Voci Universitarie in Musica. Concerto di Natale 11 Dicembre 2021 in S. Agostino

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Voci Universitarie in Musica. Concerto di Natale
Coro unibzVoices dell’Università di Bolzano Direttore: Johann van der Sandt

Coro PoliEtnico del Politecnico di Torino

Direttori: Giorgio Guiot, Dario Ribechi

Coro dell’Università di Modena e Reggio Emilia

Voce solista: Elisa Esposito

Pianoforte: Luigi Maria Maesano

Direttore: Antonella Coppi

Data inizio evento: 11/12/2021 21:00

Luogo: Chiesa di Sant’Agostino, Reggio Emilia

Categorie: eventi, Altro evento, studenti

Pubblicato da: comunicazione@unimore.it

Messa beat, la chitarra sia con voi

Dentro musica, battimani e scene isteriche. Fuori una calca di giovani, con le forze dell’ordine in stato di assedio a blindare l’ingresso. È il 27 aprile 1966 e non è un concerto dei Beatles, ma la prima esecuzione della Messa dei Giovani di Marcello Giombini: la celebre “messa beat”. Stando a giornali e riviste, quel giorno a Roma ci furono scene apocalittiche, ma negli articoli è difficile scindere la ricerca del colore e dello scandalo dalla cronaca. Il concerto ebbe luogo nell’ambito dell’Oratorio secolare dei Filippini alla Vallicella, nell’aula di Francesco Borromini. Una chiave dello spirito in cui prese vita quell’evento, che non ebbe luogo in un contesto liturgico (l’oratorio era per altro ormai sconsacrato). Tra gli autori dei testi, insieme a Giuseppe Scoponi e Tommaso Federici, un liturgista, c’era anche l’oratoriano Carlo Gasbarri.

È probabile che nei suoi intenti la messa beat si riagganciasse alle laudi filippine, che pochi anni dopo un altro Concilio, quello di Trento, intonavano testi sacri in lingua volgare. Ma i tempi erano cambiati. Lo stesso Giombini, in un’intervista ad “Avvenire” nel 1999, affermava che la messa beat «era un fenomeno solo discografico. Io non ero un addetto ai lavori, non sapevo niente di liturgia, anche se avevo amici liturgisti che mi aiutavano.

Da musicista, però, mi sembrava di aver scoperto l’esigenza di un canto religioso più giovane e vicino al costume di quegli anni, perché in chiesa allora si sentivano grandi lagne. E così ho pensato a un prodotto mirato come la Messa. Che difatti ha avuto molto successo, decine di migliaia di copie». Il passaggio nel rito sarebbe avvenuto solo due anni dopo, quando per il Natale 1968 Giombini venne invitato dalla Pro Civitate Christiana di Assisi a comporre canti per la liturgia. Nacque la Messa Alleluia, a cui ne seguirono altre e i 150 Salmi per il tempo presente. Alcuni di quei brani resistono nel repertorio, come Vieni tra noi Signore, Le tue mani, Quando busserò, Pace a te fratello mio. Paradossalmente ormai del tutto privi dell’allure di “canto giovane”.

La stampa, intuendo forse inconsciamente la nascita di una lacerazione, incasellò prontamente il fenomeno nel dualismo urlatori-melodici. «All’epoca le critiche furono spietate – dice Daniele Sabaino, docente di Storia della musica dei riti cristiani presso l’Università di Pavia e di Musica e liturgia dopo il Concilio Vaticano II nel corso promosso dall’Ufficio liturgico nazionale della Cei – non solo da parte di chi era facile aspettarselo, ma anche ad esempio dall’“Unità”. Si contestava la desacralizzazione della Messa. Osservato con maggiore distacco, è stato il tentativo di portare la musica dell’oggi dentro la liturgia, in un momento in cui la separazione tra vita quotidiana e vita liturgica era significativa. I linguaggi musicali erano volti al passato o chiusi nel loro recinto. Serviva perciò una scelta di campo: cosa si intendeva con “musica d’oggi”? La musica popular o la musica colta? Le post avanguardie o le chitarre? Si scelse di democratizzare l’impatto che la musica poteva avere nel culto.

