Penitenza: oltre il terzo rito?

di: Marcello Matté in settimananews.it

penitenza

Durante la pandemia, in alcune diocesi italiane (Piemonte, Veneto, Modena) sono state ravvisate le condizioni di “grave necessità”[1] che hanno spinto i vescovi a consentire la celebrazione del sacramento della penitenza secondo la terza forma: Rito per la celebrazione di più penitenti con la confessione e l’assoluzione generale.

Il quarto sacramento è quello che, nella storia, ha visto i cambiamenti più vistosi, sia nelle forme della celebrazione, sia nella teologia che le argomentava. La stessa riforma postconciliare, approdata nel Rito della penitenza, pubblicato in italiano nel 1974, è stata lunga, controversa e laboriosa. Da far desiderare che la si potesse considerare ancora aperta a nuovi sviluppi.

L’adozione della terza forma durante la pandemia ha messo in evidenza sia i punti deboli, sia i punti di forza, ma, forse ancor più, ha fatto emergere la necessità di ulteriori passi da fare, per dare espressione sia a un ripensamento teologico sia alle istanze personali ed ecclesiali che si propongono dal vissuto.

Insufficienze
La Sacrosanctum Concilium dice al n. 72: «Si rivedano il rito e le formule della penitenza in modo che esprimano più chiaramente la natura e l’effetto del Sacramento». A conferma che le forme in uso non rispondevano adeguatamente a questa fondamentale esigenza.

Già la varietà di nomi – rito della penitenza, riconciliazione, sacramento del perdono o semplicemente confessione – è indice delle accentuazioni diverse con le quali si fa riferimento al quarto sacramento e ai suoi molteplici significati. La diversità delle forme conferma l’insufficienza di una soltanto di esse a esprimerli pienamente.

«Il lungo tempo prima della pubblicazione del Rito della penitenza (quattro anni dopo il Messale) e la velocità con cui fu tradotto dal latino (edizione latina: febbraio 1974; italiana: marzo 1974) rivelano, da un lato, la fatica della redazione di questo nuovo testo e, dall’altro, l’attesa delle nuove modalità per la sua celebrazione, che risentiva già allora di qualche difficoltà. Tra tutti i riti rinnovati e riproposti con parole e segni più comprensibili questo della penitenza stenta ancor oggi a decollare, a ritrovare la sua verità celebrativa ed esistenziale. È ancora carente soprattutto la valenza del suo aspetto di “conversione comunitaria”, anche di fronte ad un ritrovato senso di responsabilità personale e collettiva riguardo ai numerosi e persistenti “mali sociali”».[2]

Inconsistenze
La terza forma è ammessa alle condizioni di grave necessità (riconosciute dalle conferenze episcopali o dai vescovi diocesani) e vincolata all’obbligo di accedere alla confessione individuale per ottenere l’assoluzione dei peccati “gravi”.

Le condizioni di “grave necessità” fanno riferimento primariamente alla possibilità di “ricevere la comunione”. Se ne ricava l’impressione che resti in sottotraccia una pregiudiziale interpretazione “ancillare” della penitenza in ordine all’eucaristia.
Celebrare la misericordia di Dio e la riconciliazione tra fratelli ha valore per se stesso, e questo dovrebbe essere posto in risalto dal rito e dalle sue forme.

L’obbligo di accedere alla confessione individuale dei peccati “gravi” suscita interrogativi sull’efficacia dell’assoluzione sacramentale nella celebrazione secondo la terza forma. Se, dopo l’assoluzione generale, posso accostarmi all’eucaristia, come pensare che l’assoluzione non sia effettiva? Né si può ritenere che l’assoluzione con la terza forma sia impartita sub condicione.
Resta, inoltre, il sospetto che la natura sacramentale della celebrazione sia fondata sull’accusa dei peccati (uno degli elementi essenziali) e non sull’accoglienza della grazia misericordiosa di Dio.

Prospettive[3]
Se si guarda a questo – come agli altri sacramenti – da una prospettiva “oggettiva”, cara alla teologia scolastica, l’attenzione verte sui «criteri minimi secondo i quali il sacramento sia da ritenersi valido sul piano giuridico-canonico».
Questo approccio ha, «da una parte, salvaguardato la verità preziosa e irrinunciabile dell’ex opere operato ma, allo stesso tempo, ha prestato il fianco ad una mentalità del “minimo indispensabile” che, alla lunga, non solo ha soffocato e ridotto ai minimi termini la forma estetico-celebrativa del segno liturgico, ma ha anche ingenerato una prassi preoccupata di compiere in sé gli atti sacramentali (sacramentalismo), pur senza porsi troppo la domanda della loro efficacia sul piano personale ed esistenziale dei fedeli».

