Papa Francesco e il rinnovamento liturgico voluto dal concilio Vaticano II

 Nella fedeltà ai suggerimenti dello Spirito  QUO-050

Osservatore Romano

Pubblichiamo di seguito in una nostra traduzione italiana l’articolo apparso sulla rivista dei gesuiti statunitensi «America».

«Non c’è niente di nuovo sotto il sole». Questo verso delle Scritture tratto dal libro dell’Ecclesiaste (1, 9) mi torna in mente mentre rifletto sull’agitazione espressa da alcuni nella Chiesa e dai media in relazione al motu proprio del Santo Padre Traditionis custodes e alla recente conferma data nel Rescriptum ex audientia pubblicato dal cardinale Arthur Roche, prefetto del Dicastero per il culto divino e la disciplina dei sacramenti.

Ricordiamo che in quei documenti di Roma, il successore di Pietro, che è il garante dell’unità della Chiesa, ha esortato i vescovi ad aiutare tutti i cattolici romani ad accettare pienamente che i libri liturgici promulgati da san Paolo vi e da san Giovanni Paolo ii sono l’unica espressione della lex orandi (legge della preghiera) del rito romano. Il fatto che il Santo Padre lo abbia dovuto fare sessant’anni dopo il concilio Vaticano ii mi rattrista, ma non mi sorprende. Nei miei 50 anni di sacerdozio e 25 di episcopato ho visto sacche di resistenza agli insegnamenti e alle riforme conciliari, e specialmente il rifiuto di accettare il rinnovamento della liturgia.

Di fatto, san Giovanni Paolo ii ha preso di petto questa resistenza e nella sua Lettera apostolica nel XXV anniversario della costituzione conciliare “Sacrosanctum concilio” sulla sacra liturgia del 4 dicembre 1988, dove ha scritto: «Bisogna riconoscere che l’applicazione della riforma liturgica ha urtato contro difficoltà dovute soprattutto ad un contesto poco favorevole, caratterizzato da una privatizzazione dell’ambito religioso, da un certo rifiuto di ogni istituzione, da una minore visibilità della Chiesa nella società, da una rimessa in questione della fede personale. Si può anche supporre che il passaggio da una semplice assistenza, a volte piuttosto passiva e muta, ad una partecipazione più piena ed attiva sia stato per alcuni un’esigenza troppo forte. Ne sono risultati atteggiamenti diversi ed anche opposti nei confronti della riforma: alcuni hanno accolto i nuovi libri con una certa indifferenza o senza cercar di capire né di far capire i motivi dei cambiamenti; altri, purtroppo, si sono ripiegati in maniera unilaterale ed esclusiva sulle forme liturgiche precedenti intese da alcuni di essi come unica garanzia di sicurezza nella fede» (Vicesimus quintus annus, n. 11).

Sì, ammette, alcune innovazioni fantasiose hanno danneggiato l’unità della Chiesa e offeso la pietà dei fedeli. Ma, precisa, «ciò non deve portare a dimenticare che i pastori e il popolo cristiano, nella loro grande maggioranza, hanno accolto la riforma liturgica in uno spirito di obbedienza ed anzi di gioioso fervore». E poi aggiunge qualcosa che tutti i cattolici, e specialmente le guide nella Chiesa, devono avere a cuore: «Per questo bisogna rendere grazie a Dio per il passaggio del suo Spirito nella Chiesa, qual è stato il rinnovamento liturgico» (n. 12).

Ciò che intendo dire è semplicemente questo: come san Giovanni Paolo ii, Papa Francesco prende sul serio il fatto che la riforma della liturgia sia stata il risultato del movimento dello Spirito Santo. Non è stata l’imposizione di una ideologia alla Chiesa da parte di una persona o un gruppo. E quindi nessuno dovrebbe insinuare che Papa Francesco (e se è per questo anche il cardinale Roche), nell’emanare Traditionis custodes e autorizzare il Rescriptum, sia mosso da ragioni diverse dal desiderio di rimanere fedele ai suggerimenti dello Spirito Santo che hanno dato vita agli insegnamenti e alle riforme del concilio.

