8 marzo Appello ecumenico contro la violenza alle donne

In occasione della Giornata internazionale della donna 2015 la Federazione delle chiese evangeliche in Italia e l’Ufficio nazionale per l’ecumenismo della Conferenza Episcopale Italianalanceranno un Appello ecumenico alle chiese cristiane in Italia contro la violenza sulle donne. La firma congiunta dell’appello avrà luogo lunedì 9 marzo presso il Senato della Repubblica alla presenza della presidente della Camera Laura Boldrini che porterà il suo saluto.

All’iniziativa aderiscono numerose chiese cristiane di diverse confessioni presenti sul territorio nazionale: oltre agli esponenti della Cei e della Fcei, firmeranno il documento anche la Sacra Arcidiocesi ortodossa d’Italia e Malta, la Diocesi ortodossa romena, l’Amministrazione delle parrocchie del Patriarcato di Mosca, la Chiesa copta ortodossa, la Chiesa armena apostolica, la chiesa cattolica ucraina di rito bizantino, la Chiesa anglicana, nonchè la chiesa cattolica nazionale polacca degli Stati Uniti d’America e Canada. 

“L’appello non è semplicemente una dichiarazione di principio dei cristiani a una sola voce contro una violenza che è stata definita un’emergenza nazionale – ha dichiarato la pastora valdese Maria Bonafede, membro del Consiglio Fcei – ma intende impegnare le chiese cristiane italiane, a livello nazionale e locale, a promuovere iniziative in campo educativo, pastorale e di testimonianza evangelica per promuovere la dignità della donna e per coinvolgere gli uomini nella riflessione su questo tipo di violenza”.

Don Cristiano Bettega, direttore dell’ufficio per l’ecumenismo della Cei, dal canto suo ha dichiarato: “La firma congiunta di questo appello porta con sè un ulteriore appello alle chiese cristiane firmatarie, e anche a chi per varie ragioni non si è unito a questa firma a più mani: l’appello acercare e trovare ulteriori occasioni per una fraternità concreta tra le credenti e i credenti in Cristo, per una comunione che sia sempre meno formale e sempre più sostanziale”.

avvenire.it

 

FESTA DELL’8 MARZO Rompere la barriera del silenzio per battere la violenza domestica

Quello che le donne – e sempre più spesso i bambini – non dicono è quanta violenza subiscono in silenzio tra le mura domestiche. Soprattutto per una concezione malata dell’amore che confonde sentimento e possesso, senza riconoscere il confine della libertà altrui. Un dramma che sempre più investe parrocchie, centri d’ascolto, associazioni perché è qui che la donna maltrattata, vinta vergogna e sensi di colpa, si rivolge per chiedere aiuto. Teme, rivolgendosi al pubblico, di perdere i figli. Le storie raccolte dal Gruppo Abele, attivo da anni nell’aiuto alle donne vittime di tratta, raccontano drammi nascosti che toccano anzitutto le straniere prostituite.

Come Nadia, giunta in Italia da un paese dell’Est con la promessa di un lavoro, ma obbligata a lavorare in strada schiava di una banda criminale. Conosce Vito, un connazionale che l’aiuta a uscire dal giro. All’inizio sembra facile, lavorano entrambi e decidono di avere un bambino. Nasce Cristina. La situazione economica però precipita. Vito è sempre più nervoso e diventa particolarmente possessivo. Teme che Nadia lo tradisca e nonostante lei lo rassicuri, le rinfaccia sempre più spesso che lei era una poco di buono. La tensione crescente sfocia in aggressioni fisiche sempre più frequenti e brutali. Consigliata da una collega di lavoro, si rivolge alla polizia municipale di Torino che l’aiuta a fuggire con la figlia. Nadia arriva in comunità e per lei e la bambina comincia un lungo percorso di consapevolezza che ciò che stava accadendo era qualcosa di sbagliato e che l’amore è fatto di altre cose.

Il problema non riguarda solo le fasce marginali, è diffuso e sommerso. Secondo un’indagine choc dell’Istat datata 2006 – l’unica disponibile – in Italia erano 6 milioni e 743mila le donne tra i 16 e i 70 anni che dichiaravano di essere state vittime di violenza fisica o sessuale nel corso della loro vita. Violenze che nella maggioranza dei casi provenivano da partner e familiari. Violenze coperte da silenzio e vergogna, quasi che la colpa fosse della vittima.

«Un gran numero di donne –  spiega Ornella Obert, referente dell’area Vulnerabilità del Gruppo Abele – non parla delle violenze subite. Solo il 18% considera reato quanto subito, il 44% lo considera sbagliato, il 36% qualcosa che è successo. Senza contare i danni subiti dai bambini picchiati o che assistono alle violenze sulla madre. Tendono infatti a replicare quanto visto e già nell’adolescenza picchiano le madri. Perciò chiediamo che sia inserito nel codice penale il reato di violenza assistita sui minori».
Perché le vittime non parlano? «Senta, in Italia qualche anno fa trasmissioni di intrattenimento quasi giustificavano lo stalking. Gli uomini che odiano le donne invece sono malati, la provincia di Torino ha aperto un centro per maschi con problemi relazionali con l’altro sesso, ascoltandoli affiora la sofferenza. Ma siamo agli inizi».

