Se per un credente il Sabato Santo è tempo di silenzio e raccoglimento, per un agnostico la morte è un orizzonte di meditazione

IL SABATO SANTO E LA SPERANZA CRISTIANA | Civico93 | Be original

Uno dei fili rossi del percorso quaresimale è quello che si dipana lungo una lenta meditazione sulla nostra mortalità e sulla morte in generale (qui), ma anche sulle nostre strategie per evitarla o aggirarla – pur quando manifestiamo grande sofferenza di fronte ad essa (qui). D’altronde, non è facile prendere di petto la morte, parlarne direttamente. Per questo mi ha colpito, ma non sorpreso, la scelta di Caparezza di dedicarle una canzone, seppur velandola con fine ironia e garbo linguistico: essa resta l’innominata, ma anche l’unica cosa certa della Vita: «mi hanno dato tanti appellativi / ma tu chiamami “La Certa”».

Sono almeno tre i livelli di relazione con la morte che si sovrappongono nei versi di Michele Salvemini.

Un primo livello è quello sperimentato dall’essere umano – ad esempio nella festa di Samhain (più nota come Halloween) – quando teme il potere invincibile della dama in nero con la falce: «mi vedi come la cattiva, la tenebra, la maldita, la dea che fa la bandita». E, non potendola spaventare, cerca in qualche modo di placarla: «smettila di mandarmi fiori / tanto mi azzanneresti come i cani fuori». Se “l’operazione Halloween” non riesce, si passa piano piano alla rimozione della morte stessa: «quando stai male sono la tua litania / ma quando il male passa divento una tassa, una tirannia / spinta nella massa che mi tira via». Questo atteggiamento, però, costituisce agli occhi di Caparezza più una sorta di sopravvivenza nella caverna di platoniana memoria che una vita pienamente vissuta: una vita passata «nelle ombre degli inganni», al termine della quale rischiamo fortemente di partire con le «valigie colme di rimpianti».

D’altra parte, è veramente possibile rimuovere la morte se «ogni trama e tessitura (…) parla di me / che sono l’unica realtà evidente», se «è a me che va il pensiero / più che al cielo del Nabucco»? Il rapper pugliese propone, quindi, un secondo livello di rapporto con la morte, più schietto e verace. Grazie ad esso comprendiamo e accogliamo, da un lato, l’imprevedibilità ed inevitabilità della morte – «altro giro di lancetta / io matura, io l’acerba», «di sicuro sarai mio, sì, puoi contarci», «io sono il tuo futuro (…) / non puoi mandare i piani in fumo»; dall’altro lato, la profonda trasparenza ed onestà della morte stessa – «sono vera e senza trucco», «non puoi comprarmi / nemmeno con tutti gli ori dei Nibelunghi».

Si comprende allora perché, se «la vita è un lampo e tu ci arriverai in ritardo / come fanno i tuoni», Caparezza ci esorta, attraverso la morte stessa, a vivere con qualità il tempo a disposizione: «guarda avanti, non voltarti, rubami il tempo possibile». Ciò comporta un terzo livello di relazione con la morte: quello in cui essa è capace di renderci migliori, non solo in senso ironico – poiché «quel giorno sarai migliore, quasi per tutti» – ma anche in un senso più realistico. Essa ci rende più consapevoli, innanzitutto, dei nostri limiti: «quando arrivo così nuda / abbassi gli occhi, “Texas hold’em”», «vengo a riportarti coi piedi per terra / anche se voli così alto che calpesti droni»; in secondo luogo, ci ricorda la nostra radicale eguaglianza – «tutti giacciono con me / da chi va nei posti in tuta / a chi ha diamanti nei collier». In entrambi i casi, quindi, potrebbe determinarsi in noi, sia una maggiore capacità di resistere ai vari narcisismi deliranti di onnipotenza (e perciò spesso violenti se non guerreschi), sia un maggior desiderio di vivere in pienezza piuttosto che di sopravvivere:

«voglio solo schiodarti dalla panchina / voglio vederti giocare la tua partita / ringraziami / che se fossi svanita (…) avresti l’anima spenta, l’anima grigia / ho dato io il tuo senso a tutto»; «prima che l’uscio si chiuda / voglio che tu viva la tua vita proprio come se ne avessi una / ti immagini non ci fossi? / di sicuro non avresti combinato la metà di niente / sono anni che ti sprono a dare il meglio».

In definitiva, anche (o forse proprio) in questo tempo “aliturgico”, l’agnostico Caparezza e un cristiano del Sabato Santo – se volessero – potrebbero incontrarsi e comprendersi meglio alla luce della grande tradizione spirituale del memento mori, della memoria della morte intesa come meditazione sulla morte e a partire dalla morte: «leggimi dentro come i grandi tomi», «pensami, non cercarmi», «pensami, non cercarmi» – canta Caparezza. Entrambi, forse, potrebbero scoprire di parlare una lingua – e di praticare una vita – molto più vicine di quanto possano immaginare: quanta distanza c’è, infatti, tra un Michele Salvemini che afferma (qui) «questa Morte ti guarda negli occhi come farebbe un amico, un’amica, un’amata o un amato» e un Francesco d’Assisi che nel Cantico delle creature la ribattezza come «sorella morte»? Nessuna.
vinonuovo.it

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