Balcani: ancora quasi 10 mila dispersi nelle guerre anni 90

(ANSAmed) – BELGRADO, 30 AGO – A 30 anni dallo scoppio dei conflitti armati nella ex Jugoslavia sono ancora 9.969 le persone date per disperse e sulla cui sorte proseguono le ricerche nei Paesi della regione.
Come ha detto oggi il Comitato internazionale della Croce rossa in occasione della Giornata internazionale delle persone scomparse, furono circa 35 mila complessivamente i dispersi nelle guerre balcaniche.

Nel 2019, secondo il Comitato, sono stati trovati e identificati i resti di 218 persone, nel 2020 solo 46, mentre dall’inizio di quest’anno i dispersi identificati sono stati 43.
E’ necessario accelerare e intensificare le attività di ricerca, che vanno trattate esclusivamente come una questione umanitaria, senza alcuna politicizzazione, ha osservato il Comitato, come riferito dai media serbi. Purtroppo però è proprio la politicizzazione e la persistente rivalità e contrapposizione fra i Paesi interessati a caratterizzare l’intera tematica, con accuse reciproche che altro non fanno che rallentare o paralizzare del tutto i processi di ricerca e identificazione dei resti.
In un incontro svoltosi oggi a Belgrado con la partecipazione dei familiari di serbi scomparsi, il responsabile dell’apposita commissione statale che si occupa del problema, Veljko Odalovic, ha accusato apertamente Croazia e Kosovo di scarsa collaborazione nella ricerca e identificazione dei resti degli scomparsi.
Il capo dell’Ufficio governativo serbo per il Kosovo, Petar Petkovic, ha denunciato l’atteggiamento delle autorità di Pristina che, a suo avviso, negano l’esistenza di archivi dell’Esercito di liberazione del Kosovo (Uck), dai quali si potrebbe fra luce sulla sorte di tante vittime serbe della guerra del 1998-1999. Da parte sua il premier kosovaro Albin Kurti, parlando oggi a Pristina in una cerimonia in memoria dei caduti scomparsi, ha sollecitato l’apertura degli archivi statali della Serbia.
Il tema degli scomparsi e della ricerca e identificazione dei loro resti è tra quelli in agenda nel processo di dialogo fra Belgrado e Pristina con la mediazione Ue, una cui nuova sessione a livello di esperti è in programma a Bruxelles nei primi giorni di settembre. (ANSAmed).

Coronavirus: BERS, scenari più foschi anche in Balcani

La Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers) ha rivisto al ribasso le sue previsioni economiche per il 2020, a causa delle incertezze relative alla crisi del coronavirus, per i paesi in cui opera la Banca, compresi i Balcani. La Banca ha allo stesso tempo evocato lo scenario di una ripresa meno marcata delle attese nel 2021 anche per quanto riguarda la vicina regione balcanica ancora extra-Ue.

La contrazione del Pil nei Balcani occidentali dovrebbe raggiungere il 5,1 per cento nel 2020, più del 4,8% precedentemente stimato, “a causa di un crollo del turismo”, che colpisce in particolare Albania e Montenegro, e per le “interruzioni nelle catene di approvvigionamento globali, minore produzione industriale, calo degli investimenti diretti esteri e delle rimesse “, ha illustrato la Banca nel suo nuovo rapporto ‘Regional Economic Prospect’. L’economia nei Balcani occidentali dovrebbe riprendersi l’anno prossimo, con una crescita del pil “al 3,4% nel 2021”, prevede ora la Bers, osservando che in generale “queste proiezioni sono soggette a un’enorme incertezza”.

Secondo lo studio, nei Balcani occidentali Albania e Montenegro registreranno il calo più marcato della crescita nel 2020 (-9,0%), in particolare a causa degli effetti negativi sul turismo e per il calo delle esportazioni di beni e servizi.

Seguono la Bosnia-Erzegovina, dove si è osservato un forte calo della produzione nel settore manifatturiero e Kosovo e Macedonia del Nord (tutti -5,0%). La Serbia (-3,5%) è stata particolarmente colpita da un calo delle rimesse pari al 30% tra gennaio e giugno 2020. Tuttavia, in Serbia l’impatto del Covid-19 è stato “meno grave che in alcuni paesi” vicini,” in parte a causa dell’elevato contributo della produzione di prodotti di base” nel comparto manifatturiero. “In generale, l’impatto negativo della crisi del coronavirus sarà più pronunciato del previsto quest’anno in Montenegro e Macedonia del Nord, dove sono state osservate forti contrazioni nell’industria, nel commercio, nei trasporti e nel turismo, suggeriscono i dati della Bers.

