La definizione di Imago Pietatis entra in uso soprattutto dopo il celebre saggio di Erwin Panofsky del 1927, il quale però considerava tali solo quelle immagini che stabilivano con lo spettatore un rapporto empatico. Perché l’Imago Pietatis, nelle sue molteplici declinazioni, è proprio il simbolo della compassione nelle manifestazioni devozionali e il tema della Passione e dell’Homo patiens sarà in effetti il centro della Devotio moderna, legandosi alla Kenosi e al grido sulla croce: «Dio mio, perché mi hai abbandonato». Padre Giovanni Pozzi metteva però in guardia dalle facili assimilazioni sotto il termine Devotio moderna che reputava, a ragione, un’«etichetta troppo larga». Sotto il profilo spirituale, la letteratura che corrisponde a questo nuovo modo di praticare la propria fede sta tra l’Imitatione di Christo e gli Esercizi di sant’Ignatio, dove l’immaginazione è viatico alla devozione interiorizzata dal singolo, dunque l’apertura di un rapporto personale con Dio attraverso Cristo. La mostra nasce anche per ripresentare il dipinto dopo un accurato restauro che ha rimosso una pellicola giallognola depositata dal tempo e da precedenti manutenzioni, consolidando la tavola anche in alcune sue debolezze, e oggi quel Cristo che esce dal loculo del sepolcro, con alle spalle un paesaggio mantegnesco albeggiante, ha un’apparenza quasi diafana, a cominciare da quel volto semiglabro dove la barba ha la trasparenza di una lanugine che ben si concilia col pallore eburneo o perlaceo del corpo.
Ma la cosa curiosa dell’Imago Pietatis del Poldi Pezzoli è l’assenza delle stigmate sulle mani del Cristo, «dettaglio – scrive nel catalogo Andrea di Lorenzo – che lascia sconcertati». Difficile infatti trovare una spiegazione a questa anomalia, probabilmente concordata dall’artista con la committenza, scrive Di Lorenzo. Nello spazio di pochi anni, una dozzina circa, Bellini eseguirà le altre tre Pietà, tutte con tipologie differenti; la tavola di Bergamo mostra il Cristo deposto sorretto dalla madre e dal discepolo più amato sui cui volti è dipinto il dolore della perdita, il fondo è completamente scuro, dunque non c’è il paesaggio che compare oltre che nella tavola del Poldi Pezzoli, anche in quella del Correr, dove il Cristo è sorretto da due angeli secondo il tipo della “Engelpietà”. In questa tavola, il Cristo appare con un corpo muscoloso, le vene delle braccia in grande risalto, la testa piegata in avanti (che ricorda l’Imago Pietatis di Donatello al Santo di Padova che fu, come ricorda Andrea De Marchi, un riferimento per Bellini), la bocca semiaperta, mentre le pieghe della carne sul ventre sottolineano l’ombelico quasi come se fosse un occhio che ci guarda. Sulla pietra del sepolcro venne dipinto il monogramma di Dürer e ancora nell’Ottocento l’opera veniva a lui attribuita, ma tutto in realtà dice Bellini: c’è ancora quel volto semiglabro, che troviamo anche nella tavola di Bergamo; la luce e i colori si ricollegano, per i toni aurorali e il pallore, al quadro Poldi Pezzoli; i due angeli a bocca aperta sembra che intonino un lamento funebre, e ricordano altre immagini di angeli cantori e musicanti, forse quelli di Piero nella Natività di Londra oltre a quelli della tavola di Lazzaro Bastiani); infine il quadro di Rimini, l’unico orizzontale, anche per questo il più corrispondente al senso umanista della morte, uno stoicismo che concorda con l’aspetto dei quattro angioletti che non hanno più la smorfia del dolore in volto ma pare quasi che eseguano un canovaccio, come nani che depongono il corpo del gigante morto sulla pietra tombale, sembrano più indaffarati nella loro funzione funebre che coinvolti emotivamente dal fatto. Il Cristo stesso più che morto pare addormentato e il suo volto presenta una folta barba. Il fondo della scena, come in uno spazio astratto, teatrale appunto, è nero pesto. La tavolozza corre su una corda quasi monocroma che conferisce al dipinto, molto deperito e attraversato da una fenditura orizzontale, un aspetto austero. Quel concerto di angeli paggetti (uno dei quattro, semicoperto dal corpo del Cristo, sembra anche privo d’ali) e quel venire in avanti delle gambe di Gesù che chiamano dentro la scena lo sguardo dello spettatore, costituiscono una macchina rappresentativa intrigante e ricca di sottintesi che proiettano l’opera nello spazio del Rinascimento più allusivo, tra finzione e verità.