C’è un’altra cosa scritta dal compianto Papa santo nella sua lettera del 1988 che noi vescovi dovremmo prendere sul serio. Dopo aver elencato le molte ragioni per restare fedelmente attaccati agli insegnamenti della costituzione sulla sacra liturgia e alle riforme che essa ha reso possibile, egli cita la relazione finale del sinodo straordinario del 1985: «Il rinnovamento liturgico è il frutto più visibile di tutta l’opera conciliare». Aggiunge poi: «Per molti il messaggio del Concilio Vaticano ii è stato percepito innanzitutto mediante la riforma liturgica» (ibid.)

Il punto è chiaro: se noi vescovi vogliamo sul serio aiutare i cattolici ad accogliere pienamente gli insegnamenti del concilio Vaticano ii, allora abbiamo l’obbligo di promuovere, in unione con il successore di Pietro, l’intera portata delle riforme liturgiche conciliari. È questa la ragione per cui Papa Francesco ha invitato tutti i cattolici ad accettare il rinnovamento liturgico del Vaticano ii come unica espressione della lex orandi del rito romano. La sua aspirazione è profondamente radicata nell’antica tradizione della Chiesa espressa per la prima volta da Prospero d’Aquitania: «Consideriamo anche i sacramenti delle preghiere che fanno i vescovi, le quali, tramandate dagli apostoli, in tutto il mondo e in ogni Chiesa cattolica si recitano in pari modo, affinché la norma del pregare fondi la norma del credere» (ut legem credendi lex statuat supplicandi)”.

Persistenti rifiuti degli sforzi del Santo Padre per realizzare l’obiettivo della piena accettazione della liturgia riformata come unica espressione del modo di pregare nel rito romano non mi sorprenderebbero, visto che non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Ma dovremmo chiamarli con il loro vero nome: fare resistenza ai suggerimenti dello Spirito santo e minare la fedeltà autentica alla Sede di Pietro.

di Blase J. Cupich
Arcivescovo di Chicago, co-presidente cattolico del National Catholic-Muslim Dialogue, sostenuto dal Comitato per gli affari ecumenici e interreligiosi della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti

René Arnou, un delicato pioniere del Concilio

René Arnou, francese, ma la sua vita è stata quasi sempre in Italia: fratello tra i confratelli! Perciò qui anche lui: gesuita, filosofo e teologo. Nasce a Parigi il 17 dicembre 1884, figlio di illustre padre, René anche lui, primo delegato della Santa Sede all’Onu. Nel 1902 è gesuita, poi si laurea in Lettere, Filosofia e Teologia alla Sorbona e nel 1915 è prete. Va volontario in guerra come cappellano e nel 1919 riceve la Legion d’Onore. Nel 1926 arriva a Roma, dove per quasi mezzo secolo insegna filosofia antica e teologia all’Università Gregoriana. Fondamentali per gli specialisti le sue lezioni di “Metaphysica” e “Il desiderio di Dio nella filosofia di Plotino” e lo studio sulla conoscenza umana della verità. Un dotto in cattedra, ma nella vita quotidiana l’incontro con lui fu importante e talora decisivo per molti, preti e laici, fino ai vertici della società e della Chiesa. Anticipatore di molte conquiste del futuro Vaticano II, amico e collega stimato di Teilhard De Chardin, Henri de Lubac e Yves Congar, prima a lungo guardati con sospetto dagli uffici curiali di Roma e poi creati cardinali da Paolo VI e Giovanni Paolo II. All’inizio degli anni 50 portò a Roma le Equipes Notre Dame, coppie cristiane chiamate a santità proprio grazie al matrimonio. Visse soprattutto in profondità prima l’attesa e poi la grande avventura del Concilio. Conobbe e fu vicino anche a don Zeno Saltini nella sua vita contrastata e poi accolta di Nomadelfia. Fu per tanti uno straordinario confessore e direttore spirituale, semplice e fermo, mai impancandosi a “capotreno delle coscienze”, lucido e aperto alla speranza per ciascuno e per tutti, saldo sulla roccia della fede e aperto ad ogni promessa di autentica novità. Tra i primi a Roma a tenere sistematicamente incontri per laici sulla Bibbia, fino allora trattata con molte cautele: giornate di ritiro e di preghiera per i laici, che ne tornavano ricchi di entusiasmo. Tra l’altro papa Giovanni lo incaricò di comunicare a Franco Rodano, fondatore dei “comunisti cattolici”, il permesso di riprendere la comunione nella Messa, fino allora proibita dalla scomunica del luglio 1949. Grande confessore e direttore spirituale. La sua stanza a via del Seminario – prima sede dei Gesuiti a Roma – vedeva come penitenti personalità di ogni sorta: politici e industriali, vescovi e cardinali, per esempio l’arcivescovo di Parigi, Veuillot, il cardinale Garrone e spesso anche Carlo Maria Martini, allora docente e rettore del Biblico. Ovvio che non fosse estraneo ai vertici della Santa Sede, e anche Paolo VI lo aveva scelto come confessore, e varie volte lo accompagnai in macchina fino a San Pietro. Mai una parola di troppo: sempre nascosto e discreto, saggio, sapiente, colto, delicato, capace di dire il necessario e nulla di più, rispettando sempre la libertà altrui: mai un giudizio pesante se non su mali evidenti… Per finire un ricordo particolare: la sua delicatezza e il suo umile riserbo quotidiano ebbero modo di presentarsi sino alla fine.
Morì il 22 aprile 1972 e al suo funerale in Sant’Ignazio, scavalcando a forza monsignor Cunial, primo vicegerente e suo penitente, volle presiedere monsignor Ugo Poletti, allora secondo vicegerente di Roma, che per tutta la Messa, compresa l’omelia, lo chiamò sempre «il caro padre Roberto». Ma il suo nome era… Renato! Capita: lui avrà sorriso con i suoi occhi affilati e luminosi. Umile anche oltre quella porta! Un esempio per tutti. © riproduzione riservata

