Sul matrimonio e sulla famiglia. Camminare insieme

La scelta matrimoniale è libera e assolutamente personale. Altrimenti, si rischia
di chiedere a chi ci ama ciò che mai sarà in grado di offrirci. E così rimarremmo
vittime di meccanismi subdoli e infidi, che non fanno crescere la coppia.

Gli sposi sono Anna e Giuliano Natale, di Altamura (Ba, (foto NICOLA CENTODUCATI).

Gli sposi sono Anna e Giuliano Natale, di Altamura (Ba, (foto NICOLA CENTODUCATI).

All’itinerario di approfondimento del consenso matrimoniale, si aggiunge questa tappa sull’accoglienza dell’altro, dell’altra come proprio sposo, come propria sposa. L’articolo scorso (VP 8/12, p. 65) si concludeva affermando che non ci si può sposare se non si è in grado di camminare con le proprie gambe, sperando, o peggio, pretendendo che l’altra persona ci salvi. Né ci si può sposare perché «lo si vuole fare per lui, per lei», fraintendendo in modo colossale il vero significato del “venirsi incontro”. La scelta matrimoniale è libera e assolutamente personale. Altrimenti, appunto, si rischia di chiedere a chi ci ama proprio quello che mai sarà in grado di offrirci e così rimarremmo vittime di frustrazioni croniche, di certa solitudine, rendendo il matrimonio l’ennesima via attraverso la quale far crescere il proprio egocentrismo, persi in meccanismi psicologici subdoli e infidi che non portano alla crescita della coppia, ma alla continua evidenza delle mancanze di uno nei riguardi dell’altra, e viceversa.

Un'altra foto degli sposi (foto CENSI).

Un’altra foto degli sposi (foto CENSI).

Partire con il piede giusto

Questo gioco – che usa l’amore di un coniuge per confermare il valore dell’altro e non per costruire la bellezza di una nuova realtà umana e spirituale che prima non esisteva – è tirannico e solipsistico: anziché distruggere l’insicurezza e la paura dell’abbandono (con i quali si fanno sempre i conti), li amplifica, ingigantendo delusioni e reazioni, allontanando i coniugi in uno spazio di incomunicabilità, dove ogni aspetto della vita insieme perde di spontaneità, di semplicità, di serenità, di gratitudine, per avvitarsi in una spirale d’insoddisfazione e di rammarico fatta di «tu non mi capisci…», di «avresti dovuto saperlo…», di «non sono cose che ti riguardano…», ecc., da cui poi è davvero difficile uscire. Per evitare tutto questo, è necessario partire con il piede giusto, cioè non chiedere a colui, colei che si intende sposare di essere la risposta a tutte le proprie domande, di saper riempire tutte le proprie voragini, di intuire anche solo con l’immaginazione desideri e aspirazioni, di saper prevedere ogni esigenza anche quelle non dette, come se questi fossero i segni del vero amore. Non è vero, non sono questi i segni del vero amore; se lo fossero, tutti coloro che in coscienza possono affermare di amare mentirebbero, perché gli elementi appena elenc a t i fanno parte dell’immaginario, dell’irrealistico, dell’irrealizzabile in quanto sostanzialmente “non-umano”. Mio marito spesso mi ricorda che «non ha la palla di vetro» e ha ragione: tutto quello che non è detto, non è comunicato, non è condiviso, non è chiesto, difficilmente può essere integralmente compreso. Forse, a volte e comunque in parte, intuito, ma mai conosciuto fino in fondo. Può accadere perciò che le aspettative che si hanno sulla vita di coppia, o più specificamente matrimoniale, siano ingigantite fino a comprendere aspetti privi di fondamento, troppo romantici nella loro non-verosimiglianza, e in alcuni casi decisamente stucchevoli, salvo poi a tramutarsi in rammarico, amarezza e a volte profondo astio se le aspettative di cui sopra sono disattese (e questo accade, come detto, con certezza).

