Reportage. Afghanistan un anno dopo: la pace asfissiante dei «nuovi» taleban

In superficie, Kabul non è cambiata dall’agosto 2021. Ma la repressione è strisciante. E la povertà dilaga
Forze taleban presidiano le strade di Kabul

Forze taleban presidiano le strade di Kabul – Ansa

Avvenire

Impossibile dimenticarla. L’immagine ha marchiato in modo indelebile la missione occidentale in Afghanistan. Il 16 agosto 2021, all’indomani dell’irruzione dei taleban nella capitale, un C-17 stracolmo di profughi si stacca da terra, lasciando dietro di sé una scia di puntini neri. Sono uomini e donne che, presi dal terrore e dalla disperazione, si sono aggrappati alla base della fusoliera. Si credono in salvo come chi, nel fuggi fuggi generale, è riuscito a salire a bordo. La forza dell’aria durante il decollo, invece, li scaglia a terra. Nessuno saprà mai il numero esatto delle vittime. Insieme ai loro corpi, sulla pista dell’aeroporto di Kabul, si è frantumato il miraggio di aver esportato la democrazia nel Paese asiatico.

«Uno dei “puntini” era mio fratello Zaki. Aveva 19 anni e voleva solo giocare a pallone. In un anno ho perso lui, la casa, il lavoro». Zakir Anwari si presenta all’appuntamento in un bar “sicuro” nel centro della capitale in compagnia di un amico. Ha paura di uscire da soloA differenza di altri puntini anonimi, Zaki era un personaggio noto: star della nazionale di calcio under 18, aveva di fronte a sé un futuro sportivo brillante. «Temeva di non potere più scendere in campo. Per questo l’ha fatto. Me l’ha detto lui stesso quando mi ha chiamato, 73 minuti prima di compiere quel gesto folle. Ho cercato di distoglierlo ma non ci sono riuscito. Non voleva vivere nella paura. Ora lo capisco», racconta Zakir, finito nel mirino degli studenti coranici a causa di alcune interviste a media nazionali e internazionali. «Ho solo detto la verità: Zaki non voleva rimanere nell’Afghanistan dei taleban». Questi ultimi non hanno gradito e sono cominciate le minacce. «Prima abbiamo cambiato casa. In seguito, ho chiuso il negozio di telefonia che avevo nel mercato di Lazy Mariam. Ormai aspetto solo che si scordino di me. Anche io vorrei dimenticare quel giorno, ma non posso». Del caos feroce di allora, un anno dopo, nello scalo ancora intitolato a Hamid Karzai, non c’è traccia.
L’esiguo gruppo in arrivo si lascia misurare la temperatura prima di prendere le valigie. Gli addetti ai carrelli si contendono i pochi passeggeri nella speranza di una mancia. Il controllo dei passaporti è veloce. C’è perfino una donna in servizio. Appena fuori, il cartello “I love Afghanistan” dà l’impressione di trovarsi in una nazione qualunque. Ma non lo è. Kabul ora è la capitale dell’Emirato islamico, come sottolineano le onnipresenti bandiere bianche, con scritto «Allah è l’unico Dio e Maometto è il suo profeta».

La pace asfissiante dei taleban ha sostituito oltre quattro decenni di conflitto ininterrotto: prima contro i russi, poi fra i signori della guerra, quindi contro gli americani e i loro alleati. È finalmente possibile percorrere in auto Airport road senza timore di saltare in aria su un ordigno. O oltrepassare l’enorme scanner di Zambaq Way e accedere alla zona dei palazzi governativi. Ma è vietato ascoltare musica, tagliarsi la barba – per gli uomini – e mostrare il volto, per le donne. Queste ultime non possono nemmeno continuare gli studi dopo le elementari, viaggiare da sole per più di 75 chilometri, prendere la patente, sedere al fianco di un automobilista maschio, entrare in un parco in uno dei giorni non espressamente riservato. La separazione tra i generi, ossessione del movimento fin dalla nascita negli anni Novanta, è legge.

