ARTE E SACRO L’energia della sintesi: solo così l’altare è unico

Identificare il termine sintesi con una categoria statica è un rischio agevolato dalla nostra tentazione di individuare dei punti fermi cui ancorarci per limitare le fatiche derivanti dalla gestione del libero arbitrio. Questa interpretazione dà corpo al fatidico e del tutto ipotetico punto d’arrivo di composizione ordinata e riassuntiva della complessità, di cui la sintesi rappresenta l’agognato packaging finale. Ho fatto una sintesi, cioè sono riuscito a trovare una ridefinizione compressa e schematica di istanze articolate e dispersive, non di rado confliggenti, che impedivano un prodotto finito e soprattutto contingentabile. Che siano pensiero, forme, gesti o eventi non importa, il meccanismo è identico.

Questa, ne sono convinto, è l’accezione più diffusa della sintesi.

Io la penso in modo del tutto opposto. Quel prodotto finito, quella idea di risoluzione che finalmente se ne sta buona lì in un angolo, non è sintesi. È un surrogato che confonde la riflessione per un comodino abbastanza stabile per appoggiarci le cose. Un artefatto che mi riporta in modo preciso dentro le tematiche dell’arte e del sacro, in cui spesso assistiamo a esercizi di stile venduti per significato, del tutto intercambiabili con un qualsiasi tipo di arredo, da supermercato o design non fa differenza. Inutile dichiarare concetti di ogni sorta quando la forma proposta come sintesi è in realtà l’assemblaggio di un armamentario privo di spinta vitale.

Sintesi è tutt’altro. Sintesi è il concretizzarsi più radicale di una dinamica generativa caratterizzata da un costante flusso reciproco di espansione eccentrica e condensazione concentrica. È espansiva in quanto produce nuove entità a partire da elementi preesistenti e la complicità di eventuali catalizzatori. Attraverso il processo di sintesi l’esistente si espande in forme nuove e al tempo stesso profondamente legate a ciò che le precede, da cui traggono nutrimento ma, elemento fondamenta-le, da cui si differenziano in modo definitivo. La sintesi in questa accezione ha un valore quasi magico, sempre stupefacente e destabilizzante; basti pensare a fenomeni come la fotosintesi clorofilliana che, utilizzando prodotti di scarto dell’uomo come l’anidride carbonica, genera il proprio nutrimento restituendo ossigeno, prezioso per proprio per l’uomo. Il dato della circolarità è chiaro, come anche quello della trasformazione continua. L’aspetto concentrico della sintesi non si deve intendere come riduttivo e semplificativo. È una sorta di fusione che sacrifica elementi corollari. Questo è già evidente nella accezione hegeliana in cui la sintesi che segue a tesi e antitesi consiste in un superamento che risolve le opposizioni generando una terza entità: non una replicazione delle due precedenti né la loro pedissequa somma algebrica. L’unità formale che deriva da questo processo è dialogica, dinamica, evolutiva: mai statica.

Tornando al sacro, se anche tutti i percorsi formali e simbolici che lo caratterizzano dovrebbero essere permeati da una elaborazione simbolica di questo tipo, ve ne è uno che riassume in sé tutte le tematiche al riguardo. Neanche a dirlo, questo è l’altare, della cui fecondità non finisco mai di stupirmi.

L’altare è la rappresentazione fenomenologica perfetta della sintesi. O così, perlomeno, dovrebbe essere. In realtà molto spesso viene confuso con una stagnazione monolitica o disgregata che di sintetico, dialogico, vitale, non ha nulla. Mi trovo a confrontarmi spesso con una mentalità secondo cui l’altare, che significa fede, che significa idea di relazione con il significato, dovrebbe essere la monade risolutiva e impenetrabile in cui trionfa quella che chiamerei fede dal carattere euclideo, una fede rigorosamente ortogonale e profondamente immobile. È sorprendente trovarsi a discutere nel 2021 di concetti di statica che forse non erano presi come assoluti neanche da un Neanderthal. Oggi abbiamo la fisica quantistica, le matematiche non euclidee da almeno un paio di secoli di svolta gaussiana, abbiamo in definitiva la perfetta constatazione di come stasi e stabilità siano termini dinamici. Eppure, niente. La tentazione di fissare ogni cosa secondo parametri del tutto soggettivi e funzionali a una esistenza da non mettere mai in discussione, soprattutto nelle proprie acquisizioni di posizione, impedisce di comprendere e accettare lo stesso concetto di dinamica, trasformando l’idea di altare in un evento irreale, distante, sostanzialmente antiumano. Di fatto ideologico, di quella idea di cui si nutre con voracità la mentalità accademica.