Nel 2021 “ci sarà probabilmente una qualche ripresa” nella regione “con una crescita del 3,4%, ma i livelli del pil il prossimo anno dovrebbero rimanere al di sotto di quelli del 2019”, ha osservato la Banca. La crescita economica più forte nel 2021 si osserverà in Montenegro (5,0%), seguita da Albania (4,5%), Kosovo (4,0%) e Bosnia-Erzegovina, Macedonia del Nord e Serbia (3,0%). La Bers aveva stimato una ripresa economica molto più forte nella regione per quanto riguarda il 2021. Nel precedente rapporto sulle prospettive economiche regionali, pubblicato nel maggio 2020, la Banca aveva anticipato una crescita economica del 12,0% in Albania, del 10,5% in Montenegro, del 7,5% in Kosovo, del 6,0% in Bosnia-Erzegovina e Serbia e del 5,5% in Macedonia del Nord.

Secondo le ultime previsioni Bers, la Slovenia registrerà un calo del pil del 7,5% nel 2020 e una crescita del 3,5% nel 2021, mentre il prodotto interno lordo in Croazia scenderà dell’8,5% quest’anno e rimbalzerà del 3,5% l’anno prossimo. (ANSA).

Balcani. Dieci anni di indipendenza, il Kosovo riparte da un ponte

Dieci anni di indipendenza, il Kosovo riparte da un ponte

La metafora dei primi dieci anni della Repubblica indipendente del Kosovo è il ponte sospeso sul fiume Ibar che divide la Mitrovica albanese da quella serba. A lungo, la struttura è rimasta impraticabile per il cattivo stato della pavimentazione. Poi, i militari italiani della Kosovo Force l’hanno risistemata. E la passerella ha potuto riprendere a funzionare. “Ero lì quando c’è stata l’inaugurazione – racconta Paola Severini Melograni, direttore di AngeliPress -. È stato emozionante perché quel ponte esprime il senso di questi dieci anni”.

Dieci anni in cui la piccola nazione balcanica ha chiuso la cruenta pagina del conflitto e, ora, prova a guardare al futuro. Con il sostegno proprio dell’Italia. “Siamo noi, con la nostra importante presenza militare e civile di ampi settori della cooperazione, il punto di riferimento per il presente e il futuro del Kosovo”, sottolinea la giornalista, appena rientrata dal Paese dove è stata per girare un documentario dal titolo “Miss Sarajevo”, diretto dal regista Federico Rizzo.

Da cinque anni, la Kosovo Force – che include trentuno nazioni -, è sotto il comando di un italiano, prima ilgenerale Giovanni Fungo, ora del successore Salvatore Cuoci. “I nostri militari stanno facendo uno straordinario lavoro di accompagnamento al processo di riconciliazione in atto. A questo si aggiunge l’impegno di tantissimi volontari che fanno scuola al nascente sistema di Welfare statale”.

Un esempio, in tal senso, è la casa famiglia di Massimo Mazzali a Leskoc, un laboratorio di convivenza per bimbi e ragazzi di diversi fedi e comunità. Dove, spesso, i funzionari pubblici si recano in “visita di formazione”. “Il Kosovo sta imparando ciò che loro definiscono “zayednik zivot”, il “vivere insieme” – conclude Severini Melograni -. Può, dunque, innescare un circolo virtuoso di convivenza e dialogo in tutto il resto del Balcani”.

da Avvenire

Balcani, segni di pace

Lo scorso giugno il presidente della Croazia Ivo Josipovic non ha presenziato all’insediamento del nuovo presidente della Serbia Tomislav Nikolic, noto nazionalista radicale. E per un buon motivo: in varie sue dichiarazioni, Nikolic ha dimostrato di non sostenere i valori comuni europei, affermando tra l’altro che quanto e accaduto a Srebrenica non e stato genocidio.

Egli ha inoltre detto e ripetuto, nei primi sei mesi della sua presidenza, che la Serbia non riconoscera mai l’indipendenza del Kosovo, anche a costo di perdere la propria candidatura per entrare nell’Ue. Questo esempio dimostra che le politiche di riconciliazione sono troppo importanti per essere delegate alle opinioni individuali dei singoli politici, e necessitano invece di un approccio sistematico. In mancanza di ciò, la Serbia sta facendo passi indietro rispetto al livello di riavvicinamento già raggiunto con Boris Tadic.

