Quel sentiero paradossale dove si sale scendendo

Il 9 ottobre 2011 Benedetto XVI visitava i monaci della certosa di Serra San Bruno e, con loro, simbolicamente tutto l’ordine certosino sparso nel mondo da san Bruno dopo i modestissimi inizi dell’estate 1084 nei boschi francesi della Chartreuse. Fugitiva relinquere et aeterna captare («abbandonare le realtà fuggevoli e cercare di afferrare l’eterno»): così, con una frase del fondatore, il Papa sintetizzava il nucleo della spiritualità certosina.

L’eterno, Dio, è quel tesoro di cui parla il vangelo di Matteo (13, 44) «che è stato nascosto nel campo, che un uomo trovando nascose di nuovo, e per la gioia che è in lui, va e vende tutto quanto possiede e compra quel campo».

In singolare armonia con le parole di Benedetto XVI, un giovane monaco certosino ci svela, in un piccolo ma davvero prezioso libro intitolato Sentieri del deserto (Rubbettino – La Certosa), il senso di questa parola della Scrittura solo apparentemente semplice e ci permette di rileggere a fondo il discorso del Pontefice.

«Ritirandosi nel silenzio e nella solitudine, l’uomo, per così dire, si espone al reale nella sua nudità», dice il Papa, «si espone ad un apparente vuoto», e il monaco lasciando tutto rischia, sente il peso vertiginoso della solitudine.

«Dall’inizio del noviziato — scrive in effetti il giovane certosino — improvvisamente tutto è cambiato». Dopo l’entusiasmo provato entrando in certosa, «quel tesoro così vicino non lo vedevo più» ed «era come se mai l’avessi avuto davanti. Tra le mani mi restava la nuda e scura terra dei miei giorni». E «come nel matrimonio — sembra fargli eco da Serra San Bruno il Papa — non basta celebrare il Sacramento per diventare effettivamente una cosa sola, ma occorre lasciare che la grazia di Dio agisca e percorrere insieme la quotidianità della vita coniugale, così il diventare monaci richiede tempo».

È come se il tesoro sul quale d’impeto vorremmo gettarci ci fosse nascosto, è come se ci volessero giorni di buio e di sepolcro per gustare veramente la luce della Resurrezione: questo è quello che insieme dicono il Papa e il giovane monaco. «Ero entrato — scrive ancora il certosino — convinto che per trovare Dio avrei dovuto fare un salto oltre, su per montagne, scale, gradini e ascensori delle mie letture spirituali» e invece «mi sono trovato a fare un salto in basso, giù per un paradossale sentiero, dove si sale scendendo!».

Questo tipo di tesoro non si può rubare, non si può comprare ma, per ottenerlo, la parola chiave è “vendere”: e vendere non solo i beni materiali ma la parte più ostinata del nostro io. «Se provo a rivedere i luoghi concreti di questa compravendita — continua il monaco — mi pare di riconoscerne con chiarezza tre»: debolezza, inutilità e povertà. «Ho venduto quella parte di autocompiacimento che mi restava e ho comprato una debolezza sconfinata. Ma proprio là in fondo ho ritrovato la misericordia infinita di Dio» che è «il suo modo più straordinario di amare gli uomini». E ancora: «Ho venduto il mio sentirmi indispensabile e ho comprato la mia inutilità» guardando alla croce sulla quale «Gesù non era più utile a nessuno ma stava salvando tutti». E infine, conclude il certosino, «ho venduto le mie facili certezze e ho comprato la mia grande povertà con il grido di speranza che si porta dietro».

Solo allora si possiede il tesoro: «la vita in una Certosa — diceva un anno fa il Papa — partecipa della stabilità della croce, che è quella di Dio, del suo amore fedele», una vita, suggerisce alla fine del suo scritto il monaco, che tende giorno per giorno al tesoro della gioia: «La Gioia che non ha paragoni immaginabili con nessuna delle gioie umane, quella che resta quando tutte le altre muoiono, quella che non so descrivere, circoscrivere, narrare, eppure è qui, nella terra che io sono, nella terra che ogni uomo è».

La sapienza certosina fa scoprire anche a noi la Gioia che ci abita. Quella stessa Gioia che porta a vendere tutto ciò che ci impedisce in questo mondo di gustarla pienamente.

  Ferdinando Cancelli / osservatore romano