Riflessione sul Natale

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In preparazione al Natale ho ricevuto una bella riflessione sul valore della nudità interiore e relazionale tra Bibbia, letteratura latina, filosofia e agiografia; a scriverla Rosaria Perricone e Tonino Solarino, coniugi di Ragusa impegnati nella Chiesa locale e non solo, autori di alcuni libri sui temi della famiglia, dei giovani, dell’educazione.

«Scriveva Seneca che la virtù non è preclusa a nessuno, ma sceglie l’uomo nudo.

La nudità di cui si parla non è certamente quella fisica, ma quella interiore e relazionale. È quella nudità che ci ricorda che siamo fragili di fronte all’esistenza, che non servono le maschere o le armature per fronteggiarla. È quella nudità che ci invita all’audacia dell’intimità con noi stessi e con gli altri.

Oggi, diversamente che per le generazioni che ci hanno preceduto, non è un problema mostrarsi senza veli. Racconta l’autore de “Il Gattopardo” che il protagonista consumava i suoi doveri coniugali senza aver mai nemmeno visto l’ombelico della moglie. Se oggi la nudità fisica si ostenta, quanto disagio e quanta paura, invece, nel mostrare agli altri e a noi stessi la nudità della nostra anima! Eppure la virtù, ha ragione Seneca, ha bisogno di questa nudità.

“Dove sei? cosa provi? cosa desideri? perché fai quello che fai?”: sono le domande della consapevolezza, dell’esame interiore. Narrano le scritture sacre che “dove sei?” è la prima domanda che Dio fa al primo uomo. È una domanda che mette a nudo Adamo che si nasconde. Anche noi come il nostro progenitore ci nascondiamo, sfuggiamo, cerchiamo permanentemente suoni e immagini per non stare soli con noi stessi e non dover rispondere a domande che ci appaiono scomode. “Guardarci allo specchio dell’anima” con la nostra nudità, le nostre pretese, le nostre ferite ci terrorizza. Beati i poveri in spirito forse significa anche questo: puoi metterti a nudo, con audacia e senza paura; puoi accogliere con compassione la tua fragilità, le tue maschere, le tue ferite, i tuoi errori; puoi cambiare il tuo cuore se ti riconcili con te stesso, senza dover mostrare una immagine di te idealizzata, priva di consistenza e verità.

Anche con gli altri evitiamo di metterci a nudo e non ci permettiamo di essere fino in fondo noi stessi. Chiacchiere, passatempi, “fare cose” occupa gran parte del nostro tempo relazionale. La dimensione dell’essere insieme spesso si esaurisce qui.

C’è una dimensione importante che è caricata di introietti di imbarazzo e di vergogna: l’intimità relazionale. Cosa è l’intimità relazionale? La capacità di condividere la nudità della propria anima, la sua bellezza e la sua fragilità con autenticità, pudore, compassione. Autenticità: perché ci permette di mostrarci per come realmente siamo. Pudore: perché la nudità della nostra anima è il nucleo fragile della nostra unicità e della nostra identità e non possiamo affidarla a chiunque, ma ci richiede di scegliere con cura persone capaci di delicatezza. Compassione: perché solo una grande tenerezza per noi stessi ci permette l’audacia di rivelarci.

Siamo creature e non dèi e la fragilità è la regola della condizione umana, un dato strutturale dell’essere umano. Se nascondiamo a tutti ciò che siamo, non cresciamo. Se disprezziamo o neghiamo a noi stessi e agli altri la nostra fragilità, siamo destinati a forme di vita nevrotiche. Con poche persone (poche ma buone) è necessario essere completamente noi stessi. Ribadiamo che dobbiamo decidere con chi e quanto essere intimi. Come “i porcospini di Schopenhauer” dobbiamo farlo con discernimento, qualche volta dopo tentativi ed errori, per valutare quanto proteggerci e quanto affidarci, perché le perle preziose e vulnerabili della nostra anima non possiamo e non dobbiamo darle ai porci.

L’intimità, riassumendo, ci fa diversi doni: ci aiuta a maturare verso di noi un amore incondizionato; ci ricorda che siamo creature limitate; libera energie e risorse nuove; guarisce. È la parola detta e la parola ascoltata, infatti, che ha effetti terapeutici.

Quanta ricchezza si perde nella coppia quando non si riesce a condividere le proprie fragilità, le proprie ferite, i propri desideri per paura di essere giudicati dal partner. Quanto si impoveriscono le amicizie se, oltre a ridere insieme, a riempire insieme il tempo libero, non ci si offre reciprocamente consolazione e compassione per le fragilità.

San Francesco di Assisi è il nostro maestro di nudità. Spogliandosi davanti ai suoi concittadini ci mostra la strada. Francesco si mette a nudo perché ha maturato un cuore libero dal giudizio e dall’approvazione. Non ricerca likes. È radicalmente guarito da ogni narcisismo che ci impone di essere sempre brillanti, performanti, importanti, di successo per essere amabili. Per Francesco di Assisi il successo è esclusivamente quello di Gesù. L’alter Christus è nudo, umile, autentico, povero, come il suo Gesù.

