Quel che insegna la mistica della femminilità

di Giulia Galeotti

“Un po’ alla volta cominciai a rendermi conto che il problema senza nome era condiviso da innumerevoli donne americane”, scriveva Betty Friedan ne La mistica della femminilità, saggio che ha segnato la storia del Novecento. Uscito negli Stati Uniti nel 1963 (quindi prima dell’irruzione della nuova generazione femminista), il libro era una mera cronaca dello strisciante malessere che attraversava le donne americane di ceto medio negli anni Cinquanta. Friedan (1921-2006) non faceva analisi teoriche, né suggeriva soluzioni politiche o strategie di lotta collettiva per risolvere il problema: mediante una vasta documentazione composta principalmente da interviste, intendeva semplicemente dar voce e volto al “problema che non ha nome”.
Entrate a sostituire gli uomini nel lavoro extradomestico durante la guerra, con il ritorno dal fronte le donne vennero gradualmente rinviate a occuparsi di casa, marito e figli. Questa volta, però, l’invito fu accompagnato da accessori sempre più moderni: frigoriferi, lavatrici, lavastoviglie, aspirapolvere, battitappeti, come anche telefono, televisione e automobili. Eppure, ad ascoltarle, queste donne, che avrebbero dovuto sentirsi felici e gratificate, rivelavano un senso di incompletezza.
Definito dai suoi critici come uno dei dieci libri più pericolosi degli ultimi due secoli, The feminine mystique è un saggio con molti difetti, alcuni anche gravi. Si concentra, ad esempio, pressoché esclusivamente sulle donne bianche della classe media, come se le afro-americane non facessero parte della generazione americana post-bellica, né affronta in modo significativo la questione del ruolo del maschio.
Betty Friedan poi prenderà altre strade, assumendo posizioni ambivalenti; il femminismo darà i suoi frutti, buoni e meno buoni; le società, specie occidentali, non saranno più le stesse. Però un messaggio importante questo saggio ce lo ha lasciato: nel senso ricco, nobile e profondo del termine, le donne sono esseri umani complessi. Schiacciarle su un solo aspetto – sia questo la domus, sia questo l’agorà – è una forma di violenza, che impoverisce tutti. Sbagliano le donne, quando rinnegano questa complessità. Sbagliano gli altri, quando tendono a negargliela. Finché si avrà la tentazione di rendere le donne figure a una sola dimensione, la festa dell’8 marzo avrà ancora qualche senso. Speriamo di poterla abolire presto.

(©L’Osservatore Romano 8 marzo 2013)