Novecento. Anne Frank: da quel Diario un “fenomeno” che dura ancora

David Barnouw ricostruisce la parabola della giovane ebrea: da simbolo delle sofferenze degli olandesi a icona universale, attraverso letteratura, teatro e cinema. E ricapitola le ipotesi sul delatore
Una foto di Anne Frank davanti al Centro Studi a lei dedicato a Berlino

Una foto di Anne Frank davanti al Centro Studi a lei dedicato a Berlino – Ansa

Un addetto del magazzino nel cui retro Anne era nascosta? O la moglie di uno dei suoi colleghi che temeva rappresaglie? Un balordo che ricattava il padre? Sono state numerose nel corso dei decenni le ipotesi su chi fosse il delatore. Le ricapitola in ben cinque pagine David Barnouw nel saggio dedicato a un argomento più ampio: la ricezione del Diario nel mondo, a cui è seguìto Il fenomeno Anne Frank (Hoepli, pagine 180, euro 17,90). L’autore, che cita le indagini di Pankoke senza però conoscerne ancora i risultati, nel 2002 ha pubblicato, insieme a Gerrold van der Stroom, un volume dedicato proprio al tradimento di Anne, nel quale giudica le ipotesi circolate poco credibili e ritiene piuttosto che molti potevano aver visto i movimenti nel nascondiglio che affacciava su un gran numero di finestre (anche per qualche imprudenza degli ospiti). E la retata, infine, secondo la versione data nel 2016 dalla Casa di Anne Frank, potrebbe essere partita per indagini di altra natura non per cercare ebrei. L’olandese Barnouw è membro del Niod, istituto per la documentazione bellica dei Paesi Bassi ed è uno dei curatori dell’edizione critica dei Diari (tradotta in Italia per Einaudi), di cui cita la conclusione sulla vicenda: «Non è più possibile ricostruire (…) con certezza i fatti». Eppure dall’inizio fu lo stesso Otto Frank a sollevare sospetti su Willem Van Maaren, il cui comportamento aveva suscitato i timori dei clandestini. Van Maaren nel 1949 venne assolto. Ma nel 1963 visto il clamore internazionale del Diario finì di nuovo sotto accusa. Ma l’inchiesta fu archiviata. Bisogna attendere la biografia di Anne del 1998 della giornalista austriaca Melissa Müller per avere il nome di Lena Hartog- van Bladeren, la moglie in ansia. Ipotesi scartata da Barnouw. Esce poi quello di Nellie Voskujil, ma anche qui le prove del suo collaborazionismo con i nazisti non ci sono. Si arriva al 2002, quando la giornalista inglese Carol Ann Lee chiama in causa la compagnia di papà Otto, che avrebbe condotto affari con la Wehrmacht. Di qui il ricatto da parte del piccolo criminale di Amsterdam Tonny Ahlers, che avrebbe rivelato il nascondiglio. Ma l’unica prova sarebbe una telefonata ascoltata dal figlio di sette anni che la riferì 50 anni dopo. Altri nomi citati furono il guardiano notturno Marinus Slegers, «qualcuno del Consiglio ebraico » (l’ipotesi ora emersa), il membro dei servizi segreti delle Ss Maaarten Kuiper e due ebrei, Ans van Dijk e Branca Simons. Il saggio di Barnouw, come detto, è incentrato sulla ‘storia degli effetti’ scaturiti da un testo da alcuni messo in dubbio, che ebbe una complessa gestazione (la prima dizione ‘diario’ andrebbe corretta in ‘diari’, viste le due redazioni) e ancor oggi al centro di diatribe, anche giudiziarie, sul copyright. Anne Frank è diventata un vero e proprio fenomeno internazionale che ha attratto la letteratura (si pensi a Philip Roth), il fumetto, il teatro, il cinema. La postfazione al volume, dello storico Massimo Bucciantini, ricostruisce i primi anni della ricezione italiana del Diario e rivela dell’interessamento di Cesare Zavattini per farne un film, mai realizzato. L’opera è tradotta in 60 lingue e venduta in oltre 20 milioni di copie. Il nascondiglio della Prinsengracht 263 attira più di un milione di visitatori all’anno. «Come è accaduto tutto cio?», si domanda dell’autore, che in passato ha parlato, senza intenti riduzionisti, ma suscitando polemiche, di «industria di Anne Frank» sulla falsariga di «industria dell’Olocausto ». L’immagine della giovane «non è lineare e ovviamente varia da paese a paese», nota l’autore parlando di cosa ne sarà dei testi e della vicenda della giovane ebrea nel XXI secolo. Prova ne sia che la Ddr tentò di farne un’icona dell’antifascismo (mentre in Urss non ebbe grande considerazione). Caso particolare il Giappone, dove le prime traduzioni ebbero come target un pubblico adulto, puntando sulla vittimizzazione dopo l’atomica. Si passò poi agli adolescenti, mettendo in secondo piano le vicende belliche rispetto al vissuto della ragazza. Addirittura per le adolescenti nipponiche le mestruazioni, in assenza di un termine nella loro lingua, sono «il giorno di Anne» e Anne è stato il nome di una marca di assorbenti. La parabola di Anne è significativa. All’inizio è stata simbolo olandese della sofferenza ebraica. Poi, complice un adattamento teatrale per Broadway, una ragazza americana che credeva nella bontà delle persone e pian piano simbolo universale. Dagli anni Ottanta, sempre negli Usa, è tornata a essere una vittima ebrea dell’Olocausto. A cavallo tra i due millenni è tornata ad essere un po’ più olandese. Tanto da essere proposta come «più grande olandese di tutti i tempi» (ma era tedesca). «Il cerchio si chiude – commenta Barnouw – ma l’immagine non smette di evolvere». Chi è Anne, allora? «Una talentuosa scrittrice alle prime armi, una semplice ragazza ebrea vittima dell’Olocausto, una guida morale per il mondo all’indomani di Auschwitz e Hiroshima? ». Di certo, conclude Barnouw, l’analisi dei suo i testi non è conclusa. «Diventerà più ebrea in senso ortodosso o in senso più liberale?», si chiede. Di sicuro per Barnouw il fenomeno Anne Frank «continuerà ed esistere». Prova ne sia un commento a un video su YouTube postato dalla Casa di Anne Frank: «Se è riuscita a nascondersi per due anni, allora noi possiamo farcela con la quarantena».

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