Don Tonino Bello « La guerra è una recidiva preoccupante. Ciò che mi affligge di più in questa ripresa del conflitto»

Uno scritto inedito, senza data, sulla guerra e le reazioni dell’Occidente nell’ultimo libro di Giancarlo Piccini “Anticorpi di pace” (San Paolo): « La guerra è una recidiva preoccupante. Ciò che mi affligge di più in questa ripresa del conflitto», scrive il vescovo salentino, «sono due cose. Il terrore di dover ripetere, in un mondo di sordi, le stesse argomentazioni contro la guerra; di dover risentire le filastrocche sul pacifismo a senso unico»

«La guerra è una recidiva preoccupante. Si pensava che, dopo il primo conflitto nel Golfo, fossero maturati nell’organismo mondiale degli anticorpi cosi forti contro il “mal di guerra”, che per parecchi anni non avremmo sentito parlare di violenza armata, almeno nei luoghi così martoriati del Medioriente. Invece, eccoci in una più tragica ricaduta: tanto più tragica quanto più solerte sembra l’intervento delle potenze internazionali, in contrasto con la deplorevole indifferenza con cui le stesse si pongono di fronte ad altre situazioni che meriterebbero ben altra considerazione: il problema dei profughi palestinesi, la disperazione della Bosnia, le sconosciute situazioni di conflitto e di fame presenti in Africa… Ciò che mi affligge di più, comunque, in questa ripresa del conflitto sono due cose. Il terrore di dover ripetere, in un mondo di sordi, le stesse argomentazioni contro la guerra; di dover risentire le filastrocche sul pacifismo a senso unico; di dover rispondere che il pacifismo si desta solo quando c’è puzza di America… E poi il dover constatare che gli interessi economici prevalgono sui più elementari diritti umani. Si aprono i flash sulla Somalia, sull’Iraq. Ma si chiudono luci e cuore, quando ci sono di mezzo i poveri».

È un appunto autografo, curiosamente senza luogo né data, considerata l’attenzione dell’autore per i dettagli. A scriverlo è don Tonino Bello, ora venerabile, e a riproporlo all’attenzione dei lettori è Giancarlo Piccini, presidente della Fondazione intitolata al vescovo salentino, nel libro Anticorpi di pace – Pagine inedite e ritrovate (San Paolo, pp. 176, euro 15). Una riflessione provocatoria, com’è nello stile di don Tonino, e quanto mai attuale nell’Europa divenuta di nuovo palcoscenico di una guerra fratricida che l’agenda del media system, dopo la commozione iniziale, sembra quasi aver archiviato, relegandola in fondo a quotidiani e Tg.

Piccinni, nel commentare questo scritto «che ho ricevuto da don Tonino nel 1993 ma che rappresenta a tutti gli effetti un inedito», si lascia andare a un moto di scoramento, come se la profezia di pace di don Tonino fosse – a dispetto dell’affetto che suscita tra credenti e no – qualcosa del passato o, peggio, di ripetitivo e noioso da archiviare in fretta. «Penso a quante volte, andando in giro per piazze, chiese, teatri», commenta Piccinni, «abbiamo proposto la lezione di pace di Tonino Bello e mi tornano in mente i commenti dei soliti benpensanti: “Sempre le stesse cose, sempre a parlare di pace. Siete monotoni, ripetitivi. Annoiano questi argomenti: ormai la guerra non può più tornare”. E allora, mi chiedevo, perché continuiamo ad armarci? Perché tanti investimenti sulle armi, sull’impero della morte? Perché non investire in salute, in istruzione? Perché non combattere la fame, le malattie, le disuguaglianze? In una parola perché armarci e non amarci?».

Il volume, che vede la prefazione del cardinale Marcello Semeraro, Prefetto della Congregazione per le Cause dei santi, è diviso in due parti: la prima riporta alcuni scritti inediti di don Tonino (lettere, omelie, appunti) e la seconda una raccolta d’interventi di Piccini collocati in momenti diversi: la visita nel 2018 di papa Francesco ad Alessano e Molfetta, la pandemia, il ricordo del fratello di don Tonino, Marcello. Piccinni riporta anche il discorso che don Tonino, da presidente nazionale di Pax Christi, pronunciò nel 1989, davanti a un’Arena di Verona traboccante di gente, in occasione di un incontro promosso dai “Beati costruttori di pace”. Molto interessante è l’intervista che rilasciò a margine di quell’evento e che è riportata nel volume. A chi gli chiede se l’attività di Pax Christi proseguirà senza incontrare ostacoli, don Tonino risponde: «È difficile come per ogni è lavoro creativo che richieda impegno e, soprattutto, sforzo per coscientizzare la gente. È difficile, si trovano tante difficoltà. A volte anche all’interno dell’ambiente ecclesiale c’è qualche diffidenza. Ma è giusto che sia così, è fisiologico sarei per dire. Però vediamo anche un’economia sommersa straordinaria: di grazia, di entusiasmo, di voglia di proseguire per questa strada. Noi abbiamo tantissima fiducia, anche perché poi stiamo facendo gli interessi della “ditta”, cioè del Signore, che è il Re della pace».

