Nel legno la fede delle montagne

«Indemini. Un paese di pietra: case di pietra, tetti di pietra, fuori dal mondo. Se uno si ammalava, moriva. Il medico doveva salire a piedi e, dopo sette-otto ore, l’ammalato faceva l’ultimo respiro. C’era sì la strada, ma dal mese di settembre sino a marzo era bloccata. Non facevano la “calaneve”. Lì mancava la luce, l’acqua. Il pane arrivava una volta alla settimana a dieci, quindici chili per volta e il sabato bisognava prendere il martello per romperlo. Lunghi inverni di cinque-sei mesi. Sopravvivevamo con poco, dentro la natura, da soli».

Racconta l’infanzia Edgardo Ratti, scultore e pittore, anni 87, con studio a Vira Gambarogno, sul Lago Maggiore, di fronte a Locarno. Qui, nel Malcantone, lungo il fiume Tresa (dove in queste settimane c’è la mostra di Vallombrosa) ha origine la famiglia paterna: «Arturo, mio padre, veniva dal Malcantone, figlio di muratori. Aveva sei fratelli tutti muratori. Di loro mi è rimasto dentro il seme della costruzione». Il padre Arturo, tuttavia, era guardia di frontiera lungo il confine italiano. Un’arte primitiva, quella di Ratti. Lui, per primitivo che sia, ha un itinerario istituzionale: scuola di disegno a Friburgo (il Tecnicum), l’Accademia di Brera con Carpi e un sofferto lungo periodo al ginnasio di Bellinzona, docente di materie artistiche.

Dall’inizio la sua opera si inscrive nel Ticino delle valli, in ciò che ne rimaneva tra povertà ed emigrazione nella seconda metà del secolo scorso. I disegni e i monotipi dei paesi di montagna immersi nella neve, stanno sul foglio e sulla tela come le pagine di “L’anno della valanga” di Giovanni Orelli («sopra il capo, il cumulo di neve che grava sui tetti si gonfia, fondendosi poi con la massa che grava sul tetto vicino. Fra poco si congiungeranno anche i tetti da un lato all’altro di quella che era la strada grande, cammineremo sotto gallerie che vanno crescendoci addosso, opprimendoci come opprimono i tetti delle case, facendo pressione contro la resistenza del colmo») e di Plinio Martini in “Requiem per la zia Domenica” («…non ci fosse stata quell’unica casa accesa a diffondere un ronzio d’arnia gremita nel buio della notte»).

Per tutti, scrittori e pittori, sarà esodo biblico e mutazione profonda. Ratti scende a valle, sulle cerulee acque del lago Maggiore, prima a Luino, poi nel Gambarogno. Qui prendono vita altre saghe: «Mia moglie nasce dalle acque del lago, di cognome faceva Breetz. I Breetz sono di origine prussiana, carpentieri di professione e scendevano al mare a Genova, a Rapallo. Nel tempo si sono spostati verso nord e sono arrivati sul lago Maggiore. Si sono fermati ad Arona, poi sono arrivati a Vira a costruire barche. Qui hanno trovato lavoro e sicurezza».

La sua opera che sulla montagna si fondeva con il legno (il morbido tiglio, il noce, il duro ulivo) e la pietra, qui diventa acqua, narrazione dello scorrere della vita: «Subito dopo Indemini siamo andati ad abitare sul lago. Siamo cresciuti con i piedi nell’acqua. Siamo cresciuti nell’acqua, eravamo sempre dentro l’acqua, con la barca, senza barca. In tutti i miei lavori c’è l’acqua, qualsiasi tonalità di blu per me è l’acqua, nei quadri, nelle vetrate…». Vetrate di cui è costellato (thesaurus e idioma di una religiosità di popolo ) tutto il Ticino, dalla chiesa di Curio a quelle, straordinarie, del ciclo della Passione e delle Quattro Stagioni della chiesa parrocchiale di Biasca, ai piedi del Gottardo. Geometrie incandescenti di luce e profane anche: sarà l’arciprete Stabarini ad imporle in Biasca ad una pensosa e incerta Commissione del Sacro. Acqua e luce.

Antecedenti sono gli astrattisti comaschi (Radice, Rho, l’architetto Terragni), che nel ridotto dei laghi elaborano una pittura antiretorica e anti-Novecento, un confronto europeo. Europeo finalmente anche lui, dalle valli profonde e remote, dal pozzo di luce dei laghi. Non si capisce la coerenza e la forza solitaria di questo artista se non se ne afferra l’originale religiosità. Si rifà, Ratti, alla religiosità popolare contadina e valligiana. I suoi Cristi in tiglio e noce, in legno tarlato dal vento e dalla neve, sono quelli di montagna, delle santelle, delle edicole pietose al viandante, ai valichi e ai confini (anche della Riforma). Cristi amputati, in carrozzella, per una umanità dolente, emarginata. Incombe nelle sculture lignee di Ratti una devozione delle origini, arcaica e primitiva, una religiosità patarina, tutta sociale, delle scomparse devozioni valligiane. La religiosità, le stagioni, il beneficio delle acque, la solitudine degli inverni sono le costole forti del suo lungo lavoro. Poi la ricerca si spinge all’interno della materia, alle geometrie che il tempo traccia nel sasso e nel legno. La sua produzione si fa astratta e anche concettuale, con un costante scambio di lavoro, tra informalità della materia naturale e astrazioni geometriche, che della natura cercano di cogliere le strutture e forme interne.

Piero Del Giudice – Avvenire.it