I FILM PIÙ BELLI IN TV PER RIVIVERE LA VITA E LA PASSIONE DI GESÙ


Da “Gesù di Nazareth di Zeffirelli” a “L’inchiesta Anno XXXIII” di Giulio Base, da “The Chosen” a “The young Messiah” passando per i classici come “Ben Hur” e “Il re dei re”: ecco una selezione di film e serie, disponibili sulle tv generaliste e sulle piattaforme, che raccontano la Pasqua e il messaggio di Cristo.
Entrare nello spirito della Pasqua attraverso un libro o una serie: l’offerta, soprattutto nelle piattaforme, è tanta. Come orientarsi tra tante pellicole prediligendo quelle di qualità? Immancabile, e sempre apprezzabile Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli (su Tv2000 in prima serata 28-29-30 marzo) uscito in sei puntate in tv nel 1977 e poi riproposto come film ridotto alla durata di 4 ore, ripercorre la vita di Gesù dalla nascita fino alla risurrezione, con grande adesione ai testi evangelici e un cast d’eccezione, da Robert Powell nei panni di Gesù, Olivia Hussey in quello di Maria, e ancora Peter Ustinov (Erode il Grande), Anne Bancroft (Maria Maddalena), Claudia Cardinale (l’adultera), Valentina Cortese (Erodiade), Laurence Olivier (Nicodemo), Renato Rascel (il cieco nato), Rod Steiger (Ponzio Pilato), Anthony Quinn (Caifa)..
Sempre su TYv2000 domenica 31 marzo in prima serata Il Risorto, un film del 2016 diretto da Kevin Reynolds con Joseph Fiennes nei panni di Clavio, un tribuno militare romano di alto rango a cui a Ponzio Pilato ha ordinato di assicurarsi che i seguaci i di Gesù non rubino il suo corpo e in seguito dichiarino la sua risurrezione. Entrare in contatto prima con gli apostoli o e poi con Gesù stesso, farà vacillare le convinzioni di Clavio fino alla sua conversione.
Per chi ama rivedere un classico Hollywoodiano, sabato su Rete 4 alle 21,25 viene riproposto Il re dei re, del 1961, di Nicholas Ray. La vita di Gesù è al centro della serie di Netflix in otto puntate The Chosen.
A carattere religioso, ma non legata espressamente alla settimana santa, la nuova docu-serie in tre episodi disponibili da mercoledì 27 sempre su Netflix, Testament: La storia di Mosè, che ripercorre con interventi di teologi ed esperti di storia l’incredibile vita di Mosè da principe a profeta.

Su Sky segnaliamo The Young messiah, dal romanzo di Anne Rice, una pellicola del 2016 che ripercorre l’infanzia di Gesù. A 7 anni il futuro Messia lascia l’Egitto per tornare a Nazareth dove scopre le sue vere origini: e La passione di Cristo, la controversa opera di Mel Gibson, con Jim Caviezel e Monica Bellucci, che racconta le ultime dodici ore della vita di Gesù. Dalla preghiera nell’Orto degli Ulivi alla Crocifissione.

Tra i film più belli della storia del cinema che hanno raccontato la passione di Gesù ricordiamo Ben Hur, Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini e Jesus Christ superstar, che sono disponibili a pagamento su diverse piattaforme.
Su Rai play tre i film che segnaliamo:

L’inchiesta anno Domini XXXIII, regia di Giulio Base, del 2006, con Penelope Cruz e Daniele Liotti, L’imperatore Tiberio, turbato da dicerie e fenomeni astrologici, richiama dall’esilio l’investigatore Tito Valerio Tauro e gli affida il compito di scoprire la verità sulla morte di Gesù di Nazareth, un predicatore galileo il cui cadavere sembra misteriosamente scomparso.