Il processo sintetico di cui l’altare dovrebbe essere simbolo è la dinamica stessa del percorso liturgico, architettonico e assembleare della chiesa. Voglio spingermi oltre in questo parallelo tra sintesi e altare. Entrambi non sono monadi, ma non basta. Allo stesso modo non sono organismi analitici, articolati in contrappunti il cui dinamismo disarticola l’unitarietà che dovrebbe caratterizzarli. Sintesi-altare non sono sinonimi di semplicità, stasi, giustapposizioni analitiche. Sono un processo sempre misterioso che fa della complessità il corpo unico di un evento originale.

In questi mesi sto lavorando al disegno di un altare che appare sbilanciato ma in realtà è perfettamente solido, centrato, simmetrico. La struttura è ottenuta dalla trasformazione dell’impianto della chiesa per il quale è pensato (un edificio che si presenta come cubo ruotato di 45 gradi) attraverso una torsione che arriva al quadrato “risolto” della mensa che abbraccia l’ara. Una forma fluida, complessa: sintetica. Questo rappresenta perfettamente quella che definisco “solidità dinamica”. Un altare assolutamente stabile anche se girandogli intorno sembra quasi sbilanciarsi? Ma se il “succo” della cristianità non fosse sbilanciato verso di noi, per noi sarebbe come morto.

La sintesi e l’altare, quindi, portano con sé anche un aspetto di meraviglia. Pur generati inevitabilente all’interno di un contesto, non provengono da un metodo applicato in maniera meccanica. Ogni sintesi, così come ogni altare, ha il suo metodo specifico, non ripetibile, prezioso. Ogni sintesi, così come ogni altare, deve portare in sé il più grande dono e la più grande responsabilità che abbiamo in eredità dalla nostra storia e nella nostra storia. Quel dono è l’identità, la nostra, non quella di altri, lo scrigno dove possiamo raccogliere tutti i tesori e tutte le nefandezze possibili a seconda della sintesi che operiamo sulla nostra giornata. Quella che ha un inizio e che non avrà più fine.

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Sintesi non è riduzione, ma il concretizzarsi radicale di un processo fluido e generativo L’altare è la dinamica stessa del percorso liturgico e architettonico della chiesa. Entrambi sono un processo misterioso che fa della complessità il corpo di un evento originale

Raul Gabriel, progetto di altare / Courtesy dell’artista

Architettura: Fondazione Frate Sole, decretati i vincitori della IX edizione del Premio per progetti di chiese di culto cristiano. Cerimonia il 2 ottobre

Si terrà sabato 2 ottobre, a Pavia, la premiazione dei progetti vincitori della IX edizione del Premio europeo di architettura sacra promosso dalla Fondazione Frate Sole. Oggi sono stati diffusi i nomi dei premiati, individuati dalla Giuria riunitasi a partire dal 18 giugno scorso. “La Giuria – si legge in una nota –, attraverso successive selezioni, ha potuto esprimere una graduatoria condivisa; si segnala che, oltre al progetto vincitore e a quelli menzionati oggetto di una articolata valutazione, altri progetti con motivi di interesse sono stati considerati ma non hanno proseguito l’iter in virtù di una non condivisa valutazione della Giuria”.
Il primo premio è stato attribuito a Francesco Menegato per la tesi di laurea “Abitare la soglia. La liminalità dello spazio sacro nel progetto della nuova chiesa di S. Giovanni Battista in località Pile (L’Aquila) – Italia”. Menzioni sono assegnate a Lorenzo Del Mastio per la tesi di laurea “Una cella modellata dalla luce. La nuova cappella della beata Vergine Maria Immacolata del Galluzzo, Galluzzo (Firenze) – Italia”, a Maria Giada Di Baldassarre per la tesi di master “Post earthquake community. Una nuova cappella devozionale dedicata alla Santa Vergine Maria a Visso (Macerata) – Italia” e a Federica Frino per la tesi di laurea “La nuova chiesa di San Tommaso a Pontedera (Pisa) – Italia”.

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Architettura / Gli architetti: mettete più alberi nei vostri OSPEDALI

«Più che edifici: città nella città». Così descrive gli ospedali Stefano Capolongo, che nel Politecnico di Milano si occupa di Progettazione delle strutture sanitariee da anni dirige su questo tema un Master coordinato anche con le Università Statale e Cattolica. «Gli ospedali sono strutture di altissima complessità, in cui coesistono le attività più diverse: residenze, luoghi di commercio, settore terziario, impiantistica… ».