Eppure, almeno nella capitale, molte ragazze passano davanti ai costanti check-in taleban senza la mascherina d’ordinanza o il velo sulla bocca. Mentre, nell’abitacolo delle proprie vetture, i giovani accendono la radio. I barbuti in tunica e turbante, con il Kalashnikov sempre in mano, lasciano correre. Almeno in apparenza. «Forse gli studenti coranici, nel profondo, non sono cambiati. Ma l’Afghanistan sì. E molto», afferma Scott Smith, capo del servizio Affari politici della missione Onu nel Paese (Unama). Per sopravvivere, dunque, i taleban sono sufficientemente pragmatici da accettare di fare i conti, in qualche modo, con il nuovo scenario. Per questo, la Kabul del secondo Emirato somiglia più alla capitale della defunta Repubblica che a quella del regno del mullah Omar tra il 1996-2001. «Ora il clima è differente. Sono stato qui nel 1997 e la cappa di terrore era opprimente. Le persone venivano picchiate fuori dalle moschee, le tv distrutte in pubblico, le donne rinchiuse in casa – sottolinea Smith –. Questo non vuol dire che non ci sia repressione». Un recente rapporto dell’Unama ha documentato almeno 160 esecuzioni extragiudiziali, 178 arresti arbitrari, 26 scomparse e 56 casi di tortura nei primi dieci mesi del regime fondamentalista. Per scoprire la violenza, però, è necessario inabissarsi nel “Paese clandestino” che scorre sotto la pelle “dell’Emirato anno uno”. La nazione di quanti – e non sono pochi – non hanno più un posto nel mondo “per soli uomini pashtun fanatici” degli attuali padroni. Esponenti delle minoranze, Hazara in primis. Attivisti impegnati per promuovere la trasformazione sociale; militari e civili legati all’amministrazione precedente; reporter colpevoli di aver denunciato i crimini jihadisti.

«Domani venderò la telecamera. Sono dodici mesi che non lavoro come filmaker. Almeno la mia famiglia potrà tirare avanti qualche settimana», racconta Zin. E, ancora, intellettuali non allineati, artisti, omosessuali, tossicodipendenti. In bilico tra i due Afghanistan, senza patria nel Paese superficiale come in quello sotterraneo, si colloca lo stuolo dei poveri e poverissimi. Con l’interruzione dei finanziamenti del mondo e il congelamento dei fondi all’estero seguiti al ritorno dei taleban, l’economia nazionale si è contratta di colpo di oltre un terzo, 700mila impieghi sono stati spazzati via e il 59 per cento della popolazione non ce la fa a sopravvivere. Una crisi umanitaria che minaccia il potere degli studenti coranici più degli attacchi dei rivali jihadisti del Daesh. Il governo di fatto lo sa. Per questo, il mural sul ministero degli Esteri ripete: «L’Emirato vuole rapporti pacifici con il mondo». Eppure, mese dopo mese, i taleban sembrano essere sempre meno disposti a compromessi per rompere l’isolamento internazionale. Anzi, da gennaio, le maglie del sistema si sono strette ulteriormente, in concomitanza – sostengono fonti ben informate – con il consolidamento al comando del dogmatico emiro Hibatullah Akhundzada, leader formale eppure a lungo tenuto in ombra dall’ingombrante ministro dell’Interno, Sirajuddin Haqqani. In questo aggiustamento degli equilibri interni potrebbe rientrare l’uccisione da parte di un kamikaze a Kabul, ieri, di Sheikh Rahimullah Haqqani, altro importante esponente del clan, che si era pronunciato a favore dell’istruzione delle ragazze. Nonché l’eliminazione, sempre nella capitale, il 31 luglio, di Ayman al-Zawahiri. La stretta del 2022 su istruzione, abbigliamento e spostamenti femminili ha chiuso le possibilità di un riconoscimento a breve.
Quanto ancora i taleban potranno andare avanti contando solo su Pakistan e Qatar e sugli investimenti della Cina, interessata ad accaparrarsi le risorse del sottosuolo? Come i fatti di un anno fa hanno dimostrato, è rischioso fare previsioni sull’Afghanistan. Il dato sorprendente è che finora gli studenti coranici siano riusciti a evitare il collasso. Merito della capacità di tenere sotto traccia le lotte intestine, di far leva sul conservatorismo delle remote regioni rurali, di sfruttare gli enormi errori della democrazia “made in Usa”, con la sua corruzione dilagante e gli incalcolabili “danni collaterali”. Ma è soprattutto l’aver spezzato l’interminabile bellica a far accettare agli afghani l’anacronismo del sistema presente. Almeno per il momento. Come recita un tradizionale detto pashtun: «Non si può impedire agli uccelli di cantare».