avvenire.it

Benedetto XVI L’INTERVISTA INEDITA DEL 1988 Quando paragonò il Concilio a un’esplosione «Ecco come ha cambiato il volto della Chiesa»

Benedetto XVI: "Vi racconto il mio Concilio" - La Stampa

Pubblichiamo un ampio stralcio dell’intervista, inedita in Italia, che l’allora cardinale Joseph Ratzinger prefetto della Congregazione per la dottrina delle fede concesse nel 1988 a Manfred Schell per il quotidiano tedesco Die Welt. Il testo completo comparirà nel nuovo volume dell’Opera Omnia di Joseph Ratzinger curata dalla Libreria Editrice Vaticana.

Signor cardinale, quanto accade intorno all’arcivescovo Lefebvre è una questione significativa anche per lo spazio di lingua tedesca. Come giudica la pretesa formulata di volere salvaguardare il complessivo e intatto deposito della fede?

Sino ad oggi ogni Concilio ha suscitato reazioni avverse, perché ogni Concilio pone degli accenti diversi e gli uomini se ne sentono coinvolti, si oppongono a essi. In questo senso, da un punto di vista storico, la nascita di questa opposizione rappresenta un processo assolutamente normale. A riguardo bisogna considerare che lo spettro dell’opposizione formatasi a partire dalla tradizione è abbastanza ampio e complesso. Si va dai gruppi quasi settari ad altri gruppi fortemente fanatici che contestano al papa la sua legittimità sino a credenti che vivono fedelmente all’interno della Chiesa pur provando un certo disagio.

In questo quadro qual è il peso di Lefebvre?

Senza dubbio Lefebvre ha costituito l’organizzazione maggiormente solida dal punto di vista giuridico e teologico che ha sempre custodito la propria sobrietà, non ha cioè nulla a che fare con le apparizioni o altre forme simili di devozione particolare. Si è invece sempre attenuto alla teologia preconciliare, acquisendo così una consistenza che ha un grande peso giuridico e fattuale su cinque continenti.

Lefebvre è l’interlocutore più serio. La pretesa che solo lì la fede sia preservata nella sua interezza corrisponde a quello che quel gruppo pensa di se stesso. La Chiesa con il suo magistero non può accettare un’esclusività di questo tipo. Sempre la Chiesa nel suo insieme, con il papa e i vescovi, deve essere il luogo della vita credente e nel suo insieme impegnarsi a custodire e mantenere viva e attuale la fede sia nella sua originalità quanto nella sua pienezza. Penso che debba soprattutto essere raggiunta un’intesa sul fatto che può aversi fede intera solo nell’unità con la Chiesa.

Lei è fiducioso che si possa arrivare a un’intesa con Lefebvre?

Non bisogna mai rinunciare alla speranza.