Nell’ottobre del 2010, la visita del presidente serbo Tadic a Vukovar, dove e stato accolto dal presidente croato Josipovic, aveva attirato l’attenzione dei media a livello mondiale. Dopo tutto, si trattava della prima volta che un presidente serbo esprimeva profondo cordoglio per la distruzione della citta croata per mano dell’Armata nazionale jugoslava (JNA) e delle truppe paramilitari serbe nell’autunno del 1991. Chiedendo pubblicamente scusa presso la fossa comune di Ovcara, Tadic ha cosi dimostrato la propria volontà di un confronto responsabile con il passato – un gesto notevole per un politico dei Balcani.
Josipovic – che ha visitato molte fosse comuni e si e scusato pubblicamente più di chiunque altro – ha visitato anche il villaggio di Paulin Dvor dove, nel dicembre del 1991, i paramilitari croati avevano ucciso diciotto prigionieri civili serbi e un ungherese. Un fatto davvero notevole: due capi di Stato che dimostravano buone intenzioni, ponendo simbolicamente fine al circolo vizioso della guerra. Qualche giorno dopo si è unita anche la presidenza tripartita bosniaca, chiedendo la riconciliazione. Il nuovo membro della presidenza, Bakir Izetbegovic, ha presentato le sue scuse per ogni innocente ucciso dall’esercito bosgnacco.
Le scuse pubbliche sono il primo passo sulla via del riavvicinamento, e i due capi di Stato hanno agito con umilta e benevolenza, anche se non sono stati i primi. L’ex presidente croato Stjepan Mesic aveva porto le sue scuse a Belgrado nel 2003 e i montenegrini non erano stati da meno. Nel marzo 2010, il Parlamento serbo ha approvato la “Dichiarazione di Srebrenica”. Nonostante non si sia arrivati a usare la parola “genocidio”, si tratta comunque di un documento importante che riconosce finalmente la responsabilita dell’esercito serbo nel massacro di 8.000 bosgnacchi nel luglio del 1995.
Dal 1995, cioe da quando la guerra è finita in Bosnia, si è parlato molto di riconciliazione – soprattutto all’estero. Se gli imprenditori collaborano, se gli editori croati partecipano alle fiere del libro a Belgrado, se le nazionali di calcio giocano l’una contro l’altra e se le persone comuni fanno visita ai propri parenti oltre confine senza essere più sospettate di tradimento, c’e davvero bisogno di una politica ufficiale per la riconciliazione? O basterebbe piuttosto lasciare che siano le iniziative spontanee che vengono dal basso ad attivarsi, come suggeriscono alcuni commentatori di spicco?
Condizione necessaria al processo di riconciliazione è la giustizia; la giustizia e il fondamento su cui poggia ogni riconciliazione. Ma non esiste giustizia senza verità. Senza un sistema giuridico per processare i propri criminali di guerra e quindi rivelare fatti riguardanti i crimini commessi nei recenti conflitti, qualsiasi altra cosa, qualsiasi altro tentativo è destinato a fallire. Non è un compito semplice.

In Croazia, il vero ostacolo è rappresentato dall’assurda convinzione, nutrita per quasi due decenni, che l’esercito croato non possa essere stato colpevole di crimini di guerra perché stava difendendo la nazione. Ciç ha avuto una conseguenza molto importante: i criminali di guerra sono considerati eroi di guerra. Per questo motivo l’Icty (Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia) viene percepito come un’istituzione nemica, e non come un’istituzione fondata e designata per fare giustizia (anche se simbolica), per rivelare fatti sulla guerra e quindi contribuire alla verità storica.

Fino alla Dichiarazione di Srebrenica, la Serbia ha continuato a negare qualsiasi partecipazione alle guerre, sia a livello pubblico che politico. La riconciliazione in Bosnia-Erzegovina invece è complicata dal suo statuto speciale in quanto nazione divisa, non solo amministrativamente, ma anche psicologicamente ed emotivamente: vittime e aguzzini vivono nello stesso Paese, nelle stesse città, forse addirittura nelle stesse strade e villaggi. Promuovere valori diversi significa costruire una struttura psicologica diversa.

Non è più necessario convincere i cittadini a collaborare oltre i confini nazionali: lo stanno gia facendo.

Ciò di cui c’è bisogno in questo momento è diffondere il messaggio che questa collaborazione (andare a trovare amici e parenti, commerciare, lavorare insieme, avere una percezione positiva dei serbi, croati o bosgnacchi) non è solo “politicamente corretta”, ma anche benvenuta; e che uno scrittore che pubblica un libro in Serbia o un cantante che organizza un concerto non saranno messi in croce dai media (cosa che è accaduta fino a poco tempo fa). Per poter stabilire veramente valori differenti e favorire la riconciliazione è necessaria una spinta verso un approccio istituzionale a lungo termine, in cui l’aspetto piu importante è studiare la storia (o anche questo va lasciato alla spontaneita?).

Se il processo inizia perseguendo i criminali di guerra, deve continuare con la ricerca storica e con la pubblicazione di libri e manuali di storia. L’insegnamento della storia deve essere basato sui fatti, non su miti e ideologie. I libri e i manuali di storia di oggi sono pieni di informazioni contraddittorie. La domanda è: come possono le arti e la cultura promuovere la riconciliazione quando la cultura popolare e le sue istituzioni – per esempio le accademie delle scienze serba e croata – incoraggiano al nazionalismo?

(traduzione di Sara Terpin; per la traduzione italiana © Lettera Internazionale)

 

Slavenka Drakulic – avvenire.it