Storia di una città mondo. Gerusalemme dall’età del bronzo a oggi

L’Osservatore Romano

(Dario Fertilio) «L’anno prossimo a Gerusalemme!»: chi non si propone di visitarla almeno una volta nella vita? E se questa è la promessa rituale che gli ebrei si scambiano in occasione della Pasqua, una chiamata prima o poi arriva per tutti. Dopo la Gerusalemme celeste viene quella terrestre, almeno nei desideri.
I dubbi si presentano, tuttavia, al momento di partire. Ci frenano impegni, timore di attentati, le incertezze politiche di cui sono piene le cronache. E poi il dubbio su quel che troveremo. Un senso di delusione è presente in molti racconti di viaggiatori che hanno raggiunto la città santa durante i secoli, disorientati dalla apparente normalità di un luogo concepito come meta finale di ogni pellegrinaggio. Il continuo sovrapporsi dell’una e dell’altra dimensione, reale e immaginaria, è il fulcro di Gerusalemme, storia di una città mondo (Torino, 2017, pagine 336, euro 30), il libro firmato per Einaudi da quattro ricercatori francesi — Vincent Lemire, Katell Berthelot, Julien Leiseau e Yann Potin — in cui si ripercorrono le migliaia di anni trascorsi dalla fondazione.
Si comincia con l’età del bronzo, quando c’è solo «una fortezza intorno a una sorgente». Quindi scorrono nella narrazione le tante culture e dominazioni, egiziana, hittita, cananea e finalmente ebraica, e ancora persiana, ellenistica, romana, e poi, dopo la distruzione del Tempio israelita, bizantina, islamica, franca. Ogni epoca coltiva le sue intolleranze, il disprezzo per chi l’ha preceduta, l’ambizione di ripartire dall’anno zero, restaurando una presunta autenticità. Nessuno, nemmeno i crociati, sfugge a questa furia annientatrice delle differenze.
Ma la sorpresa per il lettore viene dal racconto della lunga “pace ottomana”, che sotto le insegne imperiali, fra il 1516 e il 1917, sembra garantire agli abitanti la stabilità e un regime in certo modo tollerante. Tra la costruzione delle mura di Solimano, nelXVI secolo, e il crollo dell’impero turco sotto i colpi della prima guerra mondiale, Gerusalemme non conosce la generica decadenza illustrata di solito dalla storiografia occidentale, ma piuttosto un processo di lenta aggregazione inter-confessionale e inter-etnica, sorvegliata certo dal dominio occhiuto e assolutistico turco, tuttavia avviata verso una fattiva collaborazione comunitaria e civile. L’impero ottomano considera Gerusalemme una città santa, ma di rango inferiore rispetto alla Mecca, Medina o Hebron. Le autorità imperiali autorizzano in linea di principio i pellegrinaggi di tutte le religioni ai loro rispettivi santuari, pur vietando le manifestazioni troppo vistose e la costruzione di nuovi luoghi di culto. Privilegiata dal punto di vista fiscale, ma politicamente periferica, Gerusalemme può giovarsi della commistione tra le sue varie anime, armena ed ebraica, turca, latina e greca, mentre imam e dervisci si mescolano liberamente ai rappresentanti degli altri culti. È come se l’ideologia ottomana intendesse far da bastione alle rivalità nazionaliste, riuscendo ad ottenere un consenso crescente.
Il culmine di questo processo — per ironia della storia — viene toccato con la rivoluzione dei Giovani Turchi, portata a termine nel 1908. L’uovo del serpente nazionalista che prelude al genocidio degli armeni non è ancora dischiuso, e la città coglie solo i proclami laici e liberali, scende in piazza e ostenta la coccarda rossa e bianca costituzionale, senza distinzioni di appartenenza. In uno slancio effimero di fraternità laica, ci si abbraccia e si visitano i santuari un tempo sbarrati ai miscredenti. Cresce addirittura una tendenza alla “ibridazione” dei luoghi sacri, un fenomeno sino a quel momento ostacolato dalle comprensibili diffidenze reciproche. Il processo ricorda il crogiolo mitteleuropeo: la nascita di una borghesia in grado di prosperare ed esprimersi nelle diverse lingue.
Ma la modernità — come succede del resto all’impero viennese — irrompe con violenza al crollo dello Stato ottomano. Appare subito chiaro che il diritto di autodeterminazione dei popoli, sostenuto dal presidente americano Wilson, non è applicabile a una popolazione multireligiosa, dai confini linguistici incerti, diffusa in tutti i quartieri. Allora il protettorato britannico, cui è consegnata la città dal 1917 al 1948, provvede a cambiare le cose. Già nella dichiarazione Balfour, destinata a diventare famosa e gravida di conseguenze, si punta sul divide et impera: gli ebrei hanno il diritto di stabilire in città un loro “focolare nazionale”, gli arabi di mantenere i “loro diritti civili e religiosi”.
È a questo punto che Gerusalemme perde la sua occasione storica: la possibilità di una internazionalizzazione, ossia una gestione civile sovranazionale che avrebbe smorzato gli estremismi, consentendo il formarsi di un’identità sociale integrata, su base laica. Ma gli inglesi temono che una scelta simile favorisca i rivali francesi, e per consolidare il loro potere agiscono all’opposto: spingono ebrei ed arabi verso identità e luoghi di residenza separati, quindi abbattono la Torre dell’Orologio, simbolico monumento urbano interconfessionale. Seguono i primi scontri fra ebrei sionisti e arabi nazionalisti, preannunciando i conflitti di oggi. Presto le Gerusalemme diventeranno due, e il nuovo potere israeliano, stabilitosi dal 1948 nei quartieri ad Ovest, imporrà fra sé e gli altri una spettrale e invalicabile terra di nessuno.
Le conseguenze geopolitiche saranno pesanti: l’Ovest guarderà alle democrazie europee, l’Est al deserto giordano e agli autoritarismi arabi. Non ci saranno più cittadini di Gerusalemme, ma israeliani o palestinesi, specularmente decisi a imporre la capitale del loro rispettivo (e incompatibile) Stato nazionale. Nel 1967 la conquista israeliana dell’intera città prelude alla successiva strategia dell’espansione a est, con gli insediamenti che creano il fatto compiuto. Ma Israele non riuscirà mai a cancellare il confine urbano, e mentale, che separa le anime.
La storica visita di Paolo VI nel 1964 — stranamente lasciata ai margini dagli autori del libro — rappresenta forse l’ultimo grande tentativo di restituire un avvenire condiviso e internazionale alla città, rimettendo in moto quel processo di comprensione reciproca e assimilazione tra le varie identità etniche e religiose che era stato interrotto dalla Grande guerra. Nei decenni successivi gli opposti integralismi imporranno progressivamente a Gerusalemme una scenografia mitologica e mediatica globale: ogni sasso di Intifada ricorda la sfida di Davide a Golia, ogni attentato arabo richiama l’antisemitismo nazista, in una narrazione che allude costantemente al peggio ancora da venire.
Il progetto di separare la dimensione religiosa dall’impegno civile laico, favorendo i contatti e i commerci sulla base di un comune senso di cittadinanza, resta un desiderio inespresso. Manca l’autorità sovranazionale in grado di garantirlo, benché sia chiaro che in questa direzione si debba agire.
Il realismo politico amorale delle grandi potenze, unito all’estremismo nazionalistico delle parti in lotta, rischia di far pagare il prezzo più elevato alla pedina sacrificabile, il cittadino comune di Gerusalemme, con i suoi desideri, le sue necessità e la sua fede.
L’Osservatore Romano, 23-24 febbraio 2018