Afghanistan. La resistenza silenziosa delle donne di Herat

Le testimonianze sugli ultimi editti sul velo del regime afghano: «Abbiamo tentato di scendere in piazza contro i decreti, ma i taleban hanno detto ai mullah di fermarci»
Sarte al lavoro, con addosso il burqa, in un negozio di Kandahar

Sarte al lavoro, con addosso il burqa, in un negozio di Kandahar – Ansa

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È la peggiore versione dei taleban anni Novanta quella che colpisce le ragazze afghane dalla presa di Kabul. Eppure a vederle sullo schermo, in videochiamata, Zahra Ebrahimi e Khatera Arazo, tutto sembrano tranne che intimidite. Per cautela scelgono nomi fittizi, ma hanno molto da dire, e il coraggio per farlo. La prima, 23 anni, insegna alfabetizzazione in un piccolo centro di formazione di una Ong a Herat, nell’Ovest del Paese. La seconda, 18 anni, è una sua collega del laboratorio di sartoria. Il centro, ospitato in una casa, tiene un profilo basso per non dare nell’occhio. Per l’ottantina di ragazze che lo frequentano, però, poterci andare è vitale come l’aria che filtra, pur con difficoltà, attraverso il loro velo integrale. «I taleban sono venuti un paio di volte, hanno chiesto che nessun uomo entri in casa» spiega la direttrice Masooma Afghan.

«”Hanno messo in chiaro che tutto deve essere conforme alla sharia. Per ora ci lasciano lavorare». Ai corsi tenuti da Zahra per leggere e scrivere partecipano ragazze fino ai vent’anni, ben oltre l’età consentita nelle scuole ufficiali. Durante il collegamento video, l’insegnante si alza, afferra il chador, e lo indossa per mostrare il mantellone che poggia sopra l’hijab che già prima portava sul capo e al collo. Per il viso usa maschere anti-Covid.

«È difficile respirare così coperte quando fa caldo. Ora se metti dell’acqua all’aperto, comincia a bollire» sorride per la battuta, poi prosegue seria: «Ci sentiamo stordite, con le vertigini. Ed è complicato muoversi, devi guardare in giù dove metti i piedi». Interviene Khatera, che è sarta e con le corsiste confeziona abiti per le sue clienti. «In passato ci commissionavano modelli corti e stretti, ora solo ampi e coprenti anche per i matrimoni». L’annuncio dell’obbligo di velo integrale è stato fatto il 7 maggio in tv, in moschea, tra gli anziani dei distretti.

«Sono stata sorpresa con la mascherina abbassata una volta e un talib mi ha intimato di coprirmi», aggiunge la sarta. Per evitare guai, Zahra si sigilla sotto strati di abiti. «Non voglio interazioni con quella gente. Già prima avevamo problemi, ora si sono moltiplicati. La maggior parte delle insegnanti è disoccupata o fa le pulizie in case di privati». Intanto, in vari punti della città, nei mercati «c’è sempre un talib con un’arma in spalla e un bastone» aggiunge la direttrice.

Le chiediamo se a Herat si siano svolte proteste contro il velo integrale come a Kabul. «Ci abbiamo provato. I taleban, però, hanno chiesto ad anziani e mullah di impedire ogni resistenza». Dal tormento di coprirsi, la conversazione si sposta su patimenti ancora maggiori. Perché a venire soffocato in Afghanistan non è solo il respiro sotto il chador. «Ci sentiamo guardate a vista, osservate in ogni gesto, la loro attenzione è su di noi come in carcere», si sfoga Zahra. «Di molte cose non si parla, ci sono fatti che non finiscono sui giornali, ma accadono e sono terribili».