Appena trentacinquenne lei è stato, insieme a Küng e al molto più anziano Rahner, perito conciliare di personalità del calibro del cardinale Frings. Rahner è morto. Küng è considerato il figliol prodigo della Chiesa. Lei è a capo della Congregazione per la Dottrina della fede. Il Concilio Vaticano II e le sue conseguenze è ancora il suo tema. Il Concilio ha mutato il volto della Chiesa? Un pezzo di identità cattolica è andato perduto?

Il volto della Chiesa è certamente munon tato, basti pensare all’ampiezza della riforma liturgica. Si è avuta una serie di rilevanti cambiamenti, simile a una catena di esplosioni. La grande controversia riguarda proprio la questione se questa trasformazione abbia intaccato anche l’identità. Ora l’identità non è statica, ogni generazione deve riconquistarla, e questo vale soprattutto per i tempi di crisi. Se si pensa all’illuminismo europeo o anche alla Rivoluzione industriale del XIX secolo si vede come anche la Chiesa dovette sempre di nuovo ricercare la propria identità attraverso profondi processi di rinnovamento. Dopo la Seconda guerra mondiale abbiamo sperimentato una trasformazione del mondo che è più radicale dei rivolgimenti di allora e che ha persino assunto la forma di una rivoluzione culturale. Con nuovi mezzi di comunicazione di massa, nuovi mezzi di trasporto e nuove innovazioni tecnologiche il sostrato spirituale delle società si è notevolmente trasformato. È del tutto evidente che in questo processo di fermentazione la Chiesa stessa dovette manifestarsi affermarsi in modo nuovo.

È una trasformazione che fu resa più difficile dal fatto che da un lato gli antichi fattori identitari sembravano vacillare, ma d’altro era percepibile un dinamismo dell’affermazione della propria identità che scaturiva dal di dentro. Questa lotta per l’identità è conclusa, ma è in pieno svolgimento.

Lei stesso ha affrontato molte cose con occhio critico. Una volta ha paragonato il post-Concilio a un cantiere. La Chiesa ha forse smarrito il piano di costruzione?

No, non direi. Si tratta semplicemente di usare più comunione e ridurre l’individualismo e l’egoismo di gruppo. In un tempo in cui la “capacità di fare” è parte integrante del principale modello di comportamento c’è anche la tentazione di dire: bene, rimbocchiamoci le maniche e facciamo la Chiesa. La Chiesa però non dev’essere fatta, ma vissuta.

La critica per cui il Vaticano II si sia svolto in modo troppo unilaterale è evidente. Ma l’accusa di unilateralismo è interpretata diversamente a seconda che provenga da teologi conservatori o progressisti e alla fine c’è la comune richiesta di un nuovo concilio di cui la Chiesa avrebbe bisogno. Ha bisogno di un nuovo Concilio?

La questione di un nuovo concilio non è attuale. E già solo per il fatto che dobbiamo ancora lavorare su quello che ci ha dato l’ultimo concilio. Un concilio rappresenta una grande sfida per la Chiesa. Molto è messo in movimento e messo in crisi. A volte un organismo necessita un’operazione ma poi ha bisogno del tempo per rigenerarsi e delle normali cure. Chiesa e concilio sono in un rapporto simile.

Peraltro, disponiamo della forma del Sinodo dei vescovi che in un modo meno esigente aiuta a realizzare una forma di vita comunionale nella Chiesa ed una comprensione condivisa sul cammino successivo in essa. È questa la strada giusta: integrare l’eredità del Vaticano II nella storia complessiva. Non abbiamo bisogno di sempre nuovi programmi, ma soprattutto anche serenità interiore.

Cosa, dalla sua prospettiva, bisognerebbe conservare del Concilio, cosa rivedere e cosa maggiormente accentuare?