Per Mirta Da Pra Pocchiesa, giornalista ed esperta del Gruppo Abele, è strategica la formazione delle forze dell’ordine che devono essere preparate ad intervenire adeguatamente quando rilevano violenze nelle case.
«E serve un’alleanza con il privato sociale per prevenire, proteggere e punire anche la violenza sui bambini. Nel caso delle donne straniere la battaglia è impegnativa. Occorre rompere l’isolamento culturale che le porta a ritenere normale l’amore violento».

 

Paolo Lambruschi – avvenire.it
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A quando le pari opportunità?

La parità, per le donne, è ancora attesa nella ricerca dell’occupazione, nei ruoli in ambito lavorativo, in politica, nella scienza. Ecco i dati di una ricerca del Cnr.

08/03/2013

Dove sono finite le pari opportunità in Italia? A questa domanda ha cercato di rispondere l’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del CNR, attraverso la pubblicazione dell’inchiesta/ricerca di Rossella Palomba, demografa sociale, professore associato dell’Istituto che lavora da anni sulle problematiche di genere e di lavoro femminile. Attraverso la ricostruzione delle tappe di quelle che sono state le conquiste principali a favore delle donne, a partire dallaLegge sul congedo di maternità emanata nel 1950, a quella del 1981 sulla fine del delitto d’onore, per arrivare al 1996 quando con la nuova legge sulla violenza sessuale lo stupro è diventato un reato contro la persona e non più contro la morale, si arriva a parlare della situazione attuale del nostro paese dove, purtroppo, le discriminazioni di genere sono ancora fortemente presenti.

La parità, infatti, è ancora attesa nella ricerca dell’occupazione, nel riconoscimento dei ruoli in ambito lavorativo, in politica, nella scienza. Insomma, pur essendo l’Italia un paese sviluppato ed evoluto dal punto di vista delle leggi e del diritto, il traguardo delle pari opportunità reali fra i sessi è ancora estremamente lontano. «Si è parlato davvero di pari opportunità in questa campagna elettorale?», si è chiesta la ricercatrice. «Parità è anche una questione di democrazia e di economia ma qui i conti non tornano». Sì perché dall’ultimo Report sulGlobal Gender Gap 2011, il nostro paese è messo malissimo: siamo solamente al 74esimo posto, al 90esimo per occupazione femminile, al 121esimo per parità salariale e al 97esimo per incarichi al vertice. Significativo è anche il dato sull’occupazione femminile: è fra i più bassi (46%), risultando peggiore di quello della Romania e della Bulgaria.

Considerato che risale al 1977 la legge sulla parità di trattamento sul lavoro, siamo veramente indietro. Sul fronte lavoro e parità, si registra anche un divario retributivo fra uomini e donne del 10%. Per non parlare dei riconoscimenti delle competenze. Per fare un esempio, in banca solo lo 0,36% ha qualifica di dirigente, contro il 3% degli uomini. Questo nonostante le italiane brillino negli studi ma fra la carriera e le donne rimane l’ostacolo della conciliazione fra lavoro e famiglia. Una donna su due non lavora se ha un figlio e oltre metà delle interruzioni dell’attività lavorativa dopo la nascita di un figlio sono imposte dai datori di lavoro (fonte Istat). «Lavoro e maternità in Italia sono meno conciliabili che in qualsiasi paese europeo», è il commento di Palomba.

Ma deteniamo anche un altro triste primato europeo: il carico di lavoro non pagato dovuto alla famiglia, pari a 5 ore e mezzo al giorno. Si stima che se venisse eliminata la disparità uomo-donna in Europa si potrebbe avere un incremento del PIL fra il 15 e il 40%. Insomma, una vera e propria opportunità di crescita sociale. Per capire meglio la gravità della situazione, sulla base dei ritmi di miglioramento attuali, la parità fra dirigenti uomini e donne ai ministeri sarà raggiunta solo nel 2037, all’università nel 2052, in sanità nel 2087 nella magistratura nel 2425. Dunque, se il ritmo degli ultimi 20 anni rimarrà inalterato, occorreranno letteralmente dei secoli per raggiungere questa parità. Per correre ai ripari, una politica che metta le pari opportunità tra i punti cruciali della sua agenda.

 

Alessandra Turchetti

8 Marzo: Il Concilio fu anche «rosa»

Più che ricordarle, «forse bisogna cominciare a conoscerle»: le tredici laiche che parteciparono come uditrici al Concilio Vaticano II, addirittura più numerose delle suore (dieci), «non sono figure da tappezzeria, ma donne di spessore», evidenzia Cettina Militello, docente alla facoltà teologica del Marianum, dove domani, venerdì 9, e sabato 10 un seminario approfondirà i profili di quattro uditrici: Alda Miceli, Rosemary Goldie, Pilar Bellosillo e Marie-Louise Monnet.