Il Natale viene per invitare anche noi alla nudità e per farci dono di una intimità interiore e relazionale».

Le qualità di un amico. I versi del poeta esule greco Teognide e la giornata mondiale dell’amicizia

August Macke, «Quattro ragazze» (1912–1914)

I versi del poeta esule greco Teognide e la giornata mondiale dell’amicizia

29 luglio 2020

Teognide fu un poeta esule greco vissuto tra vi e v secolo a.C. di cui si è conservato un libro, le Elegie, il cui contenuto è soprattutto sentenzioso e che, con molta probabilità non è neppure tutto suo, per via delle diverse stratificazioni gnomologiche che si sono aggiunte ad esso nel corso dei secoli.

Nei suoi versi è contenuta molta sapienza greca, un distillato di osservazioni e di lezioni di vita ricavato soprattutto dalle sue esperienze di uomo lontano dalla patria, che ha dovuto, per vivere, avere necessariamente rapporti con altra gente, che ha dovuto scontare il disinganno e l’amarezza delle delusioni ma che pure, quasi in controluce, riesce a dare un’immagine molto forte dei rapporti umani e tra questi sicuramente un posto importante lo occupa nel suo libro il sentimento dell’amicizia. Le Elegie danno un’immagine netta di quanto sia importante per l’uomo questo affetto e traccia un perimetro attorno a essa che mira a definirla e che nello stesso serve a preservarla e custodirla meglio.

Quali sono dunque per Teognide le qualità di un amico? Innanzitutto la capacità di adattamento: «Anima mia, a seconda degli amici fai variare/ il tuo carattere, adegua la tua indole a quella/ di ognuno; segui l’istinto del polipo dai molti tentacoli,/ che assomiglia alla pietra a cui resta stretto» (citazione dall’edizione Edmonds; la traduzione è di chi scrive). L’amicizia richiede proprio questa sensibilità, questa «facoltà mimetica», direbbe Walter Benjamin, di aderire con il proprio carattere a quello altrui. A suo modo è questa una particolare forma di attenzione che rappresenta quasi il presupposto di ogni amicizia.

Poi nella scala di valori rappresentata dal poeta di Megara per mantenere salda un’amicizia c’è la comprensione: «Non perdere un amico per un motivo banale/ convinto da un’accusa ingiusta»; occorre infatti ricordare che «gli errori vanno con gli uomini» e che «solo gli dei non devono portarseli con sé», perciò avendo a che fare con un amico, tenere sempre presente che «diversi difetti sono negli uomini», ma che, allo stesso tempo, «diverse sono anche le virtù e le qualità».

La nobiltà di questo sentimento è comprovata anche dal carattere della non invadenza che esso deve conservare. L’invito infatti è quello «di non lamentarsi troppo nei guai» e a non richiamare troppo l’attenzione su di sé: «Se qualcosa non va», oppure «se si sta male». L’ideale per costruire l’amicizia è quello apollineo della misura, dell’equilibrio, del rispetto che deve sempre innervare e animare il rapporto. Perciò egli guarda con orrore alla condizione di chi è costretto a dire: «Me misero, sono diventato una gioia per i nemici e un cruccio per gli amici per via delle mie sofferenze».

Un’altra virtù importante che rende solida l’amicizia è la sincerità. Egli ricorda infatti che «chi pensa diversamente da come parla è un cattivo compagno: meglio nemico che amico» e invita a «non lodare nessun amico se è malvagio». In questa costellazione di virtù che definisce l’amicizia c’è anche posto per la fiducia, nella consapevolezza che «è difficile per un nemico ingannare un nemico,/ facile per l’amico ingannare l’amico”.

Teognide, come si è accennato, era un uomo che era stato provato dalla vita. Egli infatti aveva dovuto lasciare la sua patria greca, Nisea, città dorica sull’istmo di Corinto, al tempo delle lotte tra aristocratici (la sua classe di appartenenza) e democratici. Nella sua vita aveva dovuto fare i conti con la condizione di esule e naturalmente si era fatta una certa esperienza degli uomini. Perciò riferendosi al suo stato di apolide a un certo punto arriva a scrivere a proposito dell’amicizia: «Nessun amico e nessun compagno fedele per l’esule:/ più triste dell’esilio questa pena». Così, quasi come un contrappunto all’ideale alto di amicizia che le sue sentenze tratteggiano, si possono avvertire nei suoi distici elegiaci le note basse della delusione e della disillusone che descrivono bene i mali che possono attaccare alla radice questo sentimento.

Per tale motivo sono sicuramente frutto di situazioni di vita non sempre fortunate e felici, affermazioni, improntate certamente a pessimismo, come: «Non confidare sempre a tutti ciò che ti accingi a fare: pochi sono gli amici veramente fidati»; oppure: «Fidandomi ho perso tutto, non fidandomi l’ho salvato/ amare verità entrambe»; o anche: «Beato e fortunato e felice chi, senza aver sofferto,/ scende nella nera dimora di Ade, prima di aver fatto esperienza/ delle offese dei nemici, della violenza della necessità/ e provato quale animo abbiano gli amici».