Una lettura più “soggettiva” rivaluta l’ex opere operantis, e considera la celebrazione l’azione personale e comunitaria attraverso la quale si esprime e si alimenta la fede del credente, senza la quale non si dà grazia sacramentale.
La terza forma esalta l’ascolto della Parola, suscita l’atteggiamento penitente, accentua la dimensione comunitaria che invoca il perdono attraverso la Chiesa. Paradossalmente, però, annulla l’elaborazione personale della penitenza o almeno sottrae quelli che ne sono gli strumenti nella confessione “auricolare”: la confessione individuale delle colpe, il colloquio che personalizza il percorso penitenziale, la ricerca di atti penitenziali (soddisfazione) che siano coerenti con la storia della persona.

«La “terza forma” del sacramento accentua l’annuncio del perdono a cui non corrisponde però, necessariamente, né l’elaborazione della parola personale né il lavoro sulla libertà. Questo, lo si deve riconoscere, non è un limite da poco» (A. Grillo).

Sottraendosi alla polarità tra oggettivo e soggettivo, il Vaticano II «cerca di sganciare la sacramentaria dalla mera logica canonica del “minimo indispensabile” per restituirla a quella di un “massimo gratuito”» (F. Frigo). La stessa dilatazione semantica operata dal Vaticano II, che riconosce la Chiesa «come sacramento» (LG 1), va assunta come indicazione di metodo.
In questa prospettiva non possiamo rinunciare a individuare le forme per esprimere, anche nella celebrazione, il dinamismo penitenziale dell’intera vita del credente e della comunità cristiana; che compenetrino l’aspetto comunitario (evidenziato dalla seconda e dalla terza forma) e l’aspetto pedagogico che, nella terza forma, viene lasciato per intero al singolo.

«In questa direzione, occorrerebbe aiutare le comunità parrocchiali a dare forma a veri e propri cammini penitenziali, attualmente praticamente inesistenti (e probabilmente qui risiede la vera dimensione ecclesiologica del sacramento della penitenza che nella terza forma appare, ma solo nella sua forma celebrativa)» (F. Frigo).

Eccezionale e ordinario
Le celebrazioni secondo la terza forma, occasionate dalle condizioni eccezionali della pandemia, hanno messo in evidenza aspetti che sono parte ordinaria e costitutiva della vita del credente e della Chiesa.

Ovunque sia stata attuata ha registrato – non senza sorpresa – un’eco significativa. Ha raccolto un’ampia adesione dei fedeli, una partecipazione consapevole, una risposta marcata dalla gratitudine. Si è manifestato tra i credenti un bisogno di riconciliazione, un desiderio di perdono, una domanda di comunità più ampi di quanto non dicano gli scarsi accessi alla confessione individuale. Se è evidente una crisi delle prassi penitenziali, non si può dire altrettanto del desiderio di riconciliazione a livello di fede e a livello antropologico e sociale (A. Toniolo).

La Chiesa tutta, e quella magisteriale in specifico, non può ignorare quanto il sensus fidelium esprime coralmente e ripetutamente. L’ascolto, nel caso in discussione, non si limita allo svincolo della terza forma dalle strettoie della “grave necessità” e della eccezionalità. Invita a un ripensamento più ampio delle forme – anche celebrative ma non solo – attraverso le quali esprimere e sostenere la dinamica penitenziale che segna la vita del credente e della Chiesa.

Dimensione comunitaria. La Sacrosanctum Concilium detta: «Ogni volta che i riti comportano, secondo la particolare natura di ciascuno, una celebrazione comunitaria caratterizzata dalla presenza e dalla partecipazione attiva dei fedeli, si inculchi che questa è da preferirsi, per quanto è possibile, alla celebrazione individuale e quasi privata» (SC 27).
La terza forma, in maniera più evidente della seconda, convoca anche la comunità come soggetto penitente; mette in risalto l’ascolto comunitario della Parola; favorisce un più netto aspetto “comunitario” anziché puramente “collettivo”.