Basti ricordare che non chiudono mai, sono aperti 24 ore al giorno e dispongono di macchinari sofisticati e in continua evoluzione, per le terapie come per la gestione delle condizioni ambientali. Utilizzano farmaci di diversa provenienza che vanno acquistati, conservati, opportunamente utilizzati. Come gli alberghi, hanno cucine, sale da pranzo, letti, lavanderie ecc. Vi opera una popolazione di medici, infermieri e altro personale addetto alla manutenzione (dalla disinfezione dei locali all’efficienza delle apparecchiature), alla gestione dei servizi, stagisti, studenti… E gli utenti possono presentare i problemi più diversi, di carattere fisico e psichico.

«Come luogo protesico, l’ospedale dev’essere tale da sopperire a carenze o menomazioni di ogni tipo, fisico o psichico, momentanee o permanenti – spiega Capolongo –. Così che il malato si trovi in condizioni di sicurezza, che la sofferenza sia alleviata e ogni persona sia posta nelle condizioni psicofisiche più adatte a recuperare al meglio la salute, ovvero quell’insieme di benessere fisico, psichico, sociale».

L’architettura non è estranea a questo compito. E in questi anni recenti si è dimostrato come essenziale sia che allo spazio costruito si associ il verde. La presenza di piante ha una tale influenza sulle condizioni del malato che si è sviluppata l’approccio chiamato «giardino terapeutico» (healing garden). L’idea fu proposta per la prima volta nel 1984, in un articolo pubblicato sulla rivista “Science” da Roger Ulrich, attualmente docente di architettura al Centro per la ricerca sugli edifici per la salute della Chalmers University di Göteborg (Svezia), ritenuto il massimo esperto in materia. L’articolo si intitolava La vista dalla finestra può influire sulla guarigione dopo un intervento chirurgico. Ulrich ha riferito che l’idea per la ricerca compiuta derivò dalla sua esperienza personale: da ragazzo soffrì per una nefrite che lo costrinse a lunghi periodi di degenza a letto. Durante i quali si sentì sostenuto soprattutto dal fatto di poter guardare dalla finestra le fronde di un abete.

Ricerche successive compiute in molti Paesi hanno dimostrato che l’effetto curativo della visione delle piante vale per tutti. «Ha preso piede anche l’ortoterapia, ovvero il giardinaggio per scopi terapeutici. Con diverse specializzazioni: per esempio per i malati del morbo di Alzheimer vi sono i giardini aromatici, perché in loro la percezione olfattiva è la meno colpita». Come sostiene Mary Jo Kreitzer, medico dell’università del Minnesota, «l’aspetto più importante nei giardini terapeutici è che vi siano piante vere, e fiori, magari anche dell’acqua tranquilla. La presenza di statue o di altri artefatti non porta effetti benefici simili a quelli che provengono dalla natura». La Kreitzer spiega inoltre che le piante e gioiosi gorgoglii d’acqua sono utili per isolare i luoghi di degenza dai rumori tipici della città: anche questi infatti hanno un effetto negativo sulle condizione psichiche delle persone.

I giardini curativi si vanno diffondendo: è usuale che i nuovi ospedali siano dotati di piante, sia all’esterno, sia all’interno. In quest’ultimo caso con grandi serre, in cui si possa passeggiare. E quelli già esistenti cercano di dotarsene. Qualche esempio: il nuovo ospedale di Biella (progetto “Una 2 architetti associati”) dispone di un tetto completamente a verde ed è strutturato in modo tale da favorire la vista sulle vicine montagne. AMilano l’Istituto dei Tumori si è dotato di un tetto verde. In Svizzera lo studio di Silvia Gmür (specializzato in progetti ospedalieri) sta realizzando il nuovo nosocomio civico di Soletta, con una struttura in pianta a forma di “L” disposta attorno al luogo ove sorgeva il vecchio ospedale: questo sarà abbattuto e al suo posto vi sarà un ampio giardino.

Perché, sostiene Stefano Capolongo, gli ospedali non possono invecchiare: «Il costo per costruirne uno nuovo equivale a quello per gestirlo un solo anno. Devono essere strutture flessibili, capaci di aggiornarsi. Ma dopo cinquant’anni sono obsoleti. Al punto che per esempio il nuovissimo Martini Hospital di Gröningen in Olanda è stato pensato per essere sostituito tra una cinquantina di anni».

E le vecchie strutture di valore storico? «Com’è accaduto per la Ca’ Granda, l’ospedale costruito a Milano da Filarete a metà del XIV secolo, che resta come sede universitaria, possono cambiare destinazione. Centri di ricerca, luoghi di studio, biblioteche. Ma non luoghi per la terapia». Questi dovranno sempre esser all’avanguardia. E soprattutto pieni di piante che ricreino l’ambiente naturale, quello più consono alla vita.