Innanzitutto, molto semplicemente è valido tutto quello che dicono i testi vincolanti del Concilio, e che alla lunga ancora non è stato valorizzato del tutto. Se poi nel concreto dovessi evidenziare alcuni aspetti concreti, sottolineerei innanzitutto il rilievo nuovo dato alla Bibbia e alla comune eredità dei Padri; poi la visione dell’uomo personalistica, e inoltre le affermazioni sulla natura della Chiesa; metterei poi in rilievo l’accento posto sull’ecumenismo e infine sull’intuizione fondamentale del rinnovamento liturgico. Per quel che riguarda quest’ultimo punto, bisogna tuttavia dire anche questo: nel concreto la riforma della liturgia non sempre si è realizzata in modo tale che fosse realmente utile alle persone. Giungo così alla seconda parte della Sua domanda. Insieme al grande “sì” riguardo a quello che il Concilio stesso ha voluto, bisognerà comunque riflettere con nuova serietà sugli arbitri compiuti. Al nostro “sì” al mondo dobbiamo aggiungere che il mondo ha bisogno di autocritica, di obiezione critica, che la solidarietà abbia un fondamento critico. Il potenziale critico di cui dispone il cristiano rispetto ai processi deve pienamente operare.

(Traduzione di Pierluca Azzaro)

© LIBRERIA EDITRICE VATICANA

Per una riconciliazione liturgica

di: Andrea Grillo e Zeno Carra

Le Edizioni Dehoniane Bologna hanno pubblicato il 19 giugno 2020 l’e-book Oltre Summorum Pontificum. Per una riconciliazione liturgica possibile, nel quale 6 teologi – oltre ai due curatori, John Baldovin (Boston), Martin Kloeckener (Friburgo), Arnaud Join-Lambert (Lovanio) e Benedikt Kranemann (Erfurt) – scrivendo nella loro lingua madre rispondono a tre domande sugli sviluppi della liturgia cattolica e sulla necessità che venga superato lo «stato di eccezione» che in essa è stato introdotto con il motu proprio Summorum Pontificum (SP). Così la «pace liturgica» sembra ormai possibile solo «oltre» questo documento. Contemporaneamente, una inchiesta, voluta da papa Francesco, ha posto a tutti i vescovi cattolici nove domande sull’impatto di SP sulla vita ecclesiale e sulla formazione. Il libro vuole essere anche un aiuto ai vescovi nel rispondere alle domande del questionario ufficiale. I due curatori spiegano qui di seguito il motivo che li ha spinti a scrivere e a far scrivere il libro. Questi testi non fanno parte del libro, ma sono stati scritti in occasione della presentazione.

copertina
Una riconciliazione possibile (z.c.)

Nella stagione ecclesiale presente, in cui diventano sempre più percepibili spaccature, fazioni e schieramenti, in cui spesso le posizioni si decidono prima di pensare seriamente a ciò che c’è in gioco, in cui molto, troppo si stilizza precipitosamente nella dinamica del «pro o contro», suona come appello profetico la parola «riconciliazione».

Essa è stata recentemente invocata dal cardinale Kurt Koch per un ambito che nei moti della vita ecclesiale non è indifferente: la liturgia.

Viene invocata come via necessaria per sanare il tessuto della chiesa, a fronte della costatazione che ciò che voleva essere strumento per la pace ha forse sprigionato effetti indesiderati. Il motu proprio Summorum Pontificum, di tredici anni or sono, voleva essere fattore di più larga accoglienza delle istanze di una parte del popolo di Dio, nonché restituire al suo insieme ciò che si stimava potesse essere risorsa preziosa per la fede e la spiritualità dei cattolici. Si auspicava che la più ampia concessione della celebrazione secondo il messale di Giovanni XXIII potesse giovare alla celebrazione ordinaria secondo il messale romano promulgato da Paolo VI.

Dopo tredici anni la situazione non mostra tanto gli effetti auspicati: in taluni settori del cattolicesimo questa misura legislativa ha fomentato irrigidimento ed oltranzismo; in molti la frequentazione della forma straordinaria spesso non ha contribuito a vivere meglio il regime liturgico ordinario della chiesa, ma ha fatto sorgere o ha acuito il disagio di stare in esso. Taluni sono giunti addirittura ad auspicare che il frutto del provvedimento sia una progressiva sostituzione del novus ordo con il vetus ordo. Anziché costruire pace il motu proprio forse sta contribuendo ad allargare gli strappi nel tessuto della chiesa.

E non può che essere così: se la liturgia fa la chiesa, diverse liturgie fanno diverse chiese. Quel rito che il Concilio Vaticano secondo chiese di riformare, liberalizzato, ora va plasmando relazioni, coscienze, spiritualità ad esso conformi. Allargando il divario con quanto della chiesa il rito riformato va facendo.

