Reggio Emilia / Il Museo della bicicletta cerca casa da 14 anni

di Giuseppe Galli

REGGIO EMILIA. Sono lì, in un limbo che appare più vicino al dimenticatoio che al paradiso (rappresentato da un progetto concreto e finalmente realizzabile), da più di 14 anni, ovvero dal 18 giugno 2000, quando il terremoto che colpì duramente Reggio Emilia rese inagibile la casa di via Porta Brennone, che Giannetto Cimurri aveva trasformato nel Museo della bicicletta.

Le 136 bici raccolte dallo storico massaggiatore della Nazionale e confidente del Campionissimo Fausto Coppi, che aveva realizzato il suo sogno nel settembre del 1994, da allora sono ammassate in uno dei tanti magazzini comunali di Reggio, aggredite da polvere e ruggine e abbandonate a loro stesse.

Era stato proprio Alfredo Martini, amico fraterno di Giannetto Cimurri, a inaugurare – ormai vent’anni fa – la bellissima galleria di via Porta Brennone, una mostra più unica che rara, con i cimeli più originali del ciclismo e della storia della bicicletta, di valore e prestigio inestimabili.

Da allora, nonostante si siano alternati due sindaci (Spaggiari e Delrio) e tre amministrazioni comunali, fino alla nuova (la quarta) guidata da Luca Vecchi– al timone della città da appena tre mesi – si sono susseguite soltanto idee, proposte e promesse. E poi l’atteso annuncio, fatto il 12 novembre dello scorso anno dall’ex assessore allo Sport, Mauro Del Bue: «Abbiamo dato mandato alla Fondazione dello Sport di gestire questo progetto, che si svilupperà nell’area ex Stalloni».

Sembrava la svolta definitiva ma di quel progetto non si sa più nulla e di passi in avanti concreti, in dieci mesi, non ce ne sono stati. L’unica cosa cambiata, probabilmente, è la quantità di polvere in più che si è posata su quelle bici, 136 pezzi che rappresentano la storia della bicicletta, i gioielli di due secoli di Europa a pedali.

Delle 136 biciclette raccolte da Giannetto Cimurri, ce n’è una alla quale il figlio Giorgio è più legato, quella di Fausto Coppi: «Avevo 4 anni, nel 1952, quando papà mi portò in ritiro ad Alassio insieme all’Atala, la squadra per cui lavorava. Ma lì, in ritiro, c’era anche la Bianchi e siccome mio padre era anche il massaggiatore della Nazionale e amico del Campionissimo, un pomeriggio mi portò da lui e con la mia biciclettina feci una “volata” con Coppi. Era proprio in sella a quella bici (foto sopra, ndr), con cui poi vinse il gran premio di Lugano».

Nella galleria, di valore e prestigio inestimabili, che aveva realizzato Giannetto Cimurri in via Porta Brennone, come detto, c’era la storia della bicicletta, i gioielli di due secoli di Europa a pedali. Partendo dagli albori – la “Draisina” realizzata da Drais Von Sauberbronn nel 1818, la prima vera bicicletta dell’uomo, in legno – per arrivare a quella del 2000 del compianto “pirata” Marco Pantani, passando dalla bici “spaziale” utilizzata nel 1988 da Francesco Moser per battere il record dell’ora a Stoccarda.

Ma ci sono anche tante altre biciclette, in alcuni casi pezzi più unici che rari, che hanno un valore inestimabile: a cominciare dai bicicli originari della Francia, il cui primo venne costruito nel 1855 dai fratelli Ernest e Pierre Michaux. Ci sono poi tutte le biciclette dei grandi miti del ciclismo, italiani e stranieri: da quella con cui Costante Girardengo stendeva i rivali al Giro d’Italia a quella che Learco Guerra (nel 1931) utilizzò per conquistare il titolo iridato ai Mondiali di Copenaghen. Da quella con cui il pistard milanese Antonio Maspes conquistò il titolo iridato della velocità per ben sette volte (dal 1955 al 1964), a quella su cui sedeva il belga Eddy Merckx nel 1969, quando vinse il Tour de France.

E infine, a fare da cornice a questo patrimonio, una quantità infinita di cimeli: dalle maglie dei campioni alle borracce, da un pezzo di pavée della mitica Parigi-Roubaix ai pettorali di gara.

Un patrimonio che Reggio, dove il ciclismo è uno sport amatissimo e la bicicletta un simbolo di uno stile di vita sostenibile, rischia di perdere.

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