Avvenire

La Sagrada Familia, una lode a Dio. E un libro di Mons. Ghirelli che spiega come dovrebbero esserlo tutte le chiese

“Una lode a Dio”. Così Benedetto XVI ha definito la Sagrada Familia. Una chiesa monumentale, in costruzione da circa 128 anni, che è sopravvissuta al suo geniale inventore, l’architetto catalano Andoni Gaudì, morto investito da un tram mentre il suo capolavoro era ancora in costruzione. E “una lode  a Dio” devono essere tutte le Chiese. Ci sono dei precisi canoni liturgici da rispettare. E monsignor Tiziano Ghirelli, responsabile dell’ufficio diocesano per i Beni Culturali della diocesi  di Reggio Emilia ha voluto dedicare un intero volume all’analisi degli edifici ecclesiali. Con l’obiettivo – spiega – di “Tentare di capire se e come gli spazi sacri e i loro complementi rispondano alle istanze che, a partire dalla Sacrosanctum Concilium, sono richieste per favorire una ‘actuosa participatio’ dell’intera comunità cristiana al fare liturgico” Il libro, Ierotopi cristiani. Le chiese secondo il magistero, è edito dalla Libreria Editrice Vaticana.

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Autore Ghirelli Tiziano
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E il fatto che alla presentazione sia presente anche il cardinal Lluìs Martìnez Sistach, arcivescovo di Barcellona, è significativo. Anche perché la Sagrada Familia, la “prima delle cattedrali gotiche di una nuova era” come amava definirla Gaudì, è un’opera densa, perché piena di simboli. L’esatto contrario di molte cattedrali moderne, spoglie, geometriche, nelle quali a malapena si riconosce l’altare. Tanto che c’è chi ipotizza che è proprio nella freddezza di queste cattedrali, nelle loro spigolature, che un sacerdote può perdere la fede in Dio.

Ghirelli non è un purista dell’arte sacra. Ne è un esempio il controverso restauro della cattedrale di Reggio Emilia – che grande spazio ha nel libro – avvenuto sotto i suoi auspici. Il restauro ha creato molte polemiche sui giornali, a partire proprio dalla foggia della cattedra episcopale di arte povera in legno e ferro dello scultore di Kounellis, smontata per “motivi di spazio” quando a Reggio Emilia si è insediato il vescovo Massimo Camisasca. Una sconfessione per l’opera di restauro, che presentava altre scelte “artistiche” che hanno destato polemica?

In una intervista al Sir dello scorso novembre, Ghirelli aveva parlato proprio dei problemi della recezione degli spazi sacri da parte delle persone. “Intorno a noi – aveva detto – si registrano risultati che creano una certa insoddisfazione e in non pochi casi lasciano perlomeno perplessi, soprattutto perché rivelano – contrariamente alle indicazioni date dai vescovi italiani, e non solo – una mancanza di collegamento di competenze. Spesso, infatti, l’architetto e il progettista vengono lasciati soli, perché non c’è una presenza liturgica, oppure c’è l’architetto e il liturgista ma non l’artista. Si fa fatica, insomma, ad andare nella direzione della complementarità dei ruoli, e questo metodo di partecipazione può compromettere i risultati. In positivo, però, tutto ciò può essere uno sprone – sull’esempio di quanto, concretamente, affermava e realizzava Paolo VI – a recuperare lo spirito di quella grande committenza ecclesiale che nei secoli ha fatto della Chiesa una componente essenziale dell’evolversi della storia dell’arte. Il rapporto tra la Chiesa e gli artisti – come si evince dallo splendido discorso pronunciato da papa Montini nel 1964, nella Cappella Sistina – è essenziale, anche per sollecitare gli artisti a produrre opere non da destinare a un museo, ma da inserire e utilizzare in un contesto liturgico”.

Di questo si trova esempio anche nella Sagrada Familia. Ad esempio, Etsuro Sotoo è uno scultore giapponese  che da oltre trent’anni si occupa delle statue dellafacciata della natività della Sagrada Familia, ed è soprattutto membro della Junta Constructora, l’equipe di artisti che in collaborazione con architetti, designer e ingegneri dirige i lavori dell’eterno cantiere modernista, e nel suo piccolo studio non lontano dalla chiesa fa nascere le idee per i modelli che poi verranno consegnati ad assistenti perché li realizzino coprendoli di maiolica in piccole tessere. E il fatto che sia un artista giapponese, contemporaneo, a far parte della Junta fa capire come alcuni concetti riguardanti i rapporti tra la Chiesa e l’arte non sono mutati con la contemporaneità. C’è sempre la necessità di un immaginario che si misuri con l’eternità e la tradizione deve si parlare all’uomo, evolversi, ma deve anche fare i conti con la liturgia.