Barabba, del 2012, regia di Roger Young, con Billy Zane, Cristiana Capotondi, Filippo Nigro, Anna Valle, Hristo Shopov. Barabba è un malfattore, condannato a un’esistenza bruta di violenza e sopruso. L’amore di una donna e l’incontro con gli Zeloti, col loro impegno politico, aprono ai suoi occhi un orizzonte nuovo e gli insegnano un nuovo rispetto di sé. Fino al momento in cui il suo destino incrocia quello di Gesù.
Jesus, del 1999, regia di Roger Young, con Jeremy Sisto, Jacqueline Bisset, Armin Mueller-Stahl, Luca Zingaretti, Elena Sofia Ricci, Stefania Rocca, Gabriella Pession, Luca Barbareschi, Claudio Amendola, Gary Oldman. La vita di Gesù raccontata nella sua piena umanità, dagli anni della formazione all’esperienza delle tentazioni di satana quando il nazareno capisce fino in fondo l’importanza della sua Missione. Un Uomo che vive rivelando il messaggio del Padre e che affronta il sacrificio della crocifissione accogliendo la Sua volontà per la salvezza del mondo.
Famiglia Cristiana

Murales. Cristo che salva i migranti e invita l’Unione Europea ad accogliere

Cristo che salva i migranti e invita l'Unione Europea ad accogliere

Un Cristo che accoglie, anzi salva, un barcone stracarico di migranti. È il soggetto dell’ultimo murale di Harry Greb apparso nel centro di Roma, in via del Governo Vecchio. Quella dell’artista di strada, più che una provocazione, è un invito all’Europa a intervenire per aiutare chi è costretto a fuggire dalla propria terra e sempre più spesso perde la vita, come accaduto in questi giorni nel naufragio di Cutro, in Calabria, dove i morti sono stati 67.

Gesù indossa una bandiera dell’Unione Europea, azzurra con il cerchio di stelle, e tra le mani tiene l’imbarcazione piena di povera gente. Sulla fiancata rossa dello scafo campeggia la scritta “Why Not?” (Perché No?). Un invito divino ad accogliere e salvare.

Sui social Harry Greb spiega il senso della sua opera: “Dovremmo accogliere, condividere, aiutare chi ha più bisogno… è questo che ci hanno insegnato, non girarsi dall’altra parte e oltretutto fare leggi che ostacolano chi salva vite in mare. Dietro tutto ciò c’è disperazione, sopravvivenza… diritto alla vita… Se non si capisce questo rischiamo di affondare tutti… Perché non aiutiamo? Perché l’Europa non si occupa seriamente del fenomeno migratorio? Perché no?”. Più chiaro di così.

avvenire.it

Why Not? Di Harry Greb. Il Murales realizzato nel centro di Roma per chiedere un impegno di tutta l'Europa per salvare e accogliere i migranti - Fotogramma

La vera storia del Crocifisso di don Camillo

Settant’anni fa usciva il primo film della saga ispirata ai racconti di Giovannino Guareschi diretta dal regista francese Duvivier. Quello utilizzato sul set stava a Cinecittà, ora si trova a Brescello ed è una copia del Cristo custodito nella chiesa di Busseto: «I fedeli vengono qui e si confidano con lui, proprio come nel film», racconta il parroco don Luigi Guglielmoni

in Famiglia Cristiana

Della saga di don Camillo e Peppone si sa molto. Del “Crocifisso parlante” con il quale dialoga il pretone burbero e generoso inventato da Giovannino Guareschi in Mondo piccolo assai meno. Il 15 marzo 1952, settant’anni fa, usciva il primo film della saga che portò al cinema la bellezza di oltre 13 milioni di spettatori, risultando una delle pellicole più viste di tutti i tempi. Un successo che ben presto varcò i confini italiani sbarcando in Francia, Germania, Svezia, Stati Uniti, Inghilterra (dove la voce narrante era quella di Orson Welles) fino ad arrivare al Don Kamiro proiettato nel 1954 in Giappone.

E pensare che nessun regista italiano contattato dalla produzione accettò di girare Don Camillo: troppo controverso in termini politici, troppo rischioso in un periodo dove l’opposizione tra Pci e Democrazia Cristiana era all’apice della tensione. Dissero di no Mario Camerini, Vittorio De Sica, Luigi Zampa e Renato Castellani. Venne sondata anche Hollywood, dove la sceneggiatura fu molto apprezzata. Frank Capra si disse interessato ma era troppo impegnato in quel periodo. La scelta, alla fine, cadde sul francese Julien Duvivier che cambiò in parte la sceneggiatura, scatenando le ire di Guareschi che non era mai soddisfatto di come le sue indicazioni venivano realizzate nelle riprese.

