Riesplode la violenza nel Darfur


Decine di morti in attacchi contro la popolazione inerme

Khartoum. Decine di persone sono state uccise negli ultimi due giorni in attacchi sferrati da uomini armati in un affollato mercato di Tabarat, nella zona di Tawila, nel nord del Darfur. Quella di Tawila è una zona considerata controllata dall’Esercito di liberazione sudanese (Sla), il gruppo ribelle insorto in armi nel febbraio 2003 contro il Governo di Khartoum, al pari del Movimento per la giustizia e l’eguaglianza (Jem). Fonti dello Sla – oggi diviso in numerose fazioni, alcune delle quali hanno raggiunto accordi con il Governo sudanese, al contrario del Jem – hanno espressamente accusato l’esercito governativo e gli janjaweed, le milizie arabe considerate alleate di Khartoum, di aver attaccato gli insediamenti a ovest della città di Tawila. L’Unamid, la forza congiunta dispiegata nel Darfur dall’Onu e dall’Unione africana, ha da parte sua riferito di avere ricevuto notizie che uomini a cavallo e a dorso di cammello – come sono usi fare gli janjaweed – avrebbero attaccato giovedì pomeriggio un mercato nell’insediamento di Tabarat, aprendo il fuoco sulla folla. Un portavoce dell’Unamid stessa ha comunque specificato che la forza multinazionale non è in grado di confermare né di verificare tali notizie. L’esercito sudanese ha negato di aver attaccato villaggi, ma un suo portavoce ha detto che i militari si sono scontrati nell’area con quelli che ha definito banditi, uccidendone 27, senza fornire dettagli sulla data o sul luogo esatto dei combattimenti. In ogni caso, gli avvenimenti delle ultime ore confermano la recrudescenza registrata quest’anno dalle violenze nella regione occidentale sudanese teatro, appunto dal febbraio 2003, di una guerra civile che ha provocato oltre trecentomila morti, secondo stime delle Nazioni Unite. Nella regione si protrae una delle maggiori emergenze umanitarie in atto nel mondo, con oltre due milioni e mezzo di profughi, in massima parte sfollati interni, ai quali si aggiungono gli oltre trecentomila rifugiati all’estero, soprattutto nel Ciad e nella Repubblica Centroafricana. Nonostante i tentativi internazionali di favorire negoziati di pace – gli ultimi si sono tenuti a Doha, in Qatar, peraltro vanificati dal ritiro del Jem – la regione resta in preda alla violenza. L’Unamid riferisce da mesi di un numero altissimo di morti, dopo la relativa diminuzione degli scontri nel 2008 e nel 2009. Nel solo mese di maggio, il più sanguinoso degli ultimi tre anni, il numero delle vittime è stato cinque volte superiore alla media mensile registrata nel 2009, con quasi seicento persone uccise in scontri tra ribelli del Jem e forze governative. Ad aggravare la situazione, sempre nei mesi scorsi, si sono aggiunte le violenze tra gruppi armati delle popolazioni locali rivali. All’inizio di giugno, prima che si arrivasse a un accordo con la mediazione dell’Unamid, c’erano stati una quarantina di morti in scontri fra le tribù rivali dei misseriya e dei reizegat, che si contendono i pozzi e i pascoli per il bestiame. (©L’Osservatore Romano – 5 settembre 2010)

L’orrore Darfur: 600 morti al mese

«Ripresi su larga scala i combattimenti», i civili rimangono in ostaggio
 DA NAIROBI MATTEO FRASCHINI KOFFI – avvenire