La direttrice racconta di una giovane trovata in un parco con un ragazzo. Uccisi entrambi, il corpo di lei si dice sia stato legato a un’auto di taleban e trascinato. «Se qualcuno sbaglia, lo puniscono fino alla morte, e appendono il cadavere a qualche incrocio, dicendo che era armato e nessuno può obiettare niente” conclude la direttrice. «Ecco come vanno le cose qui», dice Zahra. “Per loro le persone non valgono nulla». Tutto il contrario di quello che succede dentro la casa-scuola di queste donne, che al destino delle loro studentesse ci tengono eccome. Alla fine delle lezioni, ogni giorno, infilano il lungo chador e tornano alle famiglie, per ricominciare l’indomani con la loro resistenza ostinata e silenziosa.

A lezione dall’Albania, subito in soccorso del popolo afghano

A man pulls a girl to get inside Hamid Karzai International Airport in Kabul, Afghanistan August 16,...

Chi ha conosciuto questo mondo e, con fatica, se ne è liberato, oggi manda aerei in aiuto a Kabul

Quello che sta accadendo in questi giorni a Kabul è un genocidio in piena regola e sta avvenendo sotto i nostri occhi. Uomini, donne, anziani, adolescenti e bambini costretti a scappare senza meta per cercare rifugio dalle persecuzioni dei talebani che hanno conquistato Kabul. Non è un caso che questo avvenga ora; per chi non è a digiuno di storia contemporanea sa bene che la scelta di Biden di ritirare le truppe dal suolo afgano potrebbe essere pura strategia rispetto a quello che accadrà nei prossimi mesi, in un delinearsi di nuovi fronti sulla scacchiera geopolitica mondiale. Ma mentre il mondo intero rimane sgomento per i messaggi video e per le foto che ci arrivano da là, fa notizia la scelta del Premier dellAlbania, Edi Rama, di inviare aerei in Afghanistan per soccorrere la popolazione civile e offrire così un rifugio momentaneo a chi fugge la persecuzione.

Il premier albanese espone la sua scelta in un lungo post su Facebook in cui spiega le ragioni che lo hanno spinto ad agire immediatamente. Ha ricordato che in Albania trovarono rifugio gli ebrei e che nessuna di quelle duemila persone che fuggirono dal regime di Hitler venne consegnata ai nazisti. In questo modo, oltre a dare una lezione all’Occidente, Edi Rama, leader di una giovane democrazia in un paese in larga parte musulmano, ha preso anche una posizione chiara che suona come monito all’ondivago e contraddittorio ′sentiment′ diffuso nelle democrazie occidentali rispetto a quanto sta succedendo in Afghanistan: senza se e senza ma, i talebani sono i nazisti del nuovo millennio.

Mi rincuora sapere che questa volta la mia Patria natia abbia saputo dimostrare allOccidente cosa significa mettersi in gioco al di là delle trame e degli interessi politico-economici. Mi auguro che nelle prossime ore anche la mia Patria adottiva dimostri di essere allaltezza della propria Costituzione democratica facendosi parte attiva nel soccorso ai civili afgani. E mi scuso se la dico senza tanti giri di parole, ma la differenza fra due culture di morte come quella nazista e quella talebana sta solo nel fatto che per i nazisti si trattava di affermare la superiorità di una razza sulle altre, per i talebani si tratta di affermare una superiorità di genere: il vero obiettivo dei talebani è un patriarcato folle e perverso, volto all’annientamento morale e fisico della donna.

La mercificazione e la reificazione delle donne è un fatto ancestrale proprio di molte culture nel mondo. Queste abitudini inveterate non si possono, evidentemente, mettere in discussione in Afghanistan. Quelli che oggi scappano da questa terra, quelli che si aggrappano alle ali degli aerei, sono uomini e donne che si sono compromessi con gli ideali di uguaglianza occidentali e che non sono più disposti a subire una cultura criminale che accetta di far sposare bambine di 8 anni per poi seppellirle il giorno dopo la prima notte di nozze.