Concludiamo con una nota a margine. Il 10 agosto di quest’anno ricorrono i 40 anni della nomina episcopale di don Tonino Bello a vescovo della diocesi di Molfetta, Ruvo, Giovinazzo e Terlizzi. Negli archivi della Fondazione è conservata, una lettera, anch’essa inedita, che don Tonino inviò nel luglio del 1982 a Giovanni Paolo II per accettare, sia pure a malincuore, la nomina: «La mia accettazione», scrive, «oltre che carica di incertezze, è anche permeata di molta tristezza: mi fa così soffrire il pensiero di dover lasciare questo popolo che ho amato e servito per tre anni, che riterrei una grazia straordinaria del Signore poter continuare a lavorare nella mia parrocchia (quella della chiesa Matrice di Tricase, in provincia di Lecce, ndr) ancora per qualche tempo. Se non insisto per essere liberato da questo onore e da queste responsabilità che mi spaventano è perché temo di intralciare i disegni di Dio».

In queste poche righe è condensato tutto lo stile di don Tonino e soprattutto, scrive Piccinni, «il suo intendere il ministero nella Chiesa sempre a servizio del popolo». 

Sport EURO 2020: STASERA L’ITALIA OSPITA LA BOSNIA A TORINO

ansa

MANCINI PREDICA CAUTELA, ATTENZIONE A DZEKO E PJANIC Questa sera, all’Allianz Stadium di Torino, scende in campo l’Italia di Roberto Mancini, impegnata contro la Bosnia per le qualificazioni a Euro 2020. Gli azzurri vanno a caccia della conferma dopo la convincente vittoria contro la Grecia, ma il ct predica cautela. “Insieme alla Grecia può dare fastidio per la qualificazione – spiega Mancini -, ha grandi calciatori, come Dzeko e Pjanic, creano tanto giocando in verticale”. (ANSA).

Il Papa andrà a Sarajevo per costruire ponti tra fedi

 

Sarajevo durante la guerra. Luogo della convivenza e poi del conflitto più terribile (Foto Danilo Krstanovic)

Tre righe appena, ma di quelle fulminanti. «Desidero annunciare che sabato 6 giugno, a Dio piacendo, mi recherò a Sarajevo, capitale della Bosnia ed Erzegovina. Vi chiedo fin d’ora di pregare affinché la mia visita a quelle care popolazioni sia di incoraggiamento per i fedeli cattolici, susciti fermenti di bene e contribuisca al consolidamento della fraternità, della pace, del dialogo interreligioso e dell’amicizia». A sorpresa, come sua abitudine, papa Francesco all’Angelus di domenica scorsa ha annunciato questa nuova tappa della sua già fitta agenda del 2015. Un solo giorno, come già accaduto per l’Albania, in quella «Gerusalemme d’Europa», come la definì Giovanni Paolo II, che era, e ancora di più è oggi, un autentico crocevia di uomini, popoli e religioni. Pochi dubbi sul senso e il significato che Papa Bergoglio attribuisce a questa visita. E, se mai ce ne fossero stati, li ha fugati egli stesso, domenica, aggiungendo a braccio quel «del dialogo interreligioso e dell’amicizia» al testo scritto. E, in questo senso, di significato «molto, molto elevato, direi altissimo» ha parlato ieri alla Radio Vaticana il nunzio apostolico Luigi Pezzuto, che sottolineando la «buona, anzi ottima» accoglienza dell’annuncio, ha affermato che la visita «siamo sicuri farà molto bene e non solo ai cattolici…  Sarajevo è un po’ un crocevia non solo culturale, ma anche sul piano religioso: differenti confessioni cristiane, differenti religioni.
Il massimo leader musulmano locale mi diceva: ‘Dica al Papa che venga, farà il bene di tutti gli abitanti della Bosnia ed Erzegovina, anche se la visita praticamente sarà solo a Sarajevo per ragioni di tempo’».

