Nel giorno che ricorda le vittime della Shoah. Il dovere della memoria

di Cristiana Dobner

Se l’uomo senza ombra, Peter Schlemihl, la creazione letteraria di Chamisso, è costretto a diventare errante una volta persa la sua ombra, che cosa può accadere a chi diventa uomo senza memoria? È nota la devastazione psicologica di chi, per una ragione o per l’altra, si ritrova vuoto della propria storia, della propria identità. In questo caso si invoca il destino. Nel caso invece in cui si voglia cancellare e dimenticare un avvenimento come la Shoah, non si può invocare il destino.
Solo il monito biblico che attraversa tutti i secoli e le generazioni di Israele – zachor (“ricorda”) – consente di rimanere persona e di reggere dinanzi a un baratro di orrore che ha devastato e continua a devastare.
Non è questione di cifre o di cifre arrotondate, magari dichiarate inesistenti, malgrado l’evidenza storica più che assodata. Per la tradizione ebraica l’uccisione di una sola persona è già una tragedia immensa, perché essa è stata creata a immagine e somiglianza del Creatore, perché ha attraversato la storia con il segno dell’alleanza. A maggior ragione quando la distruzione – messa in atto dalla macchina burocratica efficientissima del nazionalsocialismo – ha dilagato in tutta Europa e tolto dalla faccia della terra interi villaggi, tradizioni, cultura e ha sparso nell’aria l’odore dei cadaveri bruciati.
Se tanto si è ricercato e poi scritto – e tutto questo è doveroso e necessario – per appurare una realtà storica attendibile, forse ancora poco si è scritto nella vita concreta di chi non appartiene per sangue e stirpe al popolo ebraico. La devastazione della Shoah ha costretto i cristiani a interrogarsi a fondo. Maestro di memoria è stato il beato Giovanni Paolo II, che non ha certo sofferto di rimozioni. La memoria è tale quando diventa sorgente viva, che sempre zampilla, pronta a suggerire passi nuovi di conoscenza e di fraternità. Ben più che tolleranza, perché la storia insegna dove porti la tolleranza: solo a passi discretamente buoni finché non viene intaccato l’interesse proprio.
La necessità della memoria chiede ed esige ben di più, almeno per chi ne afferra la portata trasformatrice: vuole suscitare un atteggiamento nuovo, sempre nuovo, che venga a scoprire come la persona umana, libera nella sua adesione di fede, possa vivere l’arco della propria vita in trasparenza, senza il timore di venire eliminata perché qualificata diversa in nome di un’ideologia.
Il beato Giovanni Paolo II ha rivolto lo sguardo al presente e al futuro, indicando alla Chiesa, e dunque a ogni cristiano, l’atteggiamento di chi si rivolge verso il Padre Creatore e da lui impara come vivere. La nostra memoria, purificata dalla conoscenza di quanto è avvenuto, resa compassionevole per la sofferenza e il dolore inflitti, ne viene scossa e può compiere un balzo che risponda al mysterium iniquitatis con la forza e il vigore del mysterium gratiae.
Oggi la Chiesa cattolica e il popolo ebraico sperimentano un avvicinamento e una comprensione impensabili qualche decennio fa. E non si tratta di una moda: è una consapevolezza che poggia sulle esistenze cancellate nel cuore del Novecento, ma che si lascia portare, in una memoria che lega la lunga catena delle generazioni, da una speranza che attraversa i secoli.

(©L’Osservatore Romano 27 gennaio 2013)