Lo sa bene Jordi Faulì, da poco nominato architetto della Sagrada Familia. La nomina del quinto architetto capo della celebre cattedrale di Barcellona ancora incompiuta è forse il segnale di come tradizione e modernità vadano di pari passo nella costruzione di questa cattedrale. Come in una cattedrale medioevale, dove nessuno ricorda i nomi dei costruttori,  per essere architetto della Sagrada Familia bisogna dimenticarsi di se stessi e seguire il progetto che un altro ha iniziato. Al contrario della tendenza attuale, purtroppo presente anche all’interno della Chiesa,  dove è l’architetto stella che impone il “suo” stile anche sopra i valori simbolici propri della tradizione cristiana, Jordi Faulí è un architetto che in continuità con quattro generazioni costruisce la Sagrada Familia. Dalla prima pietra posata nel 1882 ad oggi, il progetto di Gaudì è rimasto intatto. E la speranza di Faulì è di terminare la costruzione della cattedrale nel 2026, per celebrare i cento anni della morte di Gaudì.

In una intervista a Radio Vaticana, Faulì stesso ha sottolineato il valore della continuità dell’opera. “E’ molto importante la continuità – ha detto – e il segno della continuità è stato sempre presente nella storia della Sagrada Familia. La stessa continuità che si ha nella costruzione di una qualsiasi cattedrale, dove ammiriamo l’edificio terminato, ma del quale non ci ricordiamo quali siano stati gli architetti, perché questo non è necessario. Qui, nella Sagrada Familia, c’è l’architetto ed è Andoni Gaudì. Dopo la sua morte, c’è sempre stata una continuità con lui su diversi piani: anzitutto la continuità nello studio, nelle indagini e nella fedeltà al progetto di Gaudì. In secondo luogo, la continuità nelle generazioni, nelle persone. Nella Sagrada Familia, hanno sempre lavorato architetti del secolo di Gaudì, architetti ormai di quinta generazione, e la conoscenza è stata trasmessa da una generazione a quella successiva”.

E ripercorriamola, questa cattedrale, per comprenderne la simbologia. Tre sono i libri dai quali Gaudì ha tratto ispirazione per la sua monumentale opera: il libro della natura, il libro della Sacra Scrittura e il libro della Liturgia. Da lì è partito per il suo intreccio architettonico, unendo realtà del mondo e storia della salvezza. C’è molto di liturgico nell’opera di Gaudì, molta attenzione per il dettaglio sacro, per il modo in cui la narrazione biblica viene resa presente nella liturgia. La Sagrada Familia è una chiesa sorta al centro di un chiostro e concepita come un luogo all’interno di un giardino (il Paradiso terrestre) nel quale Dio e l’uomo possono parlarsi faccia a faccia. Il chiostro non è dentro, come in tutta l’arte cristiana, ma è intorno. E fuori del chiostro, il deserto.

Per Gaudì, anche Barcellona era deserto. Avanti negli anni, si fece “monaco nella città”, con una vita di una semplicità disarmante, in una casetta a ridosso del cantiere. Ma ogni giorno la Sagrada Família cresceva di nuove pietre e lui gridava alla sua città che la nuova creazione è già iniziata, che il deserto inizia a fiorire.

Anche dentro l’edificio sacro, ci sono pietre, alberi e vita umana:  tutta la creazione doveva convergere nella lode divina. Allo stesso tempo, portò fuori i “retabli”, per porre davanti agli uomini il mistero di Dio rivelato nella nascita, passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo. In questo modo, attraverso l’arte, Gaudì ha superato la scissione fra coscienza umana e cristiana. Non lo ha fatto con le parole o con la liturgia, lo ha fatto con la regolarità delle pietre.

Il solo vedere a distanza la chiesa dà un forte senso di sacro, come un vero e proprio richiamo. Era nelle intenzioni di Gaudì.  Le torri campanarie sono ciò che impressiona di più e subito chi per la prima volta si accosta alla Sagrada Família. Ce ne sono quattro per ciascuna delle due facciate laterali, In tutto dovranno essere diciotto: altre quattro sulla facciata principale; altre cinque sopra la crociera centrale, con la più alta dedicata a Cristo e le altre agli evangelisti; e infine una sopra l’abside, dedicata alla Madonna. Su ogni torre sono scolpite le parole “Sanctus” e, verso la cima, “Hosanna in excelsis”. Sono le parole del canto che introduce la grande preghiera eucaristica, la liturgia della Chiesa terrena e celeste che si celebra in ogni messa.

