Psichiatria e razzismo

di: Luigi Benevelli

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Dopo il 25 maggio scorso le città del mondo sono state attraversate da cortei e manifestazioni in ricordo di Charles Lloyd – l’uomo di colore americano ucciso dalla polizia – a dimostrazione di quanto sia ben forte ed attuale la questione che va chiaramente chiamata col suo nome: razzismo.

Nelle società occidentali, anche in Italia, continuano a operare pregiudizi che riguardano persone di colore non-bianco che vivono da tempo accanto ad altre bianche: questi stereotipi sono evidentemente ben radicati nelle nostre menti, come, ovviamente, in quelle dei medici e dei politici occidentali. Sussistono grandi difficoltà ad ammettere che il razzismo esista e che nelle nostre società le discriminazioni siano ancora accettate, praticate e, in buona misura, giustificate.

Razzismo istituzionale

L’assistenza psichiatrica europea e nordamericana costituisce un interessante versante di osservazione del fenomeno.

Suman Fernando è uno psichiatra originario dello Sri Lanka che vive e lavora nel Regno Unito. Fernando si batte da anni contro il “razzismo istituzionale” nei servizi di assistenza psichiatrica britannici. Studiando i pregiudizi presenti negli operatori della salute mentale[1], ha messo in evidenza quanto segue:

  • gli operatori professionali – a qualsiasi etnia appartengano! – non sanno liberarsi dal pregiudizio razziale profondo nel loro approccio di cura al paziente;
  • nei servizi istituzionali vengono normalmente adottate prassi intrinsecamente razziste;
  • la pressione sociale sui membri delle minoranze etniche di colore non-bianco – con le loro conseguenti (e giustificate) reazioni di rabbia – non è tenuta in alcuna considerazione;
  • il senso di alienazione sofferto dai membri delle comunità non-bianche viene interpretato come sintomo della malattia e quindi come “problema” della persona, mai dell’intero contesto.

Il prodotto di tutto ciò è che gran parte delle indagini cliniche condotte sulle persone di colore che si rivolgono ai servizi – o che vi sono condotte contro la loro volontà – certifica segni patologici di propensione alla criminalità e perciò va di fatto ad attivare interventi di controllo sociale, piuttosto che di cura.

I dati parlano eloquentemente: Fernando evidenzia un numero sproporzionato di persone di colore ricoverate in maniera coatta con diagnosi di schizofrenia, così come addita un numero sproporzionato di ragazzi di colore sottoposti ad accertamenti ed infine arrestati e deferiti alla magistratura dai servizi psichiatrici. Questi dati parlano da sé del fallimento del sistema della salute mentale, oltre che del cattivo funzionamento dell’attività educativa, della scuola e della giustizia.

Il razzismo psichiatrico

I pregiudizi razzisti presenti nella psichiatria scientifica occidentale provengono dalla tradizione della disciplina stessa, dalla sua organizzazione e dal suo coinvolgimento negli assetti di potere degli stati occidentali. Rilevo qui alcune delle maggiori criticità.

L’esame dello stato mentale del paziente è il passaggio in assoluto più importante del percorso diagnostico e quindi terapeutico. Il giudizio clinico che viene emesso in psichiatria si fonda sulle informazioni raccolte dalla persona del paziente, dalla sua storia, dall’esame della sua personalità di base.

È in questa fase che pesano i pregiudizi coi quali lo psichiatra elabora il materiale acquisito dalla “storia” e dalla “personalità” del paziente, senza aver spesso neppure considerato le eventuali barriere linguistiche e la partecipazione o meno di mediatori culturali al primo colloquio.

In generale si può dire che la validità delle deduzioni può ritenersi corretta quando vi siano intesa e comprensione fra gli interlocutori. In un contesto evidentemente multiculturale, le barriere dovute a pregiudizi di origine razzista, rendono ardua la possibilità di trarre deduzioni corrette, poiché i significati attribuibili alle esperienze e alle percezioni manifestate dal paziente – con la sua stessa idea di malattia e di sofferenza – sono mutabili in ragione delle differenze tra le culture.

Fernando documenta a tal proposito l’alto numero di diagnosi di “psicosi” a carico di pazienti afroamericani ricoverati negli USA fra la fine del diciannovesimo e la prima metà del ventesimo secolo. Uno studio condotto a Baltimora nel 1963 attestava come nei manicomi statali la percentuale di diagnosi di psicosi sulle persone di colore fosse decisamente più alta rispetto a quella rilevata sulle persone di pelle bianca, mentre la percentuale di diagnosi di psicosi sui bianchi risultava più alto solo nei veterans hospital, ossia negli istituti privati e tra i pazienti non ricoverati in manicomio.

