“Mettersi di traverso” per fermare la guerra: tra armi e resa, la terza via proposta da “Nigrizia”

«La guerra ha bisogno di uomini in uniforme. E di pensieri uniformi». Un editoriale di Nigrizia, mensile dei missionari comboniani, racconta bene il clima di contrapposizione mediatica suscitata dalla guerra scatenata da Vladimir Putin. «C’è un aggressore e c’è un aggredito», riconosce l’articolo, e quindi la prima esigenza è chiara: difendere l’aggredito. Eppure, propongono i missionari, tra chi decide di farlo riversando un fiume di armi all’Ucraina (l’opzione dello «sterminio») e chi invece «propone di alzare bandiera bianca» (l’opzione della «resa»), occorre cercare una terza via. E spiegano: «Entrambe le posizioni, quella del politico con l’elmetto e del pacifista con un finto ramo d’ulivo in bocca, soffrono della stessa sindrome: quella da divano. Si delega. E nel frattempo si riempiono di tanti bla-bla-bla i salotti di casa e televisivi o di sterili slogan le piazze d’Italia. Le retoriche di entrambi i fronti dovrebbero lasciar spazio, invece, ad azioni concrete. Senza affidarsi ai carri armati o allo sfinimento di un intero popolo. Perché l’urgenza è solo una: far tacere le armi e trovare una soluzione al dolore indicibile di quei volti che invadono la nostra banale quotidianità». Nigrizia rilancia l’idea, accarezzata da alcuni media, di una «trasversalità di partecipazione»: scendere fisicamente in