Mutazione in vista, serve più religione

All’improvviso, o per una speciale accelerazione, la pioggia di allarmi sugli effetti della mutazione sociale e antropologica indotta dalle tecnologie digitali ci arriva da giornali, settimanali, supplementi culturali. Ritengo da anni che una tale mutazione, molto più radicale e invasiva di quella denunciata da Pasolini all’inizio degli anni settanta, sia stata sottovalutata dagli intellettuali “progressisti” (che cos’è progresso? c’è una meta?) e da chi studia la società, i legami sociali, la mente, la coscienza, le forme dell’esperienza e della percezione umana del mondo sia esterno che interiore. È in gioco l’intera storia della cultura, i modi e le possibilità della formazione, dell’educazione, dell’accumulazione e trasmissione del sapere. Scienze, arti, filosofie e religioni sono minacciate dall’attuale impero tecnologico, anima pragmatica nonché economica del capitalismo. I titoli dei quattro articoli che aprono l’ultimo numero della Lettura parlano chiaro. Al primo articolo (“La fine dell’umanità” firmato da Adriano Favole) ne seguono tre di chiarimento (“L’uomo perde la libertà” di Viviana Mazza, “L’uomo perde i sensi” di Marco Ventura e “Il rischio di diventare homo insipiens” di Carlo Bordoni). Fra il perdere la libertà, il perdere l’uso dei sensi e il sapere, c’è quindi un nesso, e fra queste perdite e la “fine dell’umanità” viene suggerito un rapporto di causa ed effetto. Naturalmente se si perde umanità si perde, come primo effetto, anche la capacità di capire le varie culture umane: e non c’è universalismo morale senza sentire l’unità nelle inevitabili diversità. L’allarme è dunque sia neuro-mentale che sociale e politico. Adriano Favole scrive che «viviamo una crisi profonda del progetto umanistico», le cui conseguenze possono essere inimmaginabili se non abbiamo abbastanza immaginazione culturale per prevederle. E oggi, con la crisi profonda dell’umanesimo illuminista, puramente razionalistico e antireligioso, le religioni più consapevoli del proprio ruolo si trovano ad avere responsabilità globali nell’evitare conflitti e guerre, nonché nel creare il giusto disincanto nei confronti della pretesa onnipotenza tecnico-scientifica. Né il cosmo né il pianeta terra sono una nostra proprietà e lo dimostra il fatto che conosciamo solo una minuscola parte dei loro fenomeni. Riconoscere la vastità dell’ignoto fuori e dentro di noi non è irrazionalismo ma razionale consapevolezza dei limiti della razionalità. La quale sa costruire innumerevoli strumenti avendo come solo “ideale” la velocità e la comodità. È un po’ poco.

Avvenire