Ogni giorno un mondo nasce e uno muore. Commento al Vangelo XXXIII Domenica Tempo Ordinario Anno B

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà,
la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte.
Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo.
Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte. In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».

Un Vangelo sulla crisi e insieme sulla speranza, che non intende incutere paura (non è mai secondo il vangelo il volto di un Dio che incute paura), che vuole profetizzare non la fine, ma il fine, il significato del mondo.
La prima verità è che l’universo è fragile nella sua grande bellezza: in quei giorni, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo…
Eppure non è questa l’ultima verità: se ogni giorno c’è un mondo che muore, ogni giorno c’è anche un mondo che nasce. «E si va di inizio in inizio, attraverso inizi sempre nuovi» (Gregorio di Nissa).
Quante volte si è spento il sole, quante volte le stelle sono cadute a grappoli dal nostro cielo, lasciandoci vuoti, poveri, senza sogni: una disgrazia, una malattia, la morte di una persona cara, una sconfitta nell’amore, un tradimento.
Fu necessario ripartire, un’infinita pazienza di ricominciare. Guardare oltre l’inverno, credere nell’estate che inizia con il quasi niente, una gemma su un ramo, la prima fogliolina di fico, «nella speranza che viene a noi vestita di stracci perché le confezioniamo un abito da festa» (Paul Ricoeur).
Gesù educa alla speranza, a intuire dentro la fragilità della storia come le doglie di un parto, come un uscire dalla notte alla luce. Quanto morir perché la vita nasca (Clemente Rebora). Ben vengano allora certe scosse di primavera a smantellare ciò che merita di essere cancellato, anche nella istituzione ecclesiastica.
E si ricostruirà, facendo leva su due punti di forza.
Il primo: quando vedrete accadere queste cose sappiate che Egli è vicino, il Signore è alle porte. La nostra forza è un Dio vicino, «la sua strada passa ancora sul mare, anche se non ne vediamo le tracce» (Salmo 77,20). La nostra nave non è
in ansia per la rotta, perché sente su di sé il suo Vento di vita.
Il secondo punto di forza è la nostra stessa fragilità. Per la sua fragilità l’uomo, tanto fragile da aver sempre bisogno degli altri, cerca appoggi e legami. Ed è appoggiando una fragilità sull’altra che sosteniamo il mondo.
Dio è dentro la nostra fragile ricerca di legami, viene attraverso le persone che amiamo. «Ogni carne è intrisa d’anima e umida di Dio» (Bastaire).
Il Vangelo parla di stelle che cadono. Ma il profeta Daniele alza lo sguardo: i saggi risplenderanno, i giusti saranno come stelle per sempre, il cielo dell’umanità non sarà mai vuoto e nero, uomini giusti e santi si accendono su tutta la terra, salgono nella casa delle luci, illuminano i passi di molti. Sono uomini e donne assetati di giustizia, di pace, di bellezza. E sono molti, sono come stelle nel cielo. E tutti insieme foglioline di primavera,
del futuro buono che viene.
(Letture: Daniele 12,1-3; Salmo 15; Ebrei 10,11-14.18; Marco 13,24-32).

di Eremes Ronchi  – Avvenire