Lo scrittore diceva che «il mio pretone e il mio grosso sindaco li ha creati la Bassa. Io li ho incontrati, li ho presi sottobraccio e li ho fatti camminare su e giù per l’alfabeto». Logico che il film dovesse essere girato nella Bassa parmense, bagnata dal Po e terra di grandi italiani, a cominciare da Giuseppe Verdi. Guareschi volle aprire il suo ristorante proprio accanto alla casa natale del Maestro, a Roncole di Busseto, per poter stare, diceva, “all’ombra di un grande”. Ora è sede dell’Archivio curato con grande dedizione dal figlio Alberto, custode tenero della memoria del padre che riposa nel piccolo cimitero di fronte insieme alla moglie Ennia (la Margherita dei suoi racconti) e la figlia Carlotta (la Pasionaria).

Dove girare dunque il film? Julien Duvivier non era convinto dei paesi indicati da Guareschi, come Fontanelle, Roccabianca (dove lo scrittore era nato nel 1908), Polesine, Busseto e decise di far perlustrare il circondario alla ricerca del paese giusto. «Ici, Ici voilà le pays», esclamò entusiasta il regista francese quando vide piazza Matteotti a Brescello, Reggio Emilia, dove è ancora possibile ammirare la campana Sputnik, il carro armato americano e la bicicletta di Don Camillo.

E il celebre Crocifisso che ora si trova nella chiesa ma arriva da Cinecittà come materiale di scena della saga e che qualche anno fa l’allora parroco di Brescello don Evandro Gherardi, ispirandosi proprio ai racconti di Guareschi, decise di portare in processione dal centro del paese fino alle rive del Po per chiedere a Dio la protezione dagli effetti devastanti delle piene del fiume e dalla siccità, un problema che quest’anno è diventato particolarmente drammatico. «Poi», racconta, «l’ho portato in processione, da solo, in una piazza vuota, nella Via Crucis del Venerdì Santo, durante il lockdown del 2020».

Duvivier nel suo peregrinare nella Bassa aveva visto il Crocifisso conservato nella Collegiata di San Bartolomeo a Busseto, la chiesa dove nel 1836 Verdi sposò la sua prima moglie, Margherita Barezzi, e se ne innamorò perché lo trovava perfetto per il film. Perché il Cristo ha la testa lievemente girata sul lato destro, come se stesse interloquendo con don Camillo e volesse voltare la testa quando il prete gli dice qualcosa su cui non è d’accordo, e un corpo longilineo e dalle lunghe braccia sottili, quasi per abbracciare tutti. Oggi svetta nella prima cappella a sinistra risalente al 1642 e restaurata nel 1846. Per questo sul sagrato della chiesa di Busseto ci sono i cartonati di don Camillo, interpretato dal mitico Fernandel, e Peppone, Gino Cervi.

«Si tratta», spiega il parroco di Busseto, don Luigi Guglielmoni, «di un Crocifisso ligneo, di grandi dimensioni, degli inizi del 1400, ottimamente conservato. Forse in origine era il Crocifisso dell’altare maggiore della bella chiesa iniziata nel 1339 per volere del marchese Uberto Pallavicino, poi ampliata e riconosciuta “Collegiata” con Bolla papale del 9 luglio 1436». Davanti all’icona c’è un cartello che spiega cos’ha a che fare con i film su don Camillo e Peppone.

«Il Crocifisso resta lì, in alto e silenzioso, invitando a sostare un momento e ad alzare lo sguardo oltre l’immediato», riflette don Luigi, «Guareschi è stato geniale nel far dialogare il Crocifisso con don Camillo. Ma quel Cristo in croce continua a “parlare” a quanti ogni giorno vengono ad accendere un cero, a consegnargli la propria croce e a cercare speranza».

Per girare il film, Vivier fece scolpire un Crocifisso sul modello di quello di Busseto in legno di cirmolo, un legno leggero perché Fernandel faceva fatica a portare pesi, con le teste di legno intercambiabili a seconda che nel film Gesù dovesse ridere, piangere o arrabbiarsi nei dialoghi con il prete. Finito il film, se ne erano perse le tracce. Poi è stato ritrovato in un magazzino di Cinecittà. I cittadini di Brescello hanno voluto riportarlo nella loro città, dove è stato restaurato e pulito e da cinquant’anni si trova nella chiesa parrocchiale, dove molti vanno a pregare e accendere un cero.

Busseto ha ispirato, Brescello ha conservato. Da oggetto di scena a oggetto di culto e di devozione popolare. Una storia che sarebbe piaciuta a Guareschi al quale San Giovanni XXIII, lettore avidissimo dello scrittore, voleva affidargli di scrivere un commento al Catechismo. Giovannino conobbe di sguincio l’idea papale. E se ne stupì.