«Dal punto di vista pastorale e spirituale è preferibile una buona celebrazione comunitaria a una successione affrettata di celebrazioni individuali di persone preoccupate più dell’accusa che del pentimento».[4] L’articolazione dello stesso rito dovrebbe convergere più sulla riconciliazione con Dio e con i fratelli che non sull’assoluzione.[5]

Valenza formativa. Oltre a salvare ed esprimere adeguatamente le dinamiche pedagogiche che fanno della penitenza un percorso anziché un’esperienza puntuale, è necessario che una (auspicata) revisione del quarto sacramento porti con sé un aggiornamento ad ampio spettro dei presbiteri. Tenuto conto del loro ruolo di educatori alla vita di fede e dei sacramenti.[6]
Va da sé che in un percorso ecclesiale sono coinvolti anche i fedeli, i quali vanno accompagnati ad abbandonare un approccio precettistico e infantile al sacramento (quanto durerà ancora l’onda lunga di una pastorale riferita ad un laicato in condizioni di minorità?) a favore di una fede adulta che tale si esprime anche nelle celebrazioni.

Dietro molte delle preoccupazioni riferite alla terza forma sta il pregiudizio clericale che «i fedeli non sono ancora sufficientemente preparati ad un passo così importante e che i danni sarebbero ben superiori ai vantaggi. Il problema non consiste nel dare assoluzioni, bensì nel formare i penitenti».[7] Un ricorso sbrigativo alla terza forma potrebbe costituire l’alibi per continuare a sacramentalizzare senza evangelizzare (S. Sirboni).

Diversificare le forme. Nessuna delle tre forme proposte risponde compiutamente al complesso intrico di esigenze poste alla celebrazione del rito. Non si può pensare che l’una sia sostitutiva dell’altra, né è necessario architettare una forma che ne sia il compendio. È preferibile immaginare una varietà di forme celebrative, che possano essere adeguate ai diversi contesti o alle diverse priorità nelle celebrazioni.
Il quarto è l’unico sacramento che non prevede celebrazione durante l’eucaristia. Si può vedere in questa esclusione il riconoscimento dell’efficacia della celebrazione eucaristica in ordine alla remissione dei peccati, come suggeriscono le parole della consacrazione. Inoltre, la celebrazione eucaristica si apre sempre con un atto penitenziale, che è parte del sacramento eucaristico.

«Sarebbe possibile non certo considerare senza sfumature come un’assoluzione generale il rito penitenziale che apre la messa, ma perlomeno vedervi un’espressione della potenza espiatrice che opera nel memoriale e che si esercita su coloro che si pentono sinceramente della loro colpa, disposti ad accusarsene al momento opportuno. Tale accusa deve rivestire la modalità precisa che la Chiesa ha il potere di stabilire, ma che non è necessariamente legata alle forme attuali. Ciò ridarebbe indubbiamente alla confessione pasquale, ripensata su questa linea, tutto il suo significato. Del resto, i fedeli lo hanno già percepito, precedendo le disposizioni della Chiesa».[8]

«Passare dalla dimensione emergenziale a quella progettuale è sempre un’operazione non facile, perché chiede un vero e proprio commiato da irrigidimenti tradizionali. Reclama disponibilità accogliente nei confronti dei nuovi segni del nostro tempo e ci obbliga a rischiare, non semplicemente lasciandoci attirare, ma mettendoci a servizio, in uno stile di discernimento, del nuovo che lo Spirito ci dona».[9]

I testi liturgici e magisteriali essenziali di cui tenere conto sulla “III forma” sono in ordine temporale:

Congregazione per la Dottrina della fede, L’assoluzione sacramentale generale (16.06.1972); in EV 4 (1653-1667).
Rito della Penitenza (1974) dall’Ordo Paenitentiae (1973).
CEI, Evangelizzazione e Sacramenti della Penitenza e dell’Unzione degli infermi (12.07.1974, n. 98-100) in ECei 2:1351-1550.
CEI, Il Rito della Penitenza, Nota della Presidenza (30.04.1975) in ECei 2 (2063-2070).
Codice di Diritto Canonico (1983): can. 961-963.
Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica Reconciliatio et Paenitentia (02.12.1984) a seguito dell’Assemblea Ordinaria del Sinodo dei Vescovi del 1983 su La penitenza e la riconciliazione nella missione della Chiesa: nn. 32-33.
Catechismo della Chiesa cattolica (1992): n. 1483-1484 CCC.
Pontificio Consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi, Nota esplicativa: La normativa sull’assoluzione generale senza previa confessione individuale (08.11.1996) in EV15 (1355-1360).
Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica Misericordia Dei (07.04.2002): p. 7. 10-15.[10]