L’evento si inserisce nel ciclo di lezioni pubbliche promosso dalla cattedra “Donna e cristianesimo” del “Marianum”, in collaborazione con il Coordinamento teologhe italiane, che ha acceso da tempo i riflettori sulla presenza femminile alla storica assise. Il mese scorso, ricorda la presidente del Cti Marinella Perroni, che domani interverrà al seminario, «ci siamo ritrovate per il secondo anno consecutivo a riflettere sul Concilio, stavolta con un focus sulle consacrate che parteciparono ai lavori. Abbiamo registrato un centinaio di partecipanti: segno che l’argomento continua a suscitare l’interesse delle studiose e delle teologhe, ma non solo». E sulle uditrici uscirà a settembre un volume firmato dalla storica Adriana Valerio.

Durante il Vaticano II, che prese il via nell’ottobre di cinquant’anni or sono, fu Paolo VI – succeduto nel 1963 a Giovanni XXIII – a nominare 23 uditrici: una novità assoluta, un gesto a dir poco profetico. Fra loro, una sola italiana: Alda Miceli, come unica rappresentante degli istituti secolari: era membro delle Missionarie della Regalità di Cristo. Nata nel 1908 a Longobardi, in provincia di Catanzaro, impegnata tra le fila della Gioventù femminile di Azione cattolica, scriverà: «L’esperienza del Concilio, straordinariamente ricca per me, diede al nostro Istituto l’occasione di rivelare questa nostra forma di vita consacrata nel mondo, ancora ignorata dalla maggior parte dei vescovi presenti».

A sintetizzare lo spessore di questa figura, Renata Natili, docente alla Pontificia Università della Santa Croce: Alda, scomparsa a novant’anni, «ha creduto nei segni della storia e li ha cercati con lo slancio della speranza, al di là di tutte le inquietanti vicende di una società in travaglio e di una Chiesa in nuovo dialogo col mondo», sottolinea. Con passione e dinamicità fuori dal comune: animava con impegno «catechesi e alfabetizzazione della gente rurale» in tutta la Calabria, diffondendo l’Azione cattolica. E padre Agostino Gemelli la chiamò a far parte del Consiglio di amministrazione dell’Università Cattolica, dopo la morte di Armida Barelli.

Insomma, l’apparenza inganna: «Vestite di nero e con il velo in testa, le laiche uditrici furono scelte non per rappresentanza, ma per le loro qualifiche e il loro ruolo: erano battagliere, altro che santini», rimarca Cettina Militello, rilevando che appartenenze ecclesiali e personalità «molto diverse fra loro, come emerge dal loro impegno precedente e successivo nella Chiesa, rappresentarono una indubbia ricchezza durante i lavori. Anche se non potevano intervenire nella plenaria, infatti, diedero un ricco contributo nelle commissioni: hanno partecipato, ad esempio, alla stesura della Gaudium et spes».

Citate dai padri e dai periti conciliari nei loro diari, «le uditrici finirono per partecipare a tutti i lavori, senza difficoltà ad indicare che la prassi può superare la prudenza», osserva Natili. Un esito insperato, visto che «le donne, come del resto gli uomini laici, non erano state coinvolte nella consultazione preparatoria del Concilio. Nemmeno le religiose».

La svolta avverrà nel ’64: «Gli inviti per le uditrici partirono il 21 settembre, quando la terza sessione era cominciata da una settimana, e il 25 settembre entrò in San Pietro la prima donna uditrice: Marie-Louise Monnet (1902-1988), fondatrice in Francia dell’ “Action catholique des milieux indépendants”, una sorta di Azione cattolica “specializzata” per determinati ambienti sociali. Nel Discorso di apertura del terzo periodo del Vaticano II, pronunciato il 14 settembre, Paolo VI si era espresso così a riguardo delle uditrici: «Salutiamo gli uditori presenti, di cui conosciamo gli alti sentimenti e i meriti insigni.

Le nostre dilette figlie in Cristo, le donne uditrici, ammesse per la prima volta ad assistere alle assemblee conciliari». Fra loro, Pilar Belosillo (1913-2003), presidente della “World Union of Catholic Women Organisation”. Rosemary Goldie, australiana di origini, classe 1916, scomparsa nel 2010, «si definiva “reliquia del Concilio”: lei e le altre se ne fecero portatrici, con uno stile fatto di mitezza e di dialogo appassionato, mai frettoloso», aggiunge Militello, che conobbe personalmente Rosemary.

Approdata a Roma nel 1952, chiamata a far parte del Comitato permanente per i Congressi internazionali per l’apostolato dei laici (Copecial), Goldie sarà scelta nel ’67 come membro del “Consilium de laicis”, frutto conciliare, di cui sarà sottosegretario per un decennio. L’eredità delle uditrici laiche? Misconosciuta forse, ma sicuramente preziosa: «Ad Alda Miceli e alle donne che le furono compagne, anche se sconosciute alla memoria della storia – assicura la professoressa Natili – dobbiamo tutto quello che siamo».

Laura Badaracchi – avvenire.it