Se impariamo ad ascoltare la voce del silenzio

Ogni volta in cui penso al silenzio, lo desidero lo vivo lo assaporo in totale beatitudine, non posso fare a meno di pensare a una breve, fulminea domanda di una bimba di cinque anni sulle rive del Sarca in una assolata domenica di fine inverno di molti anni fa… “Ssss, zitti, lo sentite il rumore del silenzio?”.

Era il febbraio del 1961, Emanuela, la cuginetta che spesso si accompagnava alla mia famiglia nei pomeriggi domenicali, aveva inchiodato gli adulti su un aspetto misterioso della realtà dandogli voce con naturale semplicità. Già, una cosa ovvia per un animo vergine, per una bimba in cui il fanciullino pascoliano ancora coincideva con la sua infanzia. Non così per l’adulto.

Il circuito di suggestioni e riflessioni suscitate da quella domanda ha continuato a farmi compagnia e oggi quella stessa domanda la rivolgo alle mie nipotine quando ci troviamo in luoghi in cui è possibile sperimentarne la verità.

Perciò ho sorriso compiaciuta quando recentemente, leggendo un saggio di Lucio Costantini, Passaggi nel silenzio (Lampi di stampa, 2017), mi sono imbattuta nella citazione di alcuni passi di un dialogo immaginario tra Umberto Eco e Pitagora (Eco U., Pitagora, Le interviste impossibili, Bompiani), dove Pitagora, rivolgendosi a Eco, gli chiede “Non hai mai fatto caso, nell’incanto di certe notti, al rumore del silenzio? Ma solo in momenti di grazia puoi udirlo”.

Un lavoro denso e pregevole, quello di Costantini, già direttore dell’Associazione Culturale Musei di Ronzone, oltre che ideatore e realizzatore della Biennale di filosofia (2008 e 2010) e dei progetti Archivio delle fonti orali dell’Alta Anaunia, Archivio fotografico dell’Alta Anaunia, Ronzone Paese dipinto e autore di diversi saggi, in cui del silenzio tenta di tratteggiare “alcuni ambiti, luoghi, eventi ideativi, alcune esperienze di vita entro le quali il silenzio ha espressione”.

Viviamo oggi nell’epoca del rumore, ce ne lamentiamo, ma spesso lo cerchiamo per coprire l’angoscia esistenziale, le domande che ci urgono dentro e ci fanno paura. Così “la fabbrica dei sogni e dell’intrattenimento”, che caratterizza l’industria pseudoculturale, ci soccorre, ci previene, ci assedia fornendoci a dismisura quel rumore di fondo, quelle distrazioni capaci di mitigare per poco la nostra inquietudine, di sopire la voce dei nostri bisogni più profondi.

Una cultura del disascolto che sostituisce il dialogo interpersonale, occhi negli occhi, a favore di monologhi narcisistici che si incrociano sulla rete e che, purtroppo, anche in talune scuole italiane vengono favoriti se non incoraggiati. Sul tema della distrazione avevano già scritto in modo egregio Blaise Pascal e, prima di lui, Lucrezio, Seneca o, dopo di lui, Schopenhauer. “Solo dal silenzio – scriveva Romano Guardini – si può veramente udire”; e Madeleine Dêlbrel: “Il silenzio è qualche volta tacere, ma il silenzio è sempre ascoltare”.

Culmine di questa esperienza è la vocazione monastica, testimoniata nel numero scorso di Vita Trentina dalla clarissa Anastasia. Il monaco entra nel silenzio di Dio, dove Dio e l’anima s’incontrano come un solo spirito. Esperienza difficile, questa, da tradurre in parole; solo vivendola la si può comprendere.

Ma non posso tralasciare il silenzio della poesia: silenzio e solitudine sono le condizioni imprescindibili per consentire alla voce che urge di affiorare e farsi parola. “La poesia è un aldilà in terra/Cristo ci dia l’altra metà” è lo splendido distico del poeta australiano Les Murray, a confermare la straordinarietà di un’esperienza che ha a che fare con l’indicibile, che usa lo spazio bianco per significarlo. Lo stesso che racconta Antonio Prete  nel suo ultimo saggio “Il cielo nascosto” (Bollati Boringhieri, 2016): “Il silenzio è prima e dopo la parola: per questo nessuna parola può veramente dirlo. Come accade per l’infinito. O per il nulla. Eppure ci sono silenzi che se ne stanno, quieti, nel cuore della parola, tra sillaba e sillaba, tra lettera e lettera, e sono per questo l’anima della lingua”.

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