Se osserviamo i Salmi, scritti da Giombini su stimolo di don Giovanni Rossi, appaiono oggi un tentativo ben costruito di fare entrare il linguaggio quotidiano dentro alla liturgia». La messa beat, d’altronde, non apparve come un fulmine a ciel sereno. «Non ci si arrivò per caso – spiega don Luigi Garbini, autore per il Saggiatore di una esaustiva, nonostante il titolo, Breve storia della musica sacra–. Sul fronte musicale, nel 1965 i Beatles vengono in Italia e si mostrano come un gruppo rivoluzionario che dà spessore culturale al mondo giovanile. Poi c’è la società in piena trasformazione.

E la Chiesa elettrizzata e anche sconvolta dagli esiti della costituzione Sacrosanctum Concilium che, ammettendo la lingua volgare nel rito, genera in alcuni una sorta di liberazione rispetto al passato, in altri una sensazione di profondo smarrimento. Questo fatto produce una terra di nessuno in cui diversi attori liturgico-musicali fanno la loro comparsa. E, naturalmente, gli uni contro gli altri». Giombini è tra questi, ma non l’unico: «Si potrebbe ricordare Claudio Chieffo, legato alle linee spirituali di Gioventù Studentesca, e il suo tentativo di interpretare in modo diverso la novità della lingua. Oppure l’esperienza di Chiara Lubich e la nascita, sempre nel 1966, della Generazione Nuova che nel proprio repertorio musicale ha avuto sempre a cuore i temi della pace tra i popoli». In quegli anni si muovono mondi paralleli che agganciano la religione e con essa l’espressione musicale «come fenomeno in cui far convogliare tutte quelle istanze che rappresentano un fattore di cambiamento sociale e politico.

Diversamente però da questi attori – prosegue Garbini – che avevano un contesto di riferimento, Giombini non rappresentava nessuno in particolare. Aveva semmai una sua precisa collocazione nel panorama artistico romano. Autore soprattutto di colonne sonore, non poteva interpretare il fenomeno religioso se non attraverso griglie emotive che mettevano in luce una certa idea di sacro». A 50 anni di distanza, quella “litigiosità” sulla musica nella liturgia non sembra venire a patti. Difficile trovare un argomento ecclesiastico su cui le discussioni siano più roventi. Ma non è così scontato valutare quale sia l’eredità di quel fenomeno. «Quella beat è stata un’esperienza circoscritta, in cui era centrale il sound dell’epoca: tastiere, chitarre, basso e batteria – commenta Sabaino –. La continuità con quanto è seguito sta nello sdoganamento dell’approccio.

Ma le musiche dei Gen, ad esempio, sono mediate da altre esperienze, come il christian rock americano piuttosto che discendere direttamente dagli anni ’60. È però importante non fare l’equazione tra strumenti e stili. Accompagnare la liturgia con la chitarra non significa fare musica pop». Secondo Garbini «oggi quella carica eversiva è assente non solo nella liturgia ma anche nella musica cosiddetta leggera. Inoltre il canto nella liturgia non rappresenta più il contenitore privilegiato per l’espressione di istanze sociali collettive. Il risultato è l’assenza di un repertorio.

Di uno stile. Di un carattere specifico. I prodotti musicali della liturgia di oggi sono di norma scadenti. Nel panorama italiano Frisina costituisce un’eccezione. E potrebbe anche essere considerato, a suo modo, un erede di Giombini: perché quando compone lo fa sostanzialmente pensando al cinema, alle immagini, ossia ai risultati emotivi prodotti dalla musica. È in fondo un compositore barocco: come Giombini, la cui messa beat è nata non a caso sotto la volta di Borromini ». Sabaino: «Vista con distacco, fu il tentativo di portare il presente nella liturgia in un momento in cui era scollegata dalla vita quotidiana» Garbini: «È indicativa di un momento in cui sul sacro convergevano istanze sociali collettive, cosa che oggi non accade più».