Quando fu introdotta la distinzione fra “schizofrenia reattiva” e “schizofrenia processuale” – quest’ultima ritenuta a forte componente genetica – alla popolazione nera, specie maschile, fu attribuito un numero enorme di diagnosi del secondo tipo, senza tenere conto di altro. La stessa cosa è avvenuta per i nativi nord-americani, i canadesi Inuit e gli ispano-americani. Studi sui pazienti ricoverati nei manicomi britannici negli anni ’60 e ’70 hanno evidenziato che la diagnosi di schizofrenia riguardava più frequentemente persone appartenenti ai gruppi di immigrati da Africa, Asia e Caraibi.

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In Nuova Zelanda, le statistiche ufficiali del 2003 mostravano che le diagnosi di schizofrenia, paranoia e disturbo psichiatrico acuto in pazienti ricoverati, erano attribuite per circa due terzi ai Maori e ai nativi delle isole del Pacifico, a fronte del 39% attribuito ai bianchi. Per interpretare correttamente questo dato, si consideri che i Maori costituiscono il 14,7% della popolazione neozelandese, gli isolani del Pacifico il 6,4% mentre le persone di origine europea ben il 71,5%.

La diagnosi può essere ben accurata dal punto di vista “scientifico”, ma se non si tiene in considerazione il peso del pregiudizio razziale che evidentemente distorce l’obiettività, anche la diagnosi più accurata può diventare scorretta e fuorviante. I ricercatori americani Loring e Powell sono arrivati a concludere, che a fronte degli stessi comportamenti ritenuti patologici, bianchi e non-bianchi ricevono in genere diagnosi diverse. Una chiara conseguenza è che i dati statistici perdono di autorevolezza e gli studi di epidemiologia psichiatrica risultano falsati.

Imperialismo della disciplina

Fernando giunge a parlare di un vero e proprio “imperialismo psichiatrico” da imputare al fatto che i paradigmi della psichiatria occidentale sono stati incondizionatamente applicati ai diversi e molteplici contesti di appartenenza culturale, erigendo la psichiatria a disciplina della medicina scientifica, quindi sicuramente operante sulla base di criteri “oggettivi” applicabili a tutti gli umani.

Dal momento che qualsiasi raggiungimento tecnico-scientifico occidentale tende ad essere assunto come il migliore, i contenuti elaborati dalla psichiatria non sono mai stati seriamente messi in discussione.

Ed è così che una psichiatria che pure “vede” il colore della pelle, non riconosce affatto le diversità di cultura, ignorando il proprio pregiudizio razziale e ponendo le persone non-bianche fuori dal proprio contesto di cura: è ancora questo uno dei grandi drammi nelle nostre società, solo apparentemente multiculturali.

Suman Fernando propone perciò di ridefinire quanto si possa intendere per “salute mentale”, riconsiderando le relazioni trai fattori genetici, culturali e spirituali: l’importanza e il significato di ciascuno di questi fattori dipende fortemente dalla appartenenza della persona. È giunto il momento di mutare i criteri con cui pensare alla salute mentale degli individui, se si vuole realizzare una psichiatria e una comunità umana effettivamente libere dal razzismo.

  • Luigi Benevelli è medico psichiatra ed ha operato nell’assistenza psichiatrica pubblica. Ha diretto il lavoro di chiusura e superamento del Manicomio provinciale di Mantova e delle Sezioni civili di Castiglione delle Stiviere. È stato parlamentare nella IX e X legislatura. È membro attivo del Forum Salute Mentale nazionale. È presidente dell’A.N.P.I. di Mantova. Studioso di storia della psichiatria, delle psichiatrie coloniali, è socio della Società Italiana di Antropologia Medica, oltre che titolare della rubrica “Psichiatria e razzismi” del sito www.psychiatryonline.itFra le sue pubblicazioni figurano i titoli: Medici che uccisero i loro pazienti, Mantova Ebraica, 2005; La psichiatria coloniale italiana negli anni dell’Impero (1936- 1941), Argo Editrice, Lecce, 2010; Angelo Bravi, Frammenti di psichiatria coloniale e altri scritti (a cura di Luigi Benevelli e Marianna Scarfone), Ibis edizioni Collegio Ghislieri, Pavia, 2018.
  • settimananews