Di fronte alle tante guerre che come croci costellano ancora la storia, guardiamo al Cristo crocifisso e al suo gesto di amore che vince l’odio

Cari amici lettori, stiamo per vivere la Settimana santa, che si apre con la Domenica delle Palme. Accingendoci a contemplare e rivivere gli ultimi giorni terreni di Gesù, culminati nella sua morte in croce, il pensiero corre spontaneo alla sofferenza e al male che purtroppo, come tanti croci, costellano la storia anche oggi. Fa male nell’anima leggere, ad esempio, sul sito della comunità di Sant’Egidio, che – oltre all’orribile guerra tra Russia e Ucraina – ci sono almeno altri 30 conflitti nel mondo, con tutto il corteo di sofferenze annesse. Torna alla mente la famosa frase del filosofo Blaise Pascal su Gesù nel Getsemani: «Cristo sarà in agonia fino alla fine del mondo. Non possiamo dormire tutto questo tempo». Cristo soffre nei crocifissi di oggi: donne, bambini, anziani e disabili bombardati senza aver fatto nulla di male, profughi dai diversi inferni in terra…. «Siamo testardi come umanità. Siamo innamorati delle guerre, dello spirito di Caino», ha detto papa Francesco a Malta.

Mi sono chiesto – come forse molti di voi – dove sia la speranza cristiana in tutto questo. Confesso che la risposta è difficile anche per me, si rischia di “indorare” la pillola, di giustificare ogni cosa. Eppure, guardando a Cristo crocifisso, un barlume di speranza lo intravvedo. Gesù, come i tanti crocifissi di ogni tempo, ha subìto una violenza ingiusta, una condanna infamante senza avere colpa. La sua risposta alla violenza però è non è stata altra violenza.

L’intuito della fede ci suggerisce che sulla croce il Signore ha risposto alla violenza con un atto d’amore, “deponendo” la vita per gli amici e per i nemici. Specchio della compassione di Dio per il mondo, ha assunto su di sé la “maledizione” che grava sul mondo, il nostro peccato. A un atto di odio ha risposto con un amore senza limiti. È qui che vedo l’inizio di una speranza, quella speranza che deve animare coloro che si dicono discepoli di “questo” Signore: i credenti in un Crocifisso devono sentire come propria la sofferenza di Cristo e imparare da Lui l’amore, la “sim-patia” (il saper soffrire con gli altri) e l’empatia, lasciandosi com-muovere dalle sofferenze degli altri. Anche noi dobbiamo chiederci in questi giorni dove stiamo e cosa possiamo fare.

Nel racconto della Passione di Gesù compaiono tante figure in cui possiamo ritrovarci: le guardie, i sommi sacerdoti, i discepoli addormentati e quelli che fuggono, il vigliacco Pietro, l’indeciso Pilato… Forse possiamo ritrovare qualcosa di noi anche tra quelli che hanno intuito ciò che si nascondeva dietro lo “scandalo” della croce: Maria, le donne sotto la croce, il centurione, il ladrone pentito, il discepolo prediletto, Simone di Cirene…

Dunque, anche noi possiamo partecipare ancora oggi alla Passione del Signore e diventare “com-partecipi” della sofferenza del mondo se vogliamo vivere una Pasqua autentica. E tra i tanti modi con cui possiamo fare qualcosa per chi è nel bisogno, mi permetto di suggerire l’iniziativa “Un gesto di cuore” (vedi pagg. 44-45), l’abbonamento solidale a Credere per gli anziani soli e fragili, che è sempre stato sostenuto da voi, cari amici lettori, con grande generosità. Un modo piccolo e silenzioso per partecipare, insieme a tutto il popolo di Dio, alla Passione di Cristo, «fino alla fine del mondo».
Famiglia Cristiana 

Il sangue di Cristo

lavati dal peccato nel suo sangue

«E dopo ciò io vidi, contemplando, il corpo che sanguinava abbondantemente a somiglianza della flagellazione, ed era così: la pelle splendente era lacerata da profonde ferite che penetravano nella tenera carne a causa dei duri colpi su tutto il dolce corpo. Il sangue caldo scorreva con tale abbondanza che non si riusciva a vedere né la pelle né le ferite, perché tutto era coperto di sangue». (12.165)

Non si può certo pensare a un cammino di meditazione sulla passione di Gesù senza fare i conti con il sangue, per quanto ciò possa suscitare sensazioni di disagio e di ripulsa.