Si può sbrigativamente dire: «è stato un errore: si faccia marcia-indietro».

Si può anche tentare di andare avanti, superando quanto ora, a distanza di anni, si vede come fallimentare, e cercando la via per ottemperare all’istanza positiva del provvedimento: ascoltare empaticamente i rilievi delle criticità e migliorare l’esistente. Cercare cioè la via della riconciliazione che sola, nei conflitti, riapre la strada.

L’e-book plurilingue che esce oggi a firma di sei autori si colloca proprio qui: mette a tema l’idea di «riconciliazione liturgica» e abbozza vie possibili per una riconciliazione che si vuole ecclesiale. Ma soprattutto i sei autori, da percorsi e prospettive diverse, riconoscendosi reciprocamente e mettendo in comune idee non sempre componibili, tentano un esercizio in atto di quell’ascolto reciproco e dialogo senza i quali nessuna riconciliazione è possibile. (z.c.)

Una riconciliazione bene intesa (a.g.)

Nel libro si tratta di riprendere le fila di una “pace liturgica” che esige uno sguardo lungimirante, non solo verso il futuro, ma anche verso il passato. Vi è stata, infatti, una recente stagione nella disciplina liturgica ecclesiale, nella quale si è potuto ritenere che la «pace» fosse generata dal riconoscere a ciascuno il diritto di celebrare come voleva. Non era difficile prevedere che, mediante uno strumento concepito come «esercizio di libertà», si sarebbe generata la possibilità di «immunizzarsi dalla riforma liturgica».

Ora, ed è qui il punto nevralgico di tutta questa vicenda, lo strumento della «pace liturgica» non può essere diverso dal Concilio Vaticano II e dalla sua attuazione. Lungimiranza vuole che si riconosca apertamente, ed universalmente, che la via verso la «pace» passa attraverso la recezione del Concilio, non attraverso la sua elisione, la sua rimozione o addirittura la sua contestazione.

Per questo il libro offre un quadro molto articolato degli stili e delle modalità con cui viene pensata oggi questa opera di «riconciliazione», che il Concilio Vaticano II ha inaugurato, e alla cui scuola occorre proseguire. Perciò non è esagerato riconoscere come «stato di eccezione» la condizione ecclesiale che è stata generata dal MP Summorum Pontificum: per 13 anni, dal 2007, la concessione di una «duplice forma» del rito romano ha introdotto un rischioso parallelismo tra forme, che non ha portato la pace, ma la guerra: e dietro le liturgie diverse si celavano spesso diverse chiese.

Per uscire dallo stato di eccezione bisogna fare tre passaggi, che costano non poco:

bisogna ammettere che la forma del rito romano può essere sincronicamente solo una, mentre diacronicamente se ne possono contare diverse;

bisogna spostare la tensione dalla differenza tra due forme conflittuali ai diversi registri interni ad un’unica forma, che meritano di essere valorizzati;

occorre riconoscere che, per affrontare tali questioni, non sono sufficienti motivi di «contenuto», ma anche cura e attenzione per le dimensioni «formali», «rituali» e «simboliche» della tradizione.

«Pace liturgica» non è né la rivendicazione di restare immuni dal Concilio, né la pretesa che la approvazione dei nuovi ordines abbia risolto la «questione liturgica». Se riconosciamo che la nostra incapacità rituale risale almeno ad A. Rosmini e a P. Guéranger, che già la denunciavano nella prima metà del 1800, non ci illuderemo di aver risolto la questione né sostituendo ai riti del 1969 quelli del 1962, né accettando che possano agire in parallelo gli uni e gli altri.

Ci resta solo una via: la recezione comune di un’unica forma rituale, la cui forma verbale e forma simbolica sappia assumere una nuova evidenza e una nuova autorità nel corpo ecclesiale. Per uscire dallo stato di eccezione occorre restituire autorità alla forma rituale comune e ai vescovi che ne custodiscono la efficacia formale e sostanziale.

Un forma del rito romano, su cui un vescovo diocesano non possa esercitare la propria autorità, è appunto il frutto e insieme la causa di quello «stato di eccezione» che chiede oggi di essere superato. In questa direzione si muovono, con diversi stili e linguaggi, i brevi ma preziosi saggi di questo volume. (a.g.)

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