Scoperte Antropologia, siamo sempre più «africani»

Fino a poco più di dieci an­ni fa lo studio dell’evolu­zione umana si basava sui fossili e sulla docu­mentazione degli am­bienti del passato. Da po­co più di una decina di anni, grazie a tecniche via via più affi­nate, si studia il Dna antico, nucleare e mitocondriale, contenuto nelle os­sa, attraverso le variazioni che esso presenta nelle sequenze nucleotidi­che. Le analisi sono più penetranti, ri­spetto ai metodi morfometrici in uso nella paleoantropologia, perché pos­sono giungere a determinare geni par­ticolari e consentono di calcolare la di­vergenza genetica o eventuali mesco­lanze tra popolazioni. Esse non sosti­tuiscono le informazioni offerte dal dato morfologico, ma possono inte­grarlo in modo più puntuale.

A suggerire un nuovo ramo dell’albe­ro filetico umano, quello dei Deniso­viani, è stato il Dna mitocondriale e­stratto da una falange del mignolo di una donna, trovato in una grotta a De­nisova nei Monti Altai (Siberia) e rife­rito a epoca neandertaliana (intorno a 40.000 anni fa). Lo studio è stato ef­fettuato nel 2010 nel laboratorio del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology, a Lipsia, sotto la dire­zione di Svante Paabo. Successivamente si è aggiunta l’ana­lisi del Dna di due molari trovati nella stessa grotta. Il confronto con il geno­ma di 6 Neandertaliani e di 54 indivi­dui moderni mostra differenze mag­giori rispetto ai Neandertaliani che ri­spetto all’uomo moderno. In partico­lare il Dna denisoviano condivide un numero elevato di varianti (dal 4 al 6% di Dna) con i moderni gruppi Papua della Nuova Guinea e alcune popola­zioni del sud-est asiatico, suggerendo incroci avvenuti in un passato non troppo lontano tra i Denisoviani e gli antenati di quei popoli. Le conclusioni che si possono trarre suggeriscono qualche relazione tra Neandertaliani, Denisoviani e Uomo moderno. Infatti se la divergenza fra il ceppo neandertaliano e quello del­l’uomo moderno viene posta tra 500.000 e 700.000 anni fa, si potrebbe ammettere un antenato comune più antico per le tre linee (Neandertaliami, De­nisoviani e uomo mo­derno). Esso potrebbe identificarsi in Homo heidelbergensis, for­matosi nella discen­denza di Homo erec­tus/ ergaster africano, migrato in Eurasia. Bi­sogna ricordare che la prima ondata migra­toria dall’Africa deve essere stata molto an­tica, se 1,77 milioni di anni fa a Dmanisi, in Georgia, sono vissuti uomini con caratteri ricollegabili al ceppo africano di Homo habilis/erga­ster, secondo i recenti studi eseguiti dall’équipe guidata da Lordkipanize.

Ma a complicare le cose è sta­to il sequenziamento del D­na mitocondriale nel femo­re di un precursore Nean­dertaliano trovato ad Atapuerca (Spa­gna) nel giacimento di Sima de los huesos («pozzo delle ossa»), risalente a un periodo tra 300.000 e 400.000 an­ni fa, di cui è stata data notizia su Na­ture e Science . Il reperto fa parte di un complesso già noto, riferibile a 28 in­dividui, con caratteristiche morfolo­giche di Homo heidelbergensis, pre­cursore dei Neandertaliani. L’Uomo di Sima de los huesos di Atapuerca è mol­to simile all’Uomo di Tautavel (Pire­nei orientali), vissuto nella stessa e- poca, anch’esso probabile rappresen­tante di Homo heidelbergensis, la spe­cie che si ritrova in Europa fra 600.000 e 250.000 anni fa, proveniente dall’A­frica. Le analisi effettuate sul Dna mitocon­driale estratto dal femore di Sima de los huesos evidenzia­no sorprendenti affi­nità con il Dna della donna di Denisova, vissuta molto tempo dopo, 40.000 anni fa, a 7000 km di distanza. Dovrebbe quindi am­mettersi o qualche an­tica mescolanza fra la linea denisoviana e quella neandertaliana o un antenato comu­ne da ricollegarsi forse al ceppo di Homo Hei­delbergensis o a Homo antecessor. Tra l’altro a questo viene riferito un altro impor­tante reperto, rinvenuto sempre ad A­tapuerca nella grotta della Gran Doli­na e risalente a circa 800.000 anni fa. Alquanto oscuro rimane il rapporto dei Denisoviani con la forma umana moderna. L’interesse dello studio del Dna e­stratto dal femore di Atapuerca è sia di ordine metodologico che paleoantro­pologico. Si tratta della determina­zione del Dna più antico finora effet­tuata e resa possibile da nuove tecno­logie (finora il Dna antico studiato e­ra quello dei Neandertaliani di circa 50.000 anni fa). Inoltre l’età del reper­to, stimata coi metodi biomolecolari, risulta coincidente con quella deter­minata per giacimento.

Sul piano pa­leoantropologico si aprono diversi problemi. Come spiegare la vicinanza genetica dell’Uomo di Sima con De­nisova? Potrebbe esserci stata un’ori­gine comune o qualche mescolanza antica (cfr grafico in questa pagina), di cui si è attenuata o perduta la trac­cia nei Neandertaliani più recenti? Nello stesso tempo la vicinanza dei Denisoviani all’Uomo mo­derno pone il problema di quando sia avvenuta nella e­voluzione umana l’eventuale separa­zione delle tre linee (Neandertaliani, Denisoviani, Uomo moderno) da an­tenati comuni africani. La separazio­ne potrebbe anche essere avvenuta in tempi diversi. Ma l’identità antropologica di una po­polazione non è data solo dalla linea genetica di appartenenza. Quale u­manità si cela sotto il Dna deni­soviano? Quale volto, quali caratteristi­che morfo- logiche, quale cultura aveva quella po­polazione? Ce lo diranno i reperti sche­letrici e paletnologici che ci auguria­mo possano venire alla luce nei pros­simi anni. Nello stesso tempo ulteriori analisi del Dna sia dei fossili di Atapuerca che di altri reperti più antichi dei Neander­taliani classici potranno fornire ele­menti molto preziosi per delineare lo scenario evolutivo dei precursori del­le più antiche forme Neandertaliane europee e della forma arcaica dell’uo­mo moderno originatasi in Africa in­torno a 200.000 anni fa, perché con­sentirebbero di combinare i due ap­procci: paleoantropologico e biomo­lecolare. Infatti lo scenario europeo del popolamento umano dipende dal­l’arrivo di gruppi dall’Africa.

I tasselli che mancano per la ricostru­zione dei più antichi spostamenti nel Mediterraneo sono ancora molti. Non sappiamo se il perfezionamento del­le tecniche biomolecolari possa con­sentire di determinare il Dna antico dei reperti africani, mal conservato nei climi caldi. In ogni caso le diversità ge­netiche non dovrebbero essere intese come espressione necessaria di spe­cie in senso biologico. Tutto depo­ne per numerose mescolanze che debbono esserci state nella storia del genoma umano e non sareb­bero spiegabili ammettendo spe­cie diverse. Le analisi del Dna met­tono in guardia dal facile vezzo di identificare specie ove si osserva qualche differenza. Le ricerche bio­molecolari, come quelle paleoan­tropologiche, riconducono a un u­nico ceppo africano e mettono in e­videnza, più di quelle paleoantropo­logiche, incroci e parentele la cui ri­costruzione resta assai complessa.

 

Fiorenzo Facchini