Eppure anche attraverso il negativo che il poeta di Megara tratteggia e evoca, torna a delinearsi chiara e netta l’immagine dell’amicizia che Teognide vagheggia: un sentimento puro e nobile, ispirato a disinteresse, a comunione d’intenti e a solidarietà fraterna, che trova forse in questo pensiero di un altro greco, il filosofo Democrito di Abdera  forse la sua sintesi migliore: «Non è degno di vivere chi non ha neppure un solo buon amico».

di Lucio Coco / Osservatore Romano

L’amicizia matura lenta, ci vogliono fino a 200 ore insieme

L'amicizia matura lenta, ci vogliono fino a 200 ore insieme © Ansa

Per diventare amici ci vuole impegno.
L’amicizia vera richiede dedizione e tempo trascorso insieme per definirsi tale. Lo esprimeva bene una frase di Aristotele, secondo cui “il desiderio di essere amici è una decisione rapida, ma l’amicizia è un frutto a maturazione lenta”, e lo confermano i risultati di uno studio dell’Università del Kansas, pubblicato sul Journal of Social and Personal Relationships, per il quale per considerare una persona un amico stretto occorrono più di 200 ore di condivisione.

Naturalmente il tempo trascorso dev’essere di qualità. Per lo studio, basato su ricerche precedenti che hanno stabilito che il cervello può gestire solo circa 150 amicizie, il professor Jeffrey Hall ha esaminato due tipi di dati. I primi erano relativi all’analisi di 355 risposte a un sondaggio online di adulti che hanno affermato di essersi trasferiti negli ultimi sei mesi e che stavano cercando nuovi amici. Hall ha chiesto a ciascuno di loro di pensare a una persona che avevano incontrato al momento del trasferimento e come la relazione fosse proseguita, esaminando anche ore trascorse insieme e i tipi di attività svolti. Ai partecipanti è stato chiesto di valutare le relazioni in uno di quattro livelli: conoscenza, amicizia occasionale, amicizia e amicizia intima.

I risultati sono stati poi messi in correlazione con quelli di un altro esperimento, che ha coinvolto 112 matricole universitarie che si erano trasferite da 15 giorni, chiedendo loro chi avessero conosciuto e seguendo nel corso delle settimane l’evoluzione dei rapporti. Il ricercatore ha così stimato che ci vogliono dalle 40 alle 60 ore per un’amicizia occasionale, 80-100 ore per passare all’essere un amico e più di 200 ore insieme per diventare buoni amici. E’ stato sviluppato anche uno tool online (https://mikewk.shinyapps.io/friendship/) che analizzando alcune risposte, indovina il livello di amicizia.

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Aristotele sull’amicizia

Pochi mesi orsono abbiam detto in breve i pensieri di Cicerone nell’operetta sull’amicizia. Oggi dirò le opinioni sull’amicizia che Aristotele espose nei libri a Nicomaco. Quel maestro giudicò l’amicizia “cosa non solo necessaria ma anche oltremodo bella” e con questo indicava che l’amicizia
è per l’uomo tra gli esseri viventi di grandissimo decoro. Di ciò adduceva a testimonianza il fatto che nessuno vorrebbe vivere senza amici pur fornito di tutti i beni. Anzi soprattutto i ricchi cercano e curano gli amici: nulla di buono apporterebbe la ricchezza se chi la possiede non potesse essere generoso
verso gli amici. I giovani usano dei consigli degli amici per non prendere decisioni sbagliate; i vecchi si fanno aiutare dagli amici nei mali fisici; gli uomini adulti con gli amici meglio che da soli possono compiere magnifiche imprese. Tre sono i tipi di amicizia pensa il saggio: chi coltiva le amicizie per la reciproca utilità non ha amore, ma piuttosto ama i vantaggi che provengono dagli amici e quando questi svaniscono subito svanisce l’amicizia; ugualmente accade di coloro che si amano tra loro per cercare insieme i piaceri: accade spesso che questi scompaiano per età o per malattia e ugualmente si depongono dalla memoria anche gli amici. Le amicizie suddette non contano di per sé ma per qualche accidente come l’utilità o il piacere. Ma c’è un’amicizia che coltiviamo per se stessa ed è l’amicizia dei buoni verso i buoni per esercitare la virtù ed è stabile e duratura. Fin qui non molto differisce Aristotele da Cicerone, ma poiché quello fu cittadino di una Città Greca, che i Greci chiamavano polis,
multo disputò sulle differenze tra amici che vivono in città che sono rette dalla democrazia e quelli che sono governati dall’aristocrazia, e infine quelli che sono dominati sotto il giogo dei tiranni. Piccola cosa e timida e spesso falsa è l’amicizia sotto i tiranni, quando non si possono distinguere gli adulatori dagli amici. Nessuno consiglia sinceramente il principe che deve guardarsi più dagli amici che dai nemici.

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