Il Darfur, la tormentata regione del Sudan occidentale, diventata ormai sinonimo di guerra, rapimenti e negoziati falliti, non sembra trovare una via d’uscita dalla violenza. «Abbiamo registrato nel mese di maggio oltre 600 vittime: 491 morti confermati e 108 denunciati», recita un comunicato della Unamid, la ibrida missione di pace composta da caschi blu delle Nazioni Unite e caschi verdi dell’Unione africana, confermando il numero più alto di vittime dall’inizio del loro mandato a gennaio 2008. «Queste cifre impressionanti sono la conseguenza di scontri tribali e combattimenti tra il governo e i ribelli del Movimento per la giustizia e l’uguaglianza ( Jem)», aggiunge laconicamente il portavoce della missione. Nella prima metà di giugno, invece, si sono registrati altri 41 civili uccisi nelle zone occupate dalle tribù rivali dei Reizgat e dei Misseriya, mentre ulteriori scontri tra i ribelli del Jem e l’esercito sudanese hanno provocato un numero imprecisato di morti, feriti e prigionieri da entrambe le parti. Il governo americano, insieme a procuratori della Corte penale internazionale dell’Aja, centinaia di agenzie umanitarie e attivisti d’ogni sorta, non sembrano però avere la meglio su quello che è ormai lo status quo del Darfur: un misto di scontri tra popolazioni in difesa del territorio e i combattimenti tra le truppe governative e una pletora di gruppi ribelli più o meno significativi. Inoltre, con la realizzazione delle prime elezioni democratiche in più di vent’anni e l’avvicinarsi di un referendum che potrebbe far conquistare l’indipendenza al semi­autonomo governo del sud Sudan (GoSS), i riflettori hanno lasciato il Darfur per spostarsi verso lo scenario del Sud Sudan e del difficile dialogo tra Khartum e Juba, la capitale sudsudanese. Intanto, a Occidente, le violenze continuano. «Durante gli scontri, che non si sono mai interrotti per tutta questa settimana quasi continui scontri di questa settimana – ha confermato alla stampa al-Tahir al­Feki, uno dei leader del Jem – abbiamo rilasciato 35 prigionieri di guerra sudanesi, nove di loro gravemente feriti». Il rilascio è stato confermato dal Comitato internazionale della croce rossa (Icrc), che ha ricevuto gli ostaggi e li ha trasferiti nella base militare di Nyala, capitale del sud Darfur. Il Jem, uno dei più importanti gruppi ribelli darfuriani, ha abbandonato i negoziati di Doha subito dopo le elezioni nazionali d’aprile accusando il governo di aver ripreso i bombardamenti nella regione. Da sette anni i ribelli ripetono che Khartum non ha «intenzione di includerli nel processo di sviluppo del Paese». Lo scenario è però sempre più ad alta tensione. Sempre questa settimana, Omar el-Bashir, presidente del Sudan, ha compiuto vari cambiamenti ai vertici del suo esercito. Quest’ultima mossa – a rimarcare le intenzioni del leader ricercato dalla Corte penale dell’Aja (Cpi) per crimini contro l’umanità–, ha coinvolto il generale Awad Ahemd Ibn Auf (sanzionato dall’amministrazione americana di George Bush per i presunti crimini commessi in Darfur), e il generale Jaafar al Hassan, che dal 2006, con altri suoi tre colleghi, è stato sottoposto a sanzioni da parte dell’Onu per le stesse ragioni. Il procuratore capo della Cpi, Luis Moreno Ocampo ha invece confermato la sua intenzione di chiedere alle autorità sudanesi di arrestare Ahmed Haroun, governatore provinciale nello Stato del Sud Kordofan, e Ali Kushayb, comandante di una milizia, per il loro ruolo nell’organizzazione dei massacri e delle deportazioni in Darfur. «Abbiamo bisogno che il Consiglio di sicurezza dell’Onu faccia pressione per assicurare l’arresto di questi due individui», ha dichiarato il procuratore. Immediata anche la reazione di Abdalmahmoud Abdalhaleem, ambasciatore sudanese all’Onu: «Dobbiamo scegliere se seguire le avventure distruttive e politicamente motivate di Ocampo – ha ribattuto – oppure permettere alle Nazioni Unite di focalizzarsi sul processo di pace al momento discusso a Doha e l’applicazione dell’accordo di pace tra nord e sud. Domani il Consiglio di sicurezza si riunirà per discutere tutte le questioni aperte di un conflitto che, da quando è iniziata la ribellione nel 2003, ha ucciso 300mila persone e provocato l’esodo di oltre due milioni di profughi. Domani il Consiglio di sicurezza dell’Onu torna ad occuparsi dell’emergenza che dal 2003 ha provocato l’esodo di oltre due milioni di profughi e 300mila caduti