Niente manca di senso, nella chiesa progettata da Gaudí. Che avrebbe anche voluto orientare la chiesa verso il sole che sorge. Non gli fu possibile: la Sagrada Família è sorta sull’asse nord-sud. Allora ideò due facciate laterali, quella a oriente dedicata alla Natività e quella a occidente dedicata alla Passione. Se Cristo è il “sole di giustizia” e “il giorno che il Signore ha fatto” (Salmo 118, 24), allora entrare nella basilica e partecipare alla liturgia è vivere “in” questo giorno.

Gaudí, con le due facciate sulla Natività e la Passione, interpreta anche la Chiesa come “passaggio”. Mentre il sole che è Cristo passa attraverso la Sagrada Família da oriente a occidente, dalla nascita alla morte redentrice, la città degli uomini – a cominciare da Barcellona situata prevalentemente a ovest della basilica – è chiamata a fare il cammino inverso, dalla morte alla nuova nascita.

Dalla perdita delle sue radici a nuova nascita nella fede cristiana: è il cammino che dovrebbe fare l’Europa? Forse è dalla simbologia della Sagrada Familia che si può ripartire per riempire di senso lo spazio sacro, e ritornare alle radici della fede. Un percorso che si fa anche attraverso la bellezza. È proprio attraverso la bellezza che si può aiutare la partecipazione dei fedeli. “La bellezza della liturgia – aveva detto Ghirelli – nella sua dimensione terrena, deve essere un riflesso della bellezza perfetta, assoluta, della realtà celeste. Quello che diventa molto rischioso, complicato, è che il concetto di bellezza e la sua attuazione nella pratica è assolutamente soggettivo, perché ciascuno la realizza secondo i propri canoni. Ecco perché è importante avere una forte consapevolezza del proprio limite. Quando Giacobbe, dopo la lotta con l’Angelo, dice ‘è terribile questo luogo’, non fa riferimento a un luogo di minaccia o paura, ma alla consapevolezza di chi si rende conto del suo essere assolutamente impari nei confronti di tanta grandezza”.

Le chiese moderne? Non buttiamole via

Potrebbe spaventare un po’ il titolo (e la mole) del volume di Tiziano Ghirelli Ierotopi cristiani, pubblicato dalla Lev e dedicato al rapporto tra liturgia e architettura negli ultimi 50 anni (sconto scheda online su ibs 15%). Ma non poteva forse essere altro: perché al centro non c’è semplicemente l’edificio chiesa ma la dimensione simbolica di luogo sacro, icona spaziale della comunità. La ricerca del direttore dell’Ufficio dei beni culturali di Reggio Emilia, tra i membri della commissione che ha seguito la riforma della cattedrale emiliana, è ampia per taglio storico e geografico oltre che illuminante, a partire dalla raccolta e dall’analisi dei testi degli episcopati nazionali in materia di adeguamento liturgico.

Ghirelli Tiziano – Ierotopi cristiani. Le chiese secondo il magistero – >>acquista il libro

 

Ierotopi cristiani. Le chiese secondo il magistero Titolo Ierotopi cristiani. Le chiese secondo il magistero
Autore Ghirelli Tiziano
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Don Ghirelli, il volume evidenzia come la liturgia e lo spazio a essa dedicato siano cambiati continuamente nei secoli. Come interpretare allora la parola «tradizione»?
«Pensiamo all’ombrello usato per accompagnare il sacerdote negli spostamenti processionali o al canto sostenuto da chitarre elettriche. Esempi estremi tratti dall’esperienza, che individuano polarità concrete dell’attuale dibattito. La liturgia ha strutture tipiche non modificabili, pena la perdita di senso, e il respiro nel tempo degli uomini. Potremmo dire che è un “qui e ora, come allora e come sarà”. La liturgia, dove storia ed escatologia si abbracciano, non è cronaca. Proprio per questo il termine tradizione va analizzato con cura. Vogliamo richiamarci alla tradizione degli Atti degli Apostoli? O a quella dei Padri della Chiesa? Ai grandi santi del Medioevo? Ai riformatori tridentini? Ai fondatori dei movimenti missionari dell’Ottocento? La Chiesa è cattolica in quanto costituita da un multiforme popolo in cammino; le liturgie, cioè le “soste” che fanno pregustare il Paradiso, sono espressioni di comunità dinamiche che, sapientemente guidate, trovano identità e speranza nel Cristo risorto. Dunque parlare di tradizione al di fuori di questa prospettiva da un lato rischia di diventare rivisitazione di segni non più parlanti, dall’altro alibi per fughe in avanti che durano una stagione».

