Nella fede la libertà e la grazia s’incontrano

Un commento di Massimo Introvigne alla Udienza di Benedetto XVI di mercoledì 24 ottobre

di Massimo Introvigne

CITTA’ DEL VATICANO,  (ZENIT.org) – Nell’Udienza del 24 ottobre 2012 Benedetto XVI ha proseguito le sue catechesi dedicate all’Anno della fede. «Che cosa è la fede? – si è chiesto il Papa – Ha ancora senso la fede in un mondo in cui scienza e tecnica hanno aperto orizzonti fino a poco tempo fa impensabili? Che cosa significa credere oggi?». La sua risposta si è concentrata sulla denuncia di tre evidenti ambiguità del nostro tempo. La prima riguarda il contesto culturale contemporaneo.

Da una parte, vi è un «deserto spirituale», dove lo stesso progresso scientifico mostra, accanto alle sue luci, anche «ombre» e aspetti dove «l’uomo non sembra diventato veramente più libero, più umano», dopo che è stato «educato a muoversi solo nell’orizzonte delle cose, del fattibile, a credere solo in ciò che si vede e si tocca con le proprie mani».

Ma nello stesso tempo, paradossalmente, «cresce anche il numero di quanti si sentono disorientati e, nella ricerca di andare oltre una visione solo orizzontale della realtà, sono disponibili a credere a tutto e al suo contrario». Così, la nostra epoca è caratterizzata da una parte dal trionfo dello scientismo, dall’altra da una religione fai da te in cui si crede a tutte le superstizioni e a tutte le magie, si crede a tutto e al contrario di tutto.

Ma le grandi domande dell’uomo – sulla vita, sulla morte, sul senso della vita, su che cosa c’è dopo la morte – sono «insopprimibili» e continuamente riemergono. Anche l’uomo moderno si rende conto di «come il mondo della pianificazione, del calcolo esatto e della sperimentazione, in una parola il sapere della scienza, pur importante per la vita dell’uomo, da solo non basta». Abbiamo bisogno della fede, che «mi dà una certezza diversa, ma non meno solida di quella che mi viene dal calcolo esatto o dalla scienza».

Ma qui emerge una seconda ambiguità del nostro tempo. Noi non capiamo più esattamente che cos’è la fede. Da una parte, siamo tentati di ridurla a una serie di emozioni «priva di contenuti»: e proprio a questo rischio vuole ovviare l’Anno della fede, con il richiamo ai contenuti, alla dottrina, al Catechismo della Chiesa Cattolica.

Ma dall’altra siamo anche tentati di ridurre la fede a «un semplice assenso intellettuale dell’uomo a delle verità particolari su Dio». La fede è certamente questo, ma non è solo questo: «è un atto con cui mi affido liberamente a un Dio che è Padre e mi ama; è adesione a un “Tu” che mi dona speranza e fiducia». La fede è credere, certo: ma è credere «a questo amore di Dio che non viene meno di fronte alla malvagità dell’uomo, di fronte al male e alla morte, ma è capace di trasformare ogni forma di schiavitù, donando la possibilità della salvezza.

Avere fede, allora, è incontrare questo “Tu”, Dio, che mi sostiene e mi accorda la promessa di un amore indistruttibile che non solo aspira all’eternità, ma la dona; è affidarmi a Dio con l’atteggiamento del bambino, il quale sa bene che tutte le sue difficoltà, tutti i suoi problemi sono al sicuro nel “tu” della madre». Emerge qui il grande tema teologico e spirituale della fiducia in Dio. La fede è proprio «questo abbandonarmi con fiducia al senso profondo che sostiene me e il mondo, quel senso che noi non siamo in grado di darci, ma solo di ricevere come dono, e che è il fondamento su cui possiamo vivere senza paura».

Il Pontefice ha evocato anche le parole indubbiamente «dure» del Signore Gesù: «Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato» (Mc 16,16). È un fatto. Quando annunciamo il Vangelo, «oltre alla possibilità di una risposta positiva al dono della fede, vi è anche il rischio del rifiuto». Come fa spesso, Benedetto XVI ha citato sant’Agostino (354-430): «Noi parliamo – diceva -, gettiamo il seme, spargiamo il seme. Ci sono quelli che disprezzano, quelli che rimproverano, quelli che irridono. Se noi temiamo costoro, non abbiamo più nulla da seminare e il giorno della mietitura resteremo senza raccolto. Perciò venga il seme della terra buona».

Qui emerge, però, anche la terza ambiguità del nostro tempo. Da che cosa dipende che la terra sia buona? Da dove viene la fede? L’uomo moderno cade facilmente in un primo errore, quello di ritenere che la fede sia il risultato finale di uno sforzo più o meno erculeo dell’uomo. Invece, «la fede è anzitutto un dono soprannaturale, un dono di Dio».

Nell’anno cinquantenario del Vaticano II il Papa cita il numero 5 della Costituzione conciliare Dei Verbum: «Perché si possa prestare questa fede, è necessaria la grazia di Dio che previene e soccorre, e sono necessari gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia “a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità”». Dunque l’insegnamento della Chiesa è chiaro: «non si crede da sé, senza il prevenire della grazia dello Spirito».

Ma anche qui il mondo moderno ospita anche l’errore opposto: se alcuni pensano che si possa «credere da sé», a furia di sforzi umani e prescindendo dalla grazia, altri attendono in modo fatalistico o quietistico la fede dal Cielo senza impegnare la loro libertà e la loro intelligenza. Anche questo è sbagliato. Insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica: «È impossibile credere senza la grazia e gli aiuti interiori dello Spirito Santo. Non è però meno vero che credere è un atto autenticamente umano. Non è contrario né alla libertà né all’intelligenza dell’uomo» (n. 154).

Se vogliamo raggiungere la fede dobbiamo impegnare la nostra intelligenza e libertà in una «scommessa di vita che è come un esodo, cioè un uscire da se stessi, dalle proprie sicurezze, dai propri schemi mentali, per affidarsi all’azione di Dio». Nella fede, libertà dell’uomo e azione della grazia si incontrano in un «sì». E questo «sì» ci cambia: «trasforma la vita, le apre la strada verso una pienezza di significato, la rende così nuova, ricca di gioia e di speranza affidabile».