Il punto di partenza scelto da Giuliana è quanto di più cruento si possa immaginare, la flagellazione, che, come si sa, non era semplicemente una punizione, ma un mezzo scelto per abbreviare l’agonia del condannato, prosciugando in anticipo il corpo della sua linfa vitale. Questo va detto, perché, se l’elaborazione teologica rischia di illudere che, alla fine, si tratti solo di belle immagini, in certi casi persino affascinanti, la base resta pur sempre il realismo tragico di un corpo squarciato senza pietà da sferze e flagelli.

Possono aiutare in questa “contemplazione” le parole stesse della reclusa quali si trovano nella Quarta Rivelazione, dal titolo significativo: “Come Dio preferisca che noi siamo lavati dal peccato nel suo sangue piuttosto che nell’acqua, perché il suo sangue è preziosissimo”, dove lo sguardo si focalizza sulla coronazione di spine.

«E in quel momento vidi improvvisamente il sangue rosso scorrere giù dalla corona, caldo, gorgogliante, abbondante e vivo, proprio come quando la corona di spine veniva premuta a forza sul suo capo benedetto (4,143). E per tutto il tempo in cui egli mi rivelò quanto ho detto in visione spirituale, vidi con visione corporea il capo di Cristo che continuava a sanguinare abbondantemente. Grosse gocce di sangue cadevano come grani dalla corona di spine, e sembrava che uscissero dalle vene. E nell’uscire erano di un rosso scuro, perché il sangue era molto spesso. E nello scorrere fuori diventavano di un rosso lucente. E quando giungevano alle sopracciglia svanivano. E nonostante ciò lo scorrere del sangue continuò fino a che non vidi e capii molte cose. Tuttavia la visione continuò ad essere bella e viva… Il sangue stillava abbondante come le gocce d’acqua che cadono dalla grondaia di una casa dopo un forte acquazzone: cadono così spesse che nessuno riesce a contarle con la sua intelligenza naturale». (7,150)

Giuliana chiama “visione spirituale” quella in cui le si rivela il significato teologico di quanto vede nella “visione corporea”: avvertimento opportuno, che ci chiede di non separare mai le due visioni, pena il cadere in una comprensione solo emozionale o in una puramente intellettuale. Non è facile, ma se si vuole avere un’intelligenza completa e integrale delle cose, la testa, per non perdersi tra le nuvole, deve sempre essere connessa ai piedi che aderiscono alla terra!

Da dove partire, dunque, per sostare in modo fecondo sulla contemplazione del sangue sparso da Gesù durante la sua passione, da quello apparso sul suo volto come sudore al Getsemani (cf. Lc 22,44) a quello che il colpo di lancia al Calvario fece uscire dal suo petto insieme a gocce d’acqua (cf. Gv 19,34)?

Se il primo richiama la paura, per non dire lo spavento di Gesù di fronte al destino che l’attendeva, l’ultimo sangue è stato da sempre letto come il segno inequivocabile di una vita donata fino al suo esaurirsi nell’ultima stilla. Vediamo così riuniti i due temi che aprono e chiudono il campo di significato del sangue: la sofferenza e la paura che ne consegue da una parte, il dono e persino la gioia che lo accompagna dall’altra. Che sia questo secondo il senso profondo e ultimo del sangue lo conferma in modo lapidario uno dei primi e più noti martiri cristiani, Ignazio di Antiochia, che scrive «Il sangue di Cristo è la carità» (Ai Tralliani 8,2), per il che esprime il desiderio di voler «bere il sangue di Cristo, che è l’amore incorruttibile» (Ai Romani 7,3).

Anche se oggi parlare di sangue, soprattutto nel discorso religioso, crea un vago senso di ritrosia, occorre ricordare che ci furono altre stagioni, per esempio l’Ottocento, in cui venne creata persino una festa del “Preziosissimo Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo”, fissata al 1° luglio ed estesa da Pio IX alla Chiesa universale nel 1849, poi soppressa dopo il Vaticano II.