Mi torna in mente un film albanese che mi colpì molto (14 vjeç dhëndër”, 14 anni sposo): una famiglia  benestante, almeno rispetto alla povertà collettiva, decide di far sposare il loro unico figlio di 14 anni con una fanciulla di 20 anni, forte e robusta ma di famiglia poverissima, affinché faccia da serva in casa. La ragazza si oppone come può, scappando e salendo sul tetto di casa, minacciando il suicidio. La madre la supplica di sposarsi per dare la possibilità alle sorelle di crescere con qualche mezzo economico in più. Mossa dal senso di colpa, la giovane Marigo cede. C’è una scena del film che narra perfettamente la condizione delle donne nellAlbania rurale di quegli anni: Marigo, come tante altre donne, di ritorno dalla campagna, porta sulle spalle un carico di legna, come un mulo da soma. Due uomini, intenti a prendere il caffè, osservano con compiacimento il ritorno delle donne dai campi. Siamo gli uomini più fortunati! Al mondo non esistono donne come le nostre, dice uno. Ma l’altro gli risponde: No amico mio, non sono loro le migliori, i migliori siamo noi: servirci è il minimo che possono fare”.

Chi ha conosciuto questo mondo e, con fatica, se ne è liberato, oggi sta mandando gli aerei in soccorso a Kabul.

huffingtonpost

Afghanistan. Kabul in mano ai taleban. “Rinasce l’Emirato islamico”

Il presidente Ghani è fuggito all’estero: «I taleban hanno vinto, ora tutelino gli afghani»
Kabul in mano ai taleban. "Rinasce l'Emirato islamico"

Reuters

I taleban hanno conquistato Kabul e proclameranno a breve la nascita dell’Emirato islamico dell’Afghanistan. Senza resistenze da parte delle forza afghane, ai miliziani è stato consegnato il Palazzo presidenziale, da dove qualche ora prima era fuggito il presidente Ashraf Ghani. Sul pennone adesso sventola la bandiera talebana.

Tutto il personale dell’ambasciata americana a Kabul ha lasciato la rappresentanza diplomatica, si trova presso l’aeroporto di Kabul e i militari americani garantiscono “la sicurezza del perimetro” dello scalo, ha reso noto il Dipartimento di Stato.

I nostri connazionali evacuati dall’ambasciata italiana di Kabul, personale diplomatico e civili, si sono imbarcati sul volo di ritorno e arriveranno questa mattina in Italia.

Anche i cittadini tedeschi iniziano a lasciare Kabul. Personale dell’ambasciata tedesca nella capitale afghana è arrivato a Doha alle prime ore di oggi a bordo di un aereo americano, come riferisce l’agenzia Dpa. A bordo anche quattro persone della rappresentanza della Svizzera.

Presidente Ghani lascia paese: “Evitato bagno di sangue”
“I taleban ce l’hanno fatta a rimuovermi… Per evitare un bagno di sangue ho pensato che fosse meglio andare via”. Lo scrive in un post su Facebook l”ex presidente’ afghano Ashraf Ghani, che si sarebbe rifugiato in Tagikistan. “Oggi – scrive Ghani su Facebook – mi sono trovato davanti ad una scelta difficile: avrei potuto affrontare i taleban armati che volevano entrare nel Palazzo presidenziale o lasciare il mio caro Paese a cui ho dedicato la mia vita per proteggere gli ultimi 20 anni. Se ci fossero stati ancora innumerevoli connazionali martirizzati e avessimo affrontato la distruzione della città di Kabul, il risultato sarebbe stato un grande disastro umano in questa città da sei milioni di abitanti”.

I taleban proclameranno a breve la nascita dell’Emirato islamico dell’Afghanistan. La dichiarazione, secondo l’agenzia di stampa Press association, verrebbe fatta dal palazzo presidenziale. “Assicuriamo alle persone in Afghanistan, in particolare a Kabul, che le loro proprietà e le loro vite sono al sicuro”, ha confermato alla Bbc un portavoce dei taleban, Suhail Shaheen. “Rispetteremo i diritti delle donne. La nostra politica è che le donne avranno accesso all’istruzione e al lavoro”, ha assicurato Shaheen. “Nessuno dovrebbe lasciare il Paese, abbiamo bisogno di tutti i talenti e di tutte le capacità, abbiamo bisogno di tutti”, ha aggiunto.

da Avvenire