N elle omelie gli aggettivi più frequenti sono «grande», «bello», «buono» e «importante ». «Certo non si può sempre dire che un’esperienza è bella. C’è bisogno di osare di più», sostiene monsignor Paolo Sartor, docente di arte e teologia all’Istituto superiore di scienze religiose di Milano e di iniziazione cristiana a Firenze. L’indagine sulla lingua nelle prediche curata da Simona Borello è stata citata dal pastoralista nella Settimana di Paestum.
Monsignor Sartor, l’aggettivazione banale nell’omelia è indicatore di una problematica ben più ampia?
Oggi nelle prediche prevalgono aggettivi neutri, vaghi ed emotivamente connotati. Se questo fenomeno si presentasse da solo, non direbbe molto. Se, invece, viene incrociato alla tendenza di un linguaggio cauto e alla difficoltà a capire la struttura di questa comunicazione, contribuisce a depotenziare l’omelia.
Qual è il suo contenuto oggi?
Due sono le tendenze in atto. Da un lato, si fa fatica a entrare in medias res, dove res sta per Cristo. Non è un caso che il segretario generale della Cei, il vescovo Mariano Crociata, abbia parlato di banalizzazione dell’omelia. Dall’altro, si assiste a un’eccessiva ricchezza di contenuti. È il rischio di trasformare la predica in un incontro di formazione biblica. Siccome mancano occasioni di approfondimento sulla Scrittura che siano popolari come la Messa, si avverte l’urgenza di analizzare la Bibbia. Invece lo scopo dell’omelia non è quello di spiegare, ma di essere eco attualizzata delle letture proclamate nella liturgia della Parola per provocare il rinnovamento della professione di fede. In quest’ottica va precisato che la predica non è una catechesi in dieci minuti.
Lei sottolinea che è in corso una dispersione del genere omiletico.
Alcuni elementi che in passato qualificavano l’omelia si sono persi. Ciò fa sì che questo genere letterario e pastorale sia svolto in modi talmente diversificati che si rasenta la dispersione. Questo processo può essere letto come un indice di non omologazione o di creatività, ma è anche sinonimo di evanescenza. Si dice qualcosa dopo la lettura del Vangelo; però non se ne hanno chiari gli obiettivi.
Il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo emerito di Milano, sostiene che un sacerdote alle prese con la predica non debba chiedersi: che cosa dirò ai miei fedeli?
Diciamo che non è la prima domanda da porsi. Invece il concetto è un altro: se la Parola ha suscitato qualcosa a me, riuscirò a trasmettere qualcosa ai fedeli. Prima che predicatore, il ministro è ascoltatore della Parola da cui si lascia trafiggere.
Lo stile di papa Ratzinger può essere di aiuto?
Come un giornalista ha necessità di modelli, così il predicatore ha bisogno di possibili maestri. Possiamo citare, ad esempio, Paolo VI o il cardinale Martini che sono stati già studiati. Oppure Benedetto XVI la cui omiletica va approfondita. Di sicuro la predicazione dell’attuale Pontefice è concentrata: sa dove vuol portare l’interlocutore e lo accompagna prendendolo per mano. In pratica è l’opposto dell’attitudine alla dispersione.
Monsignor Sartor, l’aggettivazione banale nell’omelia è indicatore di una problematica ben più ampia?
Oggi nelle prediche prevalgono aggettivi neutri, vaghi ed emotivamente connotati. Se questo fenomeno si presentasse da solo, non direbbe molto. Se, invece, viene incrociato alla tendenza di un linguaggio cauto e alla difficoltà a capire la struttura di questa comunicazione, contribuisce a depotenziare l’omelia.
Qual è il suo contenuto oggi?
Due sono le tendenze in atto. Da un lato, si fa fatica a entrare in medias res, dove res sta per Cristo. Non è un caso che il segretario generale della Cei, il vescovo Mariano Crociata, abbia parlato di banalizzazione dell’omelia. Dall’altro, si assiste a un’eccessiva ricchezza di contenuti. È il rischio di trasformare la predica in un incontro di formazione biblica. Siccome mancano occasioni di approfondimento sulla Scrittura che siano popolari come la Messa, si avverte l’urgenza di analizzare la Bibbia. Invece lo scopo dell’omelia non è quello di spiegare, ma di essere eco attualizzata delle letture proclamate nella liturgia della Parola per provocare il rinnovamento della professione di fede. In quest’ottica va precisato che la predica non è una catechesi in dieci minuti.
Lei sottolinea che è in corso una dispersione del genere omiletico.
Alcuni elementi che in passato qualificavano l’omelia si sono persi. Ciò fa sì che questo genere letterario e pastorale sia svolto in modi talmente diversificati che si rasenta la dispersione. Questo processo può essere letto come un indice di non omologazione o di creatività, ma è anche sinonimo di evanescenza. Si dice qualcosa dopo la lettura del Vangelo; però non se ne hanno chiari gli obiettivi.
Il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo emerito di Milano, sostiene che un sacerdote alle prese con la predica non debba chiedersi: che cosa dirò ai miei fedeli?
Diciamo che non è la prima domanda da porsi. Invece il concetto è un altro: se la Parola ha suscitato qualcosa a me, riuscirò a trasmettere qualcosa ai fedeli. Prima che predicatore, il ministro è ascoltatore della Parola da cui si lascia trafiggere.
Lo stile di papa Ratzinger può essere di aiuto?
Come un giornalista ha necessità di modelli, così il predicatore ha bisogno di possibili maestri. Possiamo citare, ad esempio, Paolo VI o il cardinale Martini che sono stati già studiati. Oppure Benedetto XVI la cui omiletica va approfondita. Di sicuro la predicazione dell’attuale Pontefice è concentrata: sa dove vuol portare l’interlocutore e lo accompagna prendendolo per mano. In pratica è l’opposto dell’attitudine alla dispersione.
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