Il vero amore è riconoscibile

Quali sono allora i segni del vero amore? Mi viene in mente quella parola di Gesù «dai frutti li riconoscerete » (Mt 7,16). Il vero amore più che essere descrivibile è riconoscibile. E si riconosce in primissima battuta dall’accoglienza reciproca e da come essa si realizza ordinariamente, sia nella vita matrimoniale, sia quando gli sposi sono in pubblico, insieme ad altri, amici, parenti, gente conosciuta e non. È il tenore dell’accoglienza reciproca che fa dire agli sposi stessi e a chi li frequenta, come anche solo a chi li guarda, se fra loro è presente il vero amore. Accogliere, accoglienza, sono parole oggi estremamente abusate, il cui significato profondo ed esigente però è per lo più sconosciuto e per questo fuori moda. Tale fraintendimento può essere spiegato con una semplice constatazione: l’accoglienza non è qualcosa che si può pretendere, ma è qualcosa che si sceglie di dare. Infatti, nel consenso matrimoniale non si dice «mi aspetto che tu mi accolga», ma «io accolgo te». È un verbo attivo, non passivo. L’accoglienza non è pretesa dall’altro, ma si offre per primi come scelta personale. Appare in effetti chiaro che una volta detto «io accolgo te», lo si faccia proprio indipendentemente da quello che farà l’altro. L’accoglienza così espressa è senza condizioni, «senza sé e senza ma», non segue dal comportamento altrui e non ci sono deroghe ai gesti dell’accogliere. Certo è che se una coppia di coniugi accogliesse solo una delle due parti, sarebbe davvero complicato e doloroso; infatti, la formula del consenso matrimoniale prevede saggiamente che la stessa serie di espressioni verbali siano scelte e dette da entrambi, prima uno, poi l’altra. L’accoglienza così intesa, infatti, non può e non deve essere solo sulle spalle di un coniuge, altrimenti sarebbe come se si costruisse una casa su “mezze” fondamenta: crollerebbe, perché da una parte ci sarebbe sotto il vuoto. Nell’accoglienza ciascuno fa la sua parte e quella parte è ad esclusivo suo appannaggio, è insostituibile: solo così la casa sta in piedi. Questo è motivo di grandissimo impegno, perché accogliere l’altro non è cosa di poco conto. Anche solo procedendo a una ricerca sul dizionario italiano – senza interrogare manuali di teologia morale – si legge che “accogliere” significa: ricevere, ospitare, accettare, esaudire, includere. A ben guardare ciascuno di questi verbi esige uno specifico comportamento nei riguardi dell’altro che – dal momento che lo si è scelto – deve mettersi in campo. E per capire ancora meglio, il consenso matrimoniale dice che l’accoglienza è data all’altro/altra “come sposo/sposa”. L’etimologia del termine “sposo” indica che discende dal participio passato del verbo latino spondere che significa “giurare”. In definitiva, allora, accogliere come sposo, sposa significa «ti ricevo come colui, colei che ha giurato (il medesimo giuramento nei miei riguardi) ». Di fatto, è un vero e proprio patto, nobilissimo ed esigentissimo, che richiede l’impegno di tutte le facoltà dell’uomo e della donna che scelgono di attuarlo.

Accoglienza e rispetto reciproco

Nell’accogliere l’altro, allora conta moltissimo la costante consapevolezza che egli, ella abbia giurato di mantenere fede allo stesso impegno che ho scelto di onorare io. Non si può quindi “cacciare” (uno dei contrari del verbo accogliere) chi ha giurato eternamente di accogliere me. L’accogliersi reciprocamente, quindi, lega gli sposi in modo indissolubile fin dalle parole che usano nella cerimonia e lo fa non per legge – o almeno non solo – ma per libertà e per amore. L’accoglienza, allora, impone, ma va regolarmente “oltre”, il rispetto reciproco, l’obbligo a rivolgersi la parola con educazione e gentilezza (anche quando ci si scontra), l’esercizio della pazienza, dell’attesa dei tempi dell’altro, il sostegno reciproco, l’ascolto, ecc. Ma più di tutto impone la gratitudine, quando si è oggetto di attenzioni da parte del coniuge e le scuse, quando si sarebbe potuto fare un passo in più verso l’altro, l’altra e si è stati trovati manchevoli in questo. L’accoglienza così vissuta, in modo ostinato e senza tirarsi indietro, cementifica la coppia matrimoniale e la dispone a celebrare ordinariamente l’eternità della promessa sponsale, aprendo le porte alla bellezza del matrimonio che fa dei due «un cuore e una carne sola». Nel prossimo articolo si rifletterà sulla stupefacente concretezza delle parole che vengono di seguito nel consenso matrimoniale: «E con la grazia di Cristo, prometto di esserti fedele sempre». Ma voglio sottolineare quanta sapienza si trova anche nell’ordine delle frasi che recitano gli sposi: prima della fedeltà per sempre, viene la scelta dell’accoglienza dell’altro, come a indicare che quest’ultima è il necessario fondamento di tutto il resto. Senza l’accoglienza, sarebbe davvero come costruire la casa sulla sabbia: «Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e la sua rovina fu grande» (Mt 7,27).

Emilia Palladino – vita pastorale novembre 2012