Benedetto Croce e il problema del male

Benedetto Croce e il problema del male

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«Sotto le spoglie di uno stile sereno, cristallino, invitante, tu senti il disfacimento lento, progressivo e freddamente implacabile di tutti i valori che hanno costituito e costituiscono l’autentico patrimonio spirituale dell’umanità. Senti, in primo luogo, l’annullarsi della persona». Così un grande pensatore cattolico come Michele Federico Sciacca, andando controcorrente, decifrava lo storicismo assoluto di Benedetto Croce. Al filosofo di Pescasseroli e alle aporie del suo sistema speculativo ha dedicato ora un interessante studio padre Giovanni Cucci – gesuita e scrittore della “Civiltà Cattolica” – dal titolo Benedetto Croce e il problema del male (Jaca Book, pagine 160, euro 14,40).

Padre Cucci, di Croce resiste l’immagine di pensatore liberale e risorsa etica per la cultura italiana durante il fascismo: dalla sua analisi sembra di capire però che la visione hegeliana di Croce – con uno sviluppo della storia in cui il male è solo un’ombra del razionale e un passaggio dal bene al meglio – può giustificare virtualmente tutto, anche le forme più brutali di oppressione sociale. È così?
«Negli scritti di Croce sembrano emergere su questa tematica due differenti “anime”, che non riescono a trovare un punto di incontro. Egli riconosce che l’uomo dovrebbe agire in un certo modo, ma può anche prendere altre strade: in questa prospettiva trova indubbiamente senso la protesta di Croce nei confronti del fascismo e il suo appello alla lotta contro il male. D’altra parte egli vede nelle concrete forme di potere una necessità storica, in coerenza con il suo “storicismo assoluto”: ogni periodo è strettamente collegato all’altro, è una manifestazione dello svolgimento dello Spirito. Ma in tal caso quale giustificazione possono trovare la critica e l’indignazione? In questa aporia si annida la debolezza speculativa – anche se umanamente ammirevole – della sua opposizione al fascismo e la mancata elaborazione di un programma politico».

Lei ricorda come in Croce ci sia una condanna inappellabile di ogni forma di trascendenza. Qual è il giusto significato da attribuire al suo «Perché non possiamo non dirci “cristiani”»?
«Croce rifiuta un’eternità che non abbia nulla a che vedere con la vita storicamente vissuta dall’uomo, un rilievo, questo, indubbiamente condivisibile anche da chi riconosca una prospettiva trascendente. È altrettanto vero che Croce non nasconde la sua ammirazione per il cristianesimo, come nello scritto da lei ricordato, soprattutto per il suo contributo culturale ed etico. Egli tuttavia esclude la presenza del divino e del soprannaturale nel cristianesimo, considerandolo come un preludio al razionalismo, all’illuminismo e all’idealismo. Non a caso, il termine “cristiani” compare tra virgolette nel titolo, il che esprime in modo significativo il punto di vista dell’autore, di una religiosità frutto unicamente dell’impegno umano. Si tratta di una concezione tuttora molto presente nel panorama intellettuale italiano. D’altra parte, di fronte alle tragedie della storia, Croce si trova costretto ad ammettere che la prospettiva meramente terrena sembra contraddire l’anelito di giustizia e la tensione alla pienezza proprie dello spirito umano».

Si può parlare di Croce come di un pensatore«tragico»?
«Nell’opera di Croce si intrecciano molteplici percorsi speculativi che, se esplicitati, rimetterebbero radicalmente in discussione la riduzione dell’individuo allo Spirito e la piena razionalità del reale. Gli scritti dell’ultimo periodo evidenziano in particolare un problema angosciante: come è possibile la presenza irrisolta di fenomeni come le dittature e le guerre, sempre più atroci e devastanti, che smentiscono la nozione stessa di progresso storico, fino a ipotizzare – per riprendere un suo celebre scritto – la fine della civiltà? Di fronte a questi eventi, Croce ha sempre continuato a lottare con speranza, perché il pensiero non può arrendersi all’assurdo. Per riprendere una sua significativa espressione, l’uomo è come “il fiore che nasce sulle dure rocce e che un nembo avverso strappa e fa morire”: ciò tuttavia non impedisce il cammino della Storia, dal momento che muore il singolo, ma lo Spirito “ha una forza eterna e immortale che può produrla sempre nuova e più intensa”. Questa è stata la grande lezione di Croce: il male e il caos possono essere riconosciuti solo a partire dalla previa esperienza del bene, un bene più grande, perché è all’origine dell’essere. Rimane tuttavia aperta la domanda: da dove si può trarre questa convinzione? Senza una prospettiva di giustizia e di bene trascendenti, come sappiamo che tutto ciò non si riduce a una mera illusione?».

Cos’è la morte per Croce?
«Croce riconosce che l’uomo non può essere ultimamente ricompreso nello Spirito hegeliano, ma andrà definitivamente perduto. Questa linea di lettura pone gravi interrogativi, all’uomo e al filosofo: nell’evento-morte, non soltanto l’individuo deve rinunciare al suo anelito alla vita, ma la stessa pienezza dello Spirito Assoluto viene a incrinarsi. Si pensi al Soliloquio, una sorta di “testamento spirituale”, in cui Croce descrive con dignità e consapevolezza il proprio stato d’animo di fronte alla morte, rinunciando alla possibilità di comprendere il senso di un tale sacrificio ed il più generale significato della sua vicenda temporale. In questa pagina toccante, anche a motivo dell’eccellenza della prosa, emerge con riuscita semplicità lo iato tra il “ritmo vitale” dell’uomo concreto, che “si esaurisce”, e il Tutto da cui è chiamato a separarsi. Quella di Croce è l’ultima grande proposta di una filosofia “pienamente positiva e compiuta”, dove non c’è posto per l’errore, la sofferenza, la morte. Gli interrogativi che una tale proposta suscitano – a livello storico come individuale – mantengono la loro sconcertante attualità anche nei confronti della nostra società “liquida”, che vorrebbe negare ogni riferimento alla trascendenza e alla vita dopo la morte».

Andrea Galli – avvenire.it
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