Si può e si deve resistere all’ingiustizia senza violenza. Sarà utopico, ma non è impossibile

«Libertà va cercando ch’è si cara, che ben sa chi per lei vita rifiuta» (Purgatorio I, 70-72), così Dante a proposito di Catone, che scelse la libertà piuttosto che la vita. Il dilemma e la crisi di coscienza non nascono quando da una parte c’è un valore e dall’altro un conclamato disvalore, ad esempio la pace e la guerra, ma allorché confliggono due valori fondamentali come quelli della vita e della libertà. Ora, finché si tratta della propria vita e di metterla a repentaglio perché la mancanza di libertà si ritiene insostenibile (come per Catone), nulla o quasi da eccepire, ma se si tratta della vita degli altri, ovvero degli innocenti? Siamo così sicuri che avrebbero scelto di morire?

Ecco che ancora una volta torna il tema del dolore innocente, tipico della teodicea, solo che qui e ora non si tratta della volontà di Dio che lo permetterebbe, ma dell’uomo (se così si può chiamare) che perpetra il male e provoca il dolore. La realtà dura e cruda è che ogni giorno di guerra procura nuove ferite mortali all’umanità innocente di bimbi e donne. E dobbiamo chiederci se armare ulteriormente, con azioni e parole, la resistenza ucraina non incrementi tali effetti nefasti, prolungando la guerra.

Il paragone con la Resistenza italiana verso il nazifascismo non regge per una serie di motivazioni, la più importante delle quali riguarda il fatto che i partigiani mettevano in gioco le loro stesse vite per la libertà. Noi occidentali stiamo, invece, usando le vite degli altri. Non si tratta di essere pacifisti ideologici e a ogni costo, ma di scegliere la vita come valore che precede la stessa libertà, almeno quando si tratta degli innocenti. Il nostro Dio è il Dio della vita, che insieme a essa ci dona la libertà, che da morti certo non potremmo esercitare. Ancora una volta ci viene incontro Gesù di Nazareth: «…quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» (Mt 14, 31-33). E c’è ancora chi pensa che il Vangelo sia utopico! Invece è estremamente realistico, perché una guerra che non si risolve in tempi brevi e col minimo coinvolgimento di vittime civili e innocenti, è comunque e da tutti persa. E questa guerra la stiamo già perdendo tutti proprio perché la violenza si abbatte sui bambini, le donne, gli indifesi e coloro che manifestano per la pace, non solo sulle milizie in campo.

In ogni caso sembrava ormai acquisito, almeno nella nostra cultura occidentale (e come il direttore di questo giornale ha ricordato domenica 6 febbraio), il superamento del concetto di «guerra giusta», soprattutto al cospetto del nucleare e dei suoi esiti apocalittici. Di fatto tale sintagma viene evocato e messo in campo soprattutto da quanti, come Tikhon Shevkhunov, metropolita ritenuto il vero e proprio padre spirituale di Vladimir Putin, ritengono che debba essere sempre e comunque dichiarata guerra all’Occidente liberaldemocratico, in quanto corrotto e ormai irrecuperabile.

Abbreviare i tempi della guerra e accelerare quelli della tregua, se non della pace, dovrà essere l’obiettivo dei popoli e dei Paesi occidentali, nella consapevolezza che ogni incremento di armamenti (armi, aerei e altro), al contrario, prolunga la guerra e allontana la pace, ponendoci ogni giorno di fronte al bilancio tremendo di vittime innocenti. Armare una parte, sia pure quella che si ritiene ferita e nel giusto, significa offrire all’odio verso il nemico ulteriori possibilità. L’etica evangelica impone di riporre la spada nel fodero, di porgere l’altra guancia e persino di amare i nemici. Si può e si deve resistere all’ingiustizia senza violenza. Sarà anche utopico, ma non è impossibile.

Occorre inoltre riflettere sulla modalità della gestione delle sanzioni: invece che isolare pienamente l’aggressore in maniera non violenta, ci siamo innanzitutto preoccupati del nostro benessere e della salvaguardia dei nostri interessi circa le materie prime da proteggere in ogni caso, anche se provenienti da chi sta perpetrando veri e propri delitti non solo contro quanti considera nemici, ma anche verso le giovani reclute russe, che, inviate al fronte, si trovano impacciate dal punto di vista tecnico, ma anche incapaci di rispondere alla domanda degli aggrediti: ma perché lo state facendo? Che male vi abbiamo procurato? Loro pensavano di essere stati inviati prima a una serie di esercitazioni, quindi a una operazione militare (che invece papa Francesco chiama col suo proprio nome «guerra»), tesa a liberare il popolo ucraino da una fantomatica dittatura nazista. Quanta delusione e amarezza nei loro cuori e nelle loro menti, neppure possiamo immaginare!

Nel frattempo, il semplice cittadino o colui che chiamiamo ‘uomo della strada’ cosa può e deve fare? Se credente, pregare, altrimenti riflettere e non seguire la pura emotività o la logica della contrapposizione binaria fra bene e male, vero e falso, pace e guerra. In secondo luogo, manifestare in maniera pacifica, ma efficace, alla maniera del Mahatma Gandhi, o se si vuole di Aldo Capitini, contro ogni violenza, non solo militare, ma persino verbale e culturale. Infine, solidarizzare, ossia esprimere vicinanza concreta ai profughi e ai derelitti, siano di pelle bianca o scura, siano cittadini ucraini o di altri Paesi, siano adulti o ragazzi o donne o bambini, perché la civiltà di un popolo si valuta per la sua capacità di ospitalità e accoglienza nei confronti dell’alterità, soprattutto dei più fragili.

di Giuseppe Lorizio – Avvenire