Si può tracciare un bilancio, a 50 anni dalla «Sacrosanctum Concilium», del rapporto tra liturgia rinnovata e architettura?
«Il Concilio ci ha fornito delle linee guida e soprattutto ci ha responsabilizzati. Non ha detto: guardate al passato, alle costruzioni romaniche o barocche… Ha dato una prospettiva, lasciandoci liberi, e ci ha invitati a un cambiamento. La sottolineatura conciliare della comunità come partecipe ed espressione del sacerdozio di Cristo impone un “guardarci in faccia”, un riconoscersi e un accettarsi reciproco. Un assetto mentale e affettivo di questo genere non può non produrre ambienti e strutture coerenti con l’incontro tra fratelli e tra loro con Cristo. Gli spazi dell’incontro si modellano intorno a un ordine che non è più solo gerarchia di ruoli ma è gerarchia di servizio: “Chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti”. Introdurci in questa dimensione non è facile. L’ordine che ci danno i banchi ci rassicura, invochiamo il “senso del sacro” che si respira in una pieve romanica. Le chiese d’oggi vengono accomunate da un giudizio negativo senza appello. Dimentichiamo che l’aura di quegli ambienti persiste non grazie alle pietre ma perché i nostri padri nella fede hanno sofferto, ideato e creato quegli spazi perché le loro liturgie vibrassero nell’incontro che salva. Oggi siamo chiamati a creare spazi per gli uomini d’oggi altrettanto significativi. È una sfida che vogliamo abbandonare? Non ci riteniamo all’altezza? Possiamo solo ripetere le lezioni del passato? Gli “stampi” già sperimentati sono gli unici riproponibili oggi? Dobbiamo dire di no. Le risorse, intellettuali e di fede per rispondere alla sfida ci sono: è possibile, anche nel terzo millennio, creare spazi attraverso i quali i credenti rendono visibile l’amore di Dio per l’uomo. Ancora oggi si può sperimentare nella liturgia un anticipo di Paradiso: ovviamente occorrono luoghi, oggetti, suoni, voci, luci, movimenti coerenti con questa tensione».

Il volume raccoglie per la prima volta i testi in materia delle conferenze episcopali. Quali sono i punti in comune? E perché faticano a diventare patrimonio diffuso?
«Tutti i testi censiti presentano una visione ecclesiologica unitaria, frutto di un notevole livello di assimilazione del Concilio Vaticano II. Le forme celebrative, che sono la prospettiva che deve guidare nella progettazione dei luoghi liturgici, sono viste dai diversi episcopati in maniera univoca. È evidente infatti in tutti i testi la sottolineatura della centralità dell’assemblea che recupera un ruolo sacerdotale. Grande importanza nell’articolazione dello spazio è conferita all’ambone come forte richiamo a Dio che parla all’uomo con parole d’uomo. È enfatizzato il fonte battesimale quale “pasqua” alla partecipazione alla vita divina: pertanto la sua collocazione corretta è presso l’ingresso. Soprattutto è chiaramente sottolineata la preminenza dell’altare e come debba essere il centro intorno al quale l’assemblea si dispone: tutti i documenti evidenziano che l’altare deve essere “circondabile”, scindendo anche il luogo della celebrazione eucaristica da quello della riserva eucaristica. Ma questi documenti restano troppo spesso negletti. In questo ambito manca la comunicazione anche tra le diverse nazioni: negli anni Novanta, quando sono stati emanati i testi della Cei, si riteneva erroneamente che nessun episcopato avesse fino ad allora affrontato il tema. Il lavoro, in alcuni casi davvero ciclopico, compiuto dagli episcopati nazionali è spesso rimasto ignoto anche a quanti avrebbero dovuto conoscerlo per ragioni professionali. È questa una delle ragioni del volume».

Può indicare dei casi «esemplari» di riforma liturgica?
«Dove si è creata un’alleanza tra committenza, comunità e progettista, i risultati sono stati positivi. Tra i quali, in contesti importanti, ricordo quello della cattedrale di Milano. Meno felici invece gli esiti quando un professionista, anche di grande valore, o un artista di fama vengono lasciati soli, come è accaduto ad esempio nella cattedrale di Pisa: se esteticamente possono convincere, non funzionano invece a livello liturgico. Altre volte un giusto percorso non sfocia in un risultato convincente proprio per il poco coraggio nelle scelte estetiche, come nel duomo di Trapani. Tra i casi positivi in contesti per così dire quotidiani, un esempio è il nuovo spazio liturgico che affianca la chiesa parrocchiale di San Floriano in Gavassa a Reggio Emilia, segnalato anche dalla fondazione Frate Sole di Pavia. L’interazione fra gli architetti Silvia Fornaciari e Marzia Zamboni, il parroco don Angelo Guidetti e la vivace comunità ha consentito di raggiungere un risultato rispettoso del passato e, insieme, capace di valorizzare il momento della comunità orante».