Avvenire

Voci dal coro (1) / Gregoriano, l’illustre scomparso

L’illustre scomparso «La Chiesa riconosce il canto gregoriano come proprio della liturgia romana: perciò, nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale». Sono parole della Sacrosanctum Concilium, la prima delle costituzioni del Vaticano II, dedicata alla liturgia. Difficile affermare che sia stata presa alla lettera. Sul gregoriano, come sulla riforma della liturgia, sono esplose ed esplodono polemiche tra fazioni – ipertradizionalisti e rottamatori – che non aiutano a capire e uscire dall’impasse. «Una delle accuse che si fa al gregoriano è che impedisce alla gente di cantare – dice Giacomo Baroffio, tra i massimi esperti in Italia –. Ma anche in molte chiese dove si canta in italiano l’assemblea partecipa poco, con il ‘coretto’ che fa tutto da sé…

Sul gregoriano c’è un grande equivoco: la sua crisi non è musicale ma culturale. Il problema è accogliere la parola di Dio secondo una formula collaudata dalla tradizione. Il gregoriano non è musica, è preghiera». È difficile tracciare una geografia della pratica del gregoriano oggi. Non mancano in Italia le scholae, molte delle quali ‘autonome’, composte da appassionati che studiano e poi prestano servizio liturgico, mentre altre sono legate più strettamente a un contesto ecclesiale. Oltre a Baroffio, nomi come Alberto Turco e Fulvio Rampi hanno rilievo internazionale. Eppure è impossibile mappare la sua presenza nella liturgia. E non solo nelle parrocchie. «In molte comunità religiose – prosegue Baroffio – oggi il gregoriano non è praticato né conosciuto.

Rispetto ad alcuni anni fa è aumentata la disponibilità, specie tra le suore, che spesso cantano molto bene: ma sono abituate a farlo in italiano ». Per non parlare dei seminari: «Se i giovani sacerdoti non lo conoscono, non possono apprezzarlo e nella pastorale daranno priorità a mezzi ideali sotto il profilo emozionale e aggregativo, ma che non riescono a sedimentare. Il gregoria- no è, per così dire, un investimento spirituale a lungo termine. È paradossale come l’opposizione maggiore arrivi dal clero. Ci sono parroci per i quali la musica in chiesa pare tabù. Se fosse visto per quello che è, ossia uno strumento per meditare, il gregoriano non sarebbe contestabile».

Certo, serve formazione: «Sembra una battuta, ma nelle parrocchie si spende di più per i fiori che per la musica ». E si arriva così all’esito paradossale di un gregoriano che, ciclicamente, diventa caso discografico: «Spesso sono operazioni commerciali che operano un nuovo tradimento. Il gregoriano viene proposto come musica esotica o terapeutica, infatti è così sfaccettato da poter rispondere alle esigenze più diverse. Ma il rischio è di interpretarlo come suono magico, ermetico». Un equivoco che sembra investire anche molti tradizionalisti.

Ci sono altri equivoci da sfatare. A partire proprio da cosa intendiamo per ‘gregoriano’. «Dobbiamo distinguere tra il gregoriano dei musicologi e quello della tradizione ecclesiale, che potremmo invece definire più propriamente monodia liturgica in lingua latina», spiega Daniele Sabaino, docente di Storia della musica dei riti cristiani all’università di Pavia. «Per i primi è il patrimonio musicale costituito dal fondo antico e soprattutto dai propria della messa, ossia i canti modellati sui testi specifici per ogni celebrazione.