Il culto lungo la storia

Sotto questo titolo, sempre nell’Ottocento, furono create non meno di quindici congregazioni religiose, e non è detto che non ci si ritorni in questi tempi di martiri. Meditare sul sangue di Cristo deve anzitutto ricordare la generosità inaudita, sua e di tanti suoi seguaci, dichiarati o anonimi (penso agli innumerevoli martiri per la giustizia), che hanno proclamato con questo loro sacrificio il valore della vita proprio mentre la perdevano, e la speranza di una risurrezione. Perché, in effetti, il messaggio più forte che viene dal sangue sparso per amore, è insieme quello di una grande speranza che, alla fine, a trionfare non sarà il buio, ma la luce, e che l’oblò di cui si parlava all’inizio finirà per sfolgorare come il sole. Paradossalmente, proprio questo è il messaggio dell’Apocalisse, che vede sconfitta la Babilonia della malvagità e vincente la Gerusalemme del cielo, dove canteranno la gloria del Signore gli eletti che hanno lavato le loro bianche vesti nel sangue dell’Agnello (cf. Ap 7,10.14; 12,11)!

Abbondante e prezioso

Veniamo a Giuliana, che si dice impressionata dall’abbondanza del sangue sparso nella passione. Scrive: «Allora mi venne in mente che Dio ha creato abbondanza di acque sulla terra per il nostro uso e per le nostre necessità fisiche secondo il tenero amore che egli ha per noi. Ma tuttavia egli preferisce che noi prendiamo come medicina perfetta il suo sangue beato per lavarci dai nostri peccati: perché non c’è altra bevanda nel creato che egli desideri maggiormente darci. Perché il suo sangue è abbondantissimo, così come è preziosissimo per virtù della beata divinità» (12,165).

Nel passo trionfa la logica del “dono” come si è detto. E sull’onda di tale intuizione, Giuliana esplode in una pagina mirabile, che ha la solennità e il passo delle grandi anafore eucaristiche che ci hanno consegnato le antiche liturgie. Ecco il “poema” che ne esce:

«Il preziosissimo sangue di nostro Signore Gesù Cristo, come è veramente inestimabile, è altrettanto veramente sovrabbondante.
Contempla e vedi le virtù di questa preziosa abbondanza del suo preziosissimo sangue. Discese nell’inferno e
ne spezzò le catene, e liberò tutti quelli che vi erano detenuti e che ora appartengono alla corte del cielo.
La preziosa abbondanza del suo preziosissimo sangue scorre su tutta la terra, ed è in grado di lavare dal peccato
tutte le creature che sono, sono state o saranno di buona volontà.
La preziosa abbondanza del suo preziosissimo sangue ascese in cielo nel corpo beato del nostro Signore Gesù
Cristo, e là ora sta in lui, continuando a scorrere, pregando per noi il Padre, e così è e sarà fino a quando noi ne avremo bisogno. E inoltre scorre in tutto il cielo, nella gioia per la salvezza di tutta l’umanità che ora è là, e di quella che ci sarà, riempiendo così il numero degli eletti che attende di essere completato». (12.165-166)

L’abbondanza è stata tradotta in energia dirompente che scardina le porte del carcere infernale, con lo stesso impeto con cui le acque dal Mar Rosso seppellirono i nemici di Israele liberando il popolo dall’oppressione; diventa benefico diluvio che purifica distruggendo le forze del male, «perché quel torrente di misericordia che è il suo preziosissimo sangue e acqua è così abbondante da farci belli e immacolati» (61.280); arriva fino a insediarsi nel cielo, dove, come una fontana inesauribile, continua a svolgere il suo potere di intercessione in nostro favore (cf. Eb 7,25) e a zampillare gioia e felicità per tutti gli eletti che ci sono e ci saranno.

Cristo, nostra Madre carissima

Oltre a questa visione cosmica e sintesi teologica straordinaria, Giuliana sa anche offrirci visioni di una delicatezza commovente, come quando scrive che Cristo, nostra Madre carissima, «ci aspergerà tutti con il suo sangue prezioso» (63.283), unendo la tenerezza della mamma che lava il bambino con il gesto liturgico del pontefice che purifica l’assemblea.

Per finire mi piace citare una bella poesia del medioevo inglese dove, con un’intuizione geniale, l’anonimo autore trasfigura il sangue nell’appello di un innamorato perché l’amata lo lasci entrare:

«Apri la porta, mia sposa cara. /
Ahimè, perché son chiuso fuori? /
Sono il tuo nobile
compagno. /
Guarda i miei riccioli e il mio capo, /
e tutto il corpo di sangue intriso, /
per amor tuo».

