Sette giorni no social. Capire per educare

Giovanna Sciacchitano

Astenersi per una settimana dall’uso spasmodico delle piattaforme social è la proposta lanciata agli studenti delle classi del triennio dell’indirizzo multimediale del Liceo Artistico Munari di Crema. Una sfida che ha visto solo tre studenti su quarantasei partecipanti arrivare alla fine della prova. L’esperienza pilota in Italia è stata raccontata da Angela Biscaldi nel libro “Una settimana senza social. Per un’educazione digitale” (Edizioni San Paolo 2020, pp. 160, euro 17). L’autrice è docente di antropologia culturale nel dipartimento di scienze sociali e politiche dell’Università statale di Milano.

L’invito a fermarsi per riflettere sulle motivazioni che si nascondono dietro il bisogno continuo di comunicare, di fare selfie e di condividere, sulle emozioni e sui sentimenti che si provano se privati del cellulare si è rivelata un’opportunità di crescita e acquisizione di consapevolezza utile a qualsiasi età. Nel libro la ricercatrice esorta genitori ed educatori a confrontarsi con il nuovo tema dell’educazione civica digitale. Senza demonizzare facebook, instagram, youtube o whatsapp, ma anche senza minimizzare, mitizzando il progresso. Perché non tutto quello che la tecnologia consente è buono e va accettato acriticamente. L’autrice propone una terza via: conoscere i cambiamenti legati all’uso delle tecnologie e utilizzare le nostre conoscenze per potenziare le capacità dei nostri figli e insegnare a usare la rete e i social come una risorsa, senza abusarne ed esserne dipendenti. Per fare questo dobbiamo abbandonare l’ottica del controllo (proibire tutto) e quella, opposta, del permissivismo (abbandonarli a loro stessi) per puntare sulla responsabilizzazione e sulla condivisione con le nuove generazioni di un nuovo linguaggio, nuove competenze, nuove regole per la comunicazione in rete. E soprattutto una nuova etica della comunicazione social. Ai ragazzi che hanno accolto la proposta non è stato fornito alcun suggerimento su come impiegare la giornata. «La prima riflessione dei giovani sulla difficoltà a trascorrere una settimana senza social network è legata all’angoscia nel non sapere, senza social, come “occupare il tempo”, come “perdere tempo” – rileva Biscaldi –. Senza l’immersione nel flusso di connessioni, informazioni, distrazioni, i ragazzi avvertono un vuoto che sembra impossibile colmare. Il solo pensiero di poter essere inattivi genera una specie di panico». Per alcuni di loro è insensato rinunciare all’evoluzione tecnologica che ci consente di vivere meglio, altri si sentono dipendenti, ma la considerano una conseguenza inevitabile del fatto di essere nativi digitali. Insomma, tanti non sono riusciti ad accettare l’idea di mettersi in discussione e cogliere un’opportunità di introspezione individuale e di analisi sociale. Un aspetto interessante osservato è che l’allargamento delle reti sociali deboli porta a un “alleggerimento” dell’impegno della relazione. I giovani sembrano convinti che nelle amicizie mantenute in vita con connessioni continue sia importante “non disturbare”, non chiedere troppo agli altri. Succede così che quando si ha la necessità di contare sul favore di un amico non si ha il coraggio di chiederlo. Una riflessione utile a genitori e figli, poi, è che l’incapacità a trascorrere del tempo senza social derivi anche dall’iperstimolazione e dalle gratificazioni immediate che questi giovani hanno avuto da bambini. Sempre impegnati fra discipline sportive e corsi di musica, non hanno potuto imparare a organizzarsi, a fare i conti con le piccole frustrazioni e a cavarsela da soli. Scrive Biscaldi: «I momenti vuoti, liberi da occupazioni programmate e strutturate, che potrebbero diventare spazi di libertà, creatività, gratificante realizzazione personale vengono invece vissuti con angoscia perché manca completamente, nella crescita, la familiarità con i momenti di solitudine».

Come è già stato detto, i social e la tecnologia non sono di per sé la causa dei problemi legati ai nuovi comportamenti giovanili. Permettono, invece, di vedere alcune tendenze e dinamiche relazionali che stanno prendendo piede. Come la mancanza di assunzione di responsabilità educativa da parte degli adulti, un sistema scolastico concentrato sulla misurazione delle competenze piuttosto che sulla trasmissione di responsabilità e un processo di generale mercificazione delle esperienze e delle relazioni in atto da diversi anni. Ecco perché serve un’educazione civica digitale, non diversa dall’educazione quotidiana, basata cioè sul riconoscimento dell’altro, sul significato del rispetto e della costruzione della fiducia, sul valore della comunità. Un passo fondamentale in famiglia è riservare spazi e momenti alla conversazione faccia a faccia con i nostri figli. Occorre saperci guardare in modo da non dover sentire la necessità di inseguire l’approvazione e l’ammirazione degli altri.

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