Reinventare il Cristianesimo

di: M. N.

inventare il cristianesimo

Forse avremmo tutti bisogno di una lunga tregua, mettere da parte per qualche anno le animosità polemiche di schieramenti opposti, per impegnarci davvero, con passione e competenza, a inventare un cristianesimo odierno. Che non è né adattamento allo spirito del tempo, con le sue giuste rivendicazioni e i suoi ottusi stereotipi, né ripetere nostalgicamente memorie oramai perse di una fede che fu, con la sua sapiente raccolta del passato che ci ha generato e il suo subdolo sogno di soggiogare il mondo alla propria visione delle cose.

Abbiamo un patrimonio sapienziale e culturale di «cose antiche e cose nuove» che devono essere declinate nell’oggi del vivere umano, nelle contingenze del quotidiano, nel compito che il lungo passaggio della pandemia pone ineluttabilmente alle comunità cristiane. In questo, il cristianesimo è alla prova come tutto l’ambito sociale e politico in cui esso è chiamato a vivere. L’inedito davanti al quale ci troviamo dovrebbe indurre, su entrambi i lati, l’intelligenza di una nuova alleanza fra le pratiche religiose del credere e la dimensione civile dell’abitare il mondo.

La comunanza del tempo che attraversiamo ci pone già, di fatto, gli uni accanto agli altri – perché non rimanga una mera giustapposizione dei destini, bisogna che qualcuno prenda in mano la costruzione di intrecci fecondi proprio in ragione di una opposizione che non permette di omologare tra loro i diversi modi dell’abitare la città degli uomini e delle donne di oggi.

Impegnarsi pazientemente nella tessitura di questi intrecci, senza alcuna pretesa di superiorità morale o sogno di una nuova supremazia spirituale, dovrebbe essere il compito culturale della comunità cristiana in ragione della sua fede. Questo consentirebbe anche di spostarne il baricentro, abbandonando i confini sicuri del suo perimetro comunitario, per addentrarsi nei meandri del vivere sociale che al tempo stesso accomuna e divide gli uomini.

Il passo nell’esteriorità del comune indistinto, lasciando definitivamente dietro di sé la sicurezza identitaria della religione istituita, è il presupposto necessario per l’invenzione del cristianesimo – fin dalle sue origini. Abbiamo dimenticato che questa è la condizione che salva la comunità credente dall’estinzione dovuta al beato rispecchiamento in se stessa.

Eppure, sembra che si faccia ancora troppa fatica ad accettare l’esteriorità della fede come lo spazio in cui essa è destinata a praticarsi; e continuiamo da decenni solo a parlare di noi a noi stessi. Malattia di un cristianesimo divenuto senile, accucciato nel suo orticello, che immagina – ingannandosi – che cambiare le proprie strutture interne (per rinnovarle o per farle tornare a quello che furono) sia la carta che ne decide il destino nel nostro tempo.

Ripetendo, in maniere diverse e contrapposte, il medesimo errore: quello di preoccuparsi di sé come motivo dirimente della sua destinazione. Di questo tipo di cristianesimo non se ne può più – esattamente perché non è degno della sua stessa ragione di esserci. Lo scadimento qualitativo e culturale in cui esso è caduto dovrebbe indurre una qualche seria riflessione: siamo passati da tempi in cui le lotte interne alla Chiesa hanno fatto la storia dell’Occidente a un tempo in cui sono una manna dal cielo per i tabloid giornalistici di vario formato.

Il problema è che questa è divenuta oramai la misura secondo la quale valutiamo la nostra importanza: facciamo notizia, dunque siamo. Davanti a questo almeno un minimo sussulto di orgoglio, che ci induca a inventare un modo evangelicamente degno di essere cristiani nel nostro tempo.

settimananews