Il Cristo dolente di tante raffigurazioni medievali è diventato l’innamorato del Cantico che supplica l’amata: «Aprimi, sorella, amica mia… Rorida di rugiada è la mia testa e i miei riccioli sono bagnati di gocce della notte» (Ct 5,2), un passo che rimanda pure ad Ap 3,20. Il trasferimento di immagine dalla rugiada al sangue, come per le piaghe che si trasfigurano in “nido”, produce l’effetto sorprendente di inserire nella figura del sangue quella del rapporto d’amore, inteso soprattutto in termini di intimità, dove si sperimenta l’apoteosi del dono di sé.

settimananews

L’iconografia del battesimo di Cristo… dagli affreschi delle catacombe di San Callisto ai mosaici del V secolo

Ad ali spiegate sull’acqua

di Fabrizio Bisconti

Il battesimo del Cristo appare molto presto nell’arte cristiana ed anzi, a tutt’oggi, un affresco dell’area di Lucina del complesso callistiano con questo tema, datato ai primi decenni del III secolo, rappresenta la più antica espressione figurativa propriamente cristiana. Di lì a qualche anno, la semplice scena che vede il Battista e il Cristo presso il Giordano quando la colomba dello Spirito sopraggiunge per connotare l’evento evangelico e per distinguerlo dal semplice battesimo dei neofiti, si diffonde nei cubicoli dei sacramenti, sempre nell’area callistiana, ma anche nei sarcofagi romani, sempre del secolo III, come in quelli della Lungara e di Santa Maria Antiqua.
In tutti questi casi, la scena viene associata a temi di intuitivo significato battesimale, con riguardo speciale per i prodigi del diluvio universale e dell’acqua che Mosè fa sgorgare per gli israeliti, secondo uno schema che verrà replicato con la rappresentazione del miraculum fontis, provocato da Pietro nel carcere mamertino.
Ma la scena si lega anche al dialogo del Cristo con la Samaritana al pozzo o alla più semplice ma suggestiva figura del pescatore. Questo giro di esperienze figurative, tenute unite dal leitmotiv dell’elemento-acqua rimbalza anche negli edifici di culto e, in particolare, nella domus ecclesiae di Dura Europos sull’Eufrate, dove un elementare programma decorativo, riservato all’ambiente battesimale, oltre alle scene delle donne al sepolcro e dello scontro tra Davide e Golia, emerge un piccolo gruppo figurativo che associa la guarigione del paralitico di Bethesda e l’episodio di Pietro salvato dai flutti, mentre, nella lunetta di fondo il peccato dell’origine e la figura del buon pastore alludono direttamente al lavacrum dell’iniziazione.
Spostiamoci a Ravenna, nel complesso della cattedrale voluto nella città altoadriatica dal vescovo Ursus tra il IV e il V secolo: l’episcopio ursiano fu presumibilmente dotato subito di un battistero, poi rinnovato, secondo il Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis del protostorico d’Andrea Agnello (IX secolo) dal vescovo Neone (451-473). Al suo intervento vanno presumibilmente riferiti i mosaici che decorano la grande cupola costruita per mezzo di tubi fittili, che compongono una doppia fila di anelli concentrici e degradanti. Lo zenit della cupola è occupato da un medaglione che accoglie, su un fondo aureo, il battesimo del Cristo, attorniato da una fascia costellata dalla teoria dei dodici apostoli organizzati in un corteo solenne, mentre offrono le corone del trionfo con le mani velate.
In età teodoriana (493-526) presso la cattedrale ariana fu innalzato un battistero che, al tempo della riconquista bizantina, sarà di nuovo consacrato al culto ortodosso, secondo la stessa dinamica che interesserà la basilica palatina di Sant’Apollinare Nuovo. Il battistero degli Ariani appare più spoglio, in quanto privato dei marmi e di una porzione di mosaici, in parte recuperati durante gli scavi del secolo scorso.È rimasto intatto il decoro musivo della cupola, rappresentato da un clipeo centrale ancora con il battesimo del Cristo, attorniato dalla teoria dei dodici apostoli guidati da Pietro e Paolo che si dirigono ai lati del trono vuoto dell’Etimasia, scena che vuole sottolineare, da un lato, la sovranità del Cristo proiettata nella sua Resurrezione e, dall’altro, per paradosso, la fisicità di Gesù e della sua morte violenta, in perfetta coerenza con il pensiero ariano.

(©L’Osservatore Romano 13 gennaio 2013)