo ogni giorno, ad entrare anche nelle difficoltà degli altri e ad accoglierli.

D. – Questa domenica, l’incontro con Papa Francesco. Quanto è grande l’attesa per questo evento?

R. – Sarà, credo, un’attesa lunga, perché saremo tanti. Questo è bello, perché è una grande testimonianza per la Chiesa. Siamo una realtà concreta nella Chiesa. Perché anche il numero conta, no?