Un evento, ha aggiunto, importante per un processo di pace che «è in atto, ma non è mai completo. E poi c’è anche la questione del dialogo religioso, interreligioso e poi il dialogo ecumenico, con l’auspicio che «porti tanti frutti sia per la Chiesa locale, la Chiesa cattolica, ma anche a livello di tutte le fasce di questa società – quindi a livello culturale, a livello religioso – in modo che veramente si possa andare verso un clima, una situazione di pace e di convivenza. È già cominciato questo processo, però deve maturare e deve essere portato a compimento». E, ad aggiungere diffcoltà, in questo periodo si è aggiunta la crisi economica, che ha fatto crescere poveri e tensioni.
Perché Sarajevo sia tanto importante, in un vecchio continente attraversato da tensioni che proprio nella crisi della convivenza, come i fatti di Parigi hanno di nuovo messo a nudo, ha uno dei suoi snodi più delicati, è qualcosa che appartiene alle fibre più intime di questa città nel cuore dei Balcani. E, purtroppo, è anche qualcosa che nonostante la tragedia che ha devastato i Paesi dell’ex-Jugoslavia negli anni ’90 stenta a essere compreso fino in fondo. «Credo che l’Europa, e tutto il mondo, ancora non si sia resa conto di quale sia la posta in gioco a Sarajevo. Speriamo che non se ne accorga quando sarà troppo tardi». L’assedio della capitale della Bosnia Erzegovina era iniziato già da un anno quando, non certo per la prima volta, nel 1993 il cardinale Vinko Puljic rilanciava davanti a chi scrive il suo allarme, aggiungendo che «se la città crolla, tutta l’Europa crolla».

Esagerazione? Non proprio. Quello che la guerra feroce combattuta tra le montagne della Bosnia Erzegovina ha insultato e ferito, fino a incrinarlo, è stato un modello di convivenza tra diverse culture e religioni che aveva non solo resistito, ma fatto sviluppare attraverso i secoli quella nazione. Un luogo dove cristiani di diverse denominazioni, musulmani ed ebrei vivevano senza problemi fianco a fianco, in un clima che andava ben oltre il semplice rispetto e la collaborazione. E resteranno scolpite nella storia le parole spese instancabilmente per avvertire del rischio immenso che si correva da Papa Wojtyla, che proprio nel contesto dell’assedio di Sarajevo sarebbe arrivato nel luglio del 1994 a teorizzare il concetto della liceità di interventi di ‘ingerenza umanitaria’ per fermare gli aggressori. Quel che la guerra ha, appunto, minato nelle fondamenta, la fragile pace non è riuscita a ricostruire. E, esattamente come si temeva, a farne le spese sono state le comunità religiose più piccole. Rispetto a vent’anni fa, solo per parlare della Chiesa cattolica, i cristiani nel Paese di quasi 4 milioni di abitanti sono dimezzati, passando dai circa ottocentomila che erano a quattrocentomila, e in alcune diocesi sono scesi fino al 30 per cento. Colpa dell’esodo iniziato con il conflitto, ma che la politica della fragile nazione che ancora tenta di ricostruirsi non solo non ha fermato ma, in qualche modo, incoraggia, se non altro non mettendo sullo stesso piano tutti i suoi cittadini.

Proprio la politica è la grande accusata di questa situazione. E anche senza voler cadere nelle dietrologie che vedrebbero nel dazio che i governi succedutisi sarebbero chiamati a pagare per il sostegno che ricevono da alcuni Paesi arabi (dazio che per l’appunto includerebbe la trasformazione della Bosnia in una nazione islamica), di sicuro sono molti i fattori che già da soli bastano oggettivamente a giustificare quanto sta accadendo: una la corruzione pubblica dilagante all’interno di un’architettura dello stato troppo artificiale per poter funzionare, l’instabilità di governi incapaci di durare più di due anni, e la disillusione dei cittadini.

Un confuso e a tratti indecifrabile clima da campagna elettorale permanente che a tutto giova tranne che riprendere con coraggio la difficile strada di una ricostruzione vera, che passi innanzitutto dal ridare fibra a quello che è stato l’autentico tessuto connettivo della nazione. Si vive sull’oggi e per l’oggi, sul piccolissimo cabotaggio, e nessuno si è ancora sognato di imbarcarsi nell’applicazione del cosiddetto ‘annesso7’ degli accordi di pace di Dayton, nodo cruciale e riconosciuto come imprescindibile del processo di pace, che stabiliva il diritto di tutti i fuoriusciti a fare ritorno alle proprie case. Troppo difficile, e troppo impegnativo. Soprattutto politicamente troppo rischioso.
Ed è proprio in questo che l’Europa, come temeva Puljic, ancora sta dimostrando di non avere consapevolezza di quale sia la vera posta in gioco in questa Bosnia Erzegovina che oggi chiede di entrare nell’Unione. Un’Unione incapace di disegnare una road map a misura dell’interlocutore e, fino a oggi, incapace a mettere i paletti opportuni al posto giusto perché quel cammino non abbia in prospettiva solamente un traguardo economico, ma sia qualcosa di politicamente rilevante per il futuro dell’Europa intera. Ecco, sono queste le questioni sul piatto, ed è questa la consapevolezza a cui innanzitutto l’Europa deve arrivare. La speranza, ora, è che il prossimo viaggio di papa Francesca riesca a riportare questa grande sfida sulle pagine di un’agenda internazionale che, fino a ieri, della Bosnia Erzegovina s’era completamente dimenticata.

avvenire.it