Quel poco che è rimasto nell’uso è invece l’ordinarium, ossia i brani fissi della messa, dal Kyrie all’Agnus Dei ». Il Graduale Romanum, il volume che raccoglie il repertorio ufficiale, conta 18 diverse intonazioni: un ciclo modellato sull’anno liturgico. «Ma quella più diffusa è la Missa de Angelis, che però è una composizione molto tarda, come anche antifone mariane come il Regina coeli o la Salve Regina ». A fare il calcolo, nel canto popolare sono rimasti una manciata di brani. «E per fortuna. Si tratta di un paio di messe, le più facili, e una dozzina di canti. Non è un caso che corrispondano al contenuto di un librettino pubblicato da Paolo VI nel 1975: Jubilate Deo ».

Il cui sottotitolo è rivelatore: «Canti gregoriani più facili, che i fedeli dovrebbero conoscere secondo l’intenzione della costituzione del Concilio Vaticano II sulla sacra liturgia»… Nella pratica il fondo antico è scomparso. «Nel momento in cui l’interesse è focalizzato sull’assemblea, quel tipo di repertorio non funziona più, perché al di sopra delle possibilità non solo di quella ma anche di molti cori». Eppure sarebbe ingenuo pensare che prima per il gregoriano fosse l’età dell’oro. In realtà è solo da metà Ottocento che, con l’iniziativa dei benedettini di Solesmes, questa forma viene recuperata e penetra grazie al movimento liturgico. Ma senza diventare davvero patrimonio popolare.

C’è forse un vero e proprio mito del gregoriano con radici antiche. «Nel 1903 Pio X nel motu proprio Inter sollicitudines sostiene che bisogna riportare il gregoriano nell’uso del popolo. Ma in verità non c’era mai stato. Gli studi avviati negli anni Sessanta da dom Eugène Cardine, che hanno portato alla semiologia gregoriana, hanno dimostrato quale raffinatezza interpretativa si annidi nel fondo antico. Una difficoltà che poteva essere riservata solo alle comunità monastiche e che oggi può essere affrontata soltanto dagli specialisti. E questo pone un problema oggettivo per l’inserimento nella liturgia». Insomma, c’è spazio oggi per il gregoriano nella Messa? «Sì, come per tutti i repertori e tutti i generi. Bisogna piuttosto individuare quale momento, quale scopo». L’ultimo equivoco è il richiamo alla partecipazione attiva dei fedeli, spesso confusa con l’omologazione: «L’assemblea è uno dei soggetti, ma non l’unico: il coro è essenziale».

Avvenire

Musica. L’inchiesta / Non siamo solo una linea nel coro

«Ele ragazze di colore fanno do-doo dodoo… » cantava Lou Reed in Walking on the wild side rendendo omaggio a una categoria che ha lasciato le proprie impronte digitali su gran parte della storia della musica, ma continua a vivere nell’ombra: i coristi. Artisti spesso straordinari di cui tutti conoscono la voce, qualcuno il volto, ma quasi nessuno il nome. Fra i più famosi c’è Merry Clayton, grandissima interprete gospel e soul passata alla storia del rock nell’ormai lontano ’69 per il duetto con Mick Jagger in Gimme shelter dei Rolling Stones, richiamata in servizio pure dai Coldplay in un paio di brani del loro ultimo album A head full of dreams.

La Clayton è ovviamente tra i protagonisti di 20 Feet from stardom il docu-film che due anni fa è valso l’Oscar al documentarista Morgan Neville e alla sua idea di puntare l’obiettivo su una categoria anomala, anello di congiunzione tra la schiera dei cantanti e quella dei divi. Nella maggior parte dei casi, infatti, le loro non sono storie di occasioni mancate o di fallimenti, ma piuttosto esempi di pacificazione tra vita reale e vita sognata.