 

Alessandro Beltrami – avvenire.it

Architettura e Arti per la Liturgia: Prima parte dell’intervento del Vescovo Mons. Adriano Caprioli

Mi piace a conclusione di questo nostro incontro, fare riferimento a Benedetto XVI. Come afferma nella Esortazione apostolica Sacramentum caritas 39, rifacendosi al Concilio: «Se è vero che tutto il Popolo di Dio partecipa alla liturgia eucaristica, tuttavia in relazione alla corretta ars celebrandi un compito imprescindibile spetta a coloro che hanno ricevuto il sacramento dell’Ordine. Vescovi, sacerdoti e diaconi, ciascuno secondo il proprio grado, devono considerare la celebrazione come loro principale dovere. Innanzitutto il Vescovo diocesano: egli infatti, quale primo dispensatore dei misteri di Dio nella Chiesa particolare a lui affidata, è la guida, il promotore, il custode di tutta la vita liturgica (cfr. SC 41)».

Guida

Compito del Vescovo è dunque quello di “guida, promotore, e custode di tutta la vita liturgica”… «Tutto ciò è decisivo per la vita della Chiesa particolare — dice ancora Benedetto XVI — non solo in quanto la comunione con il Vescovo è la condizione perché ogni celebrazione sul territorio sia legittima, ma anche perché egli stesso è il liturgo per eccellenza della propria Chiesa… In particolare, esorto a fare quanto è necessario perché le celebrazioni liturgiche svolte dal Vescovo nella Chiesa cattedrale, avvengano nel pieno rispetto dell’ars celebrandi, in modo che possano essere considerate come modello da tutte le chiese sparse sul territorio» (Sacr. Caritatis 39).

Non è un caso che il mio saggio su “La Cattedrale, simbolo di vita” parta dall’intervento di Benedetto XVI dal titolo quanto mai evocativo Il Pontificio Istituto liturgico tra memoria e profezia in occasione del 50° di fondazione del S. Anselmo a Roma, la scuola di formazione di generazioni di studenti e professori di seminario, di animatori e cultori della liturgia, per non dire di vescovi e laici. Il Papa rilegge qui il rapporto tra sana traditio e legitima progressio, annunciato dalla Costituzione conciliare al n. 23.

Con questi due termini, i Padri conciliari hanno voluto consegnare il loro programma di riforma, in equilibrio con la grande tradizione liturgica del passato e il futuro. Non poche volte si contrappone in modo maldestro tradizione e progresso. In realtà, i due concetti si integrano: la tradizione è una realtà viva, include perciò in se stessa il principio del suo sviluppo, del progresso. Come a dire che il fiume della tradizione porta in sé anche la sua sorgente e tende verso la foce.

Chi avrà la pazienza di sfogliare le pagine del mio libro nella sua prima parte su “La Liturgia: tradizione e progresso” — frutto di diversi interventi come docente e come presidente della commissione episcopale CEI per la liturgia — avrà modo di rendersi conto di quanto questo binomio di “sana tradizione e legittimo progresso” abbia costituito il terreno di prova della stessa opera di restauro della Cattedrale. Faccio mio quanto il Card. Gianfranco Ravasi osserva nella prefazione al libro: «Comprensibile è la laboriosità di un simile incontro (tradizione e progresso) che si fonda certamente sulla tradizione, la quale, però, non è mera staticità o scrigno serrato, bensì realtà viva che include il principio del progresso».

Non dovrà sorprendere a questo proposito nel saggio “Cattedrale, simbolo di vita” tra le verità dimenticate il capitolo VI sulla pietà eucaristica, con l’adorazione quotidiana collocata nella cripta come “Cattedrale della preghiera”. L’intento è quello di offrire momenti di silenzio – divenuti sempre più rari in città, perfino nelle case – per nutrirsi di meditazione della Parola e di contemplazione del Mistero pasquale del Signore che in Gesù Cristo si è dato tempo per noi. Mi sembra che siamo nell’autentica tradizione cattolica.

Mons. Adriano Caprioli

Mons. Adriano Caprioli – diocesi.re.it