E se oltre oceano i grandi interpreti confinati oltre quei fatidici “sei metri” che separano ciò che siamo da quello che avremmo potuto essere si chiamano Darlene Love, Lisa Fischer, Táta Vega, Niki Haris, Judith Hill, Bernard Flower, Arnold McCuller, da noi hanno lo charmee il talento di Emanuela Cortesi, Paola Folli, Antonella Pepe, Lalla Francia, Lola Feghaly, Giulia Fasolino, Iskra Menarini, Paola Repele, Roberta Granà, Lidia Schillaci, Monica Hill, ma pure Moreno Ferrara, Silvio Pozzoli, Riccardo Majorana o Stefano De Maco. Tutti eredi eccellenti di Nora Orlandi e Alessandro Alessandroni sparsi tra studi di registrazione, palcoscenici, e trasmissioni tv. Alcune come Sheryl Crow, Rita Coolidge, Faith Evans o Rossana Casale hanno fatto il grande passo, altre come Paula Cole ci hanno provato, ma il grosso dei coristi pop non ha mai tradito la propria scelta di vita.

«Lavorare con Mia Martini mi ha insegnato tantissimo, grazie a questa esperienza ho potuto fare tanto lavoro sull’interpretazione e acquisire la consapevolezza necessaria per pormi altri traguardi» spiega la Casale, ribadendo che i modelli sono importanti. «In un brano musicale noi siamo come la farcitura del pan di spagna» semplifica in termini culinari Paola Folli, collaboratrice storica, fra gli altri, di Renato Zero ed Elio e le Storie Tese, in gara nei panni di solista a Sanremo ’98 e attuale vocalcoach di “X-Factor”. «Anche se una volta c’era una scuola, dovevi saper leggere la partitura e fare gavetta, mentre oggi spesso e volentieri non è richiesto».

C’è però la tv. «Tra tournée e show televisivi la differenza è abissale» puntualizza Emanuela Cortesi che, oltre ad aver vinto Castrocaro nel ’73 ed essere arrivata in finale a Sanremo l’anno successivo, è stata corista di Ramazzotti, Mina, Pausini, Dalla, De Gregori, Celentano e in decine di show tv. «In tour ti focalizzi su un artista e su una storia, le prove durano settimane e hai quindi il tempo necessario per mettere a punto ogni dettaglio, in televisione invece tutto è frenetico e devi essere sempre “pronto all’uso”, a volte addirittura inventarti in cinque minuti l’arrangiamento vocale di un pezzo rimasto senza». E poi c’è da distinguere tra vocalist e corista. «La vocalist si prende i suoi spazi, improvvisa, mentre la corista è solo al servizio dell’artista» prosegue la Cortesi.

«Questo mestiere o lo fai con gioia o è meglio che lasci perdere, sul palco il corista irrisolto si vede e si sente subito». Nel film di Neville, la Fisher dice che la carriera dei coristi è mediamente più lunga di quella delle star con cui lavorano. «Assolutamente vero» conferma la Folli, «la professione di chi usa la voce ha molti più sbocchi di quella del musicista; puoi fare il doppiatore, il solista, i tour, la tv, gli spot pubblicitari e la tua vita “artistica” può essere davvero molto lunga ». Ma la crisi morde pure sei metri dietro al boccascena. «Un tempo i coristi sul palco erano 3 e sembravano 60 mentre oggi spesso sono 2 e sembrano 120» aggiunge la Cortesi.

«Con i campionamenti puoi fare di tutto e, assistendo a un concerto o a uno show tv, ad esempio, è facile sentire qua e là la tua voce registrata chissà quando e chissà come. Questo all’estero è vietato, da noi un po’ meno». Non siamo gli americani, meglio mettersi l’anima in pace. «Durante le prove di un Pavarotti & Friends, Anastacia aspettò che finissi di cantare il suo pezzo e poi si inchinò in segno di riconoscenza» conclude “Manu” Cortesi. «Con gli artisti di casa nostra è più difficile che ciò accada, perché c’è meno rispetto dei ruoli e più timore che qualcuno gli faccia ombra». Eccetto i grandissimi, naturalmente. «Ricordo ancora la volta in cui, lavorando assieme sulle seconde voci di un suo album, Mina mi disse: scusa l’imprecisione, ma a fare i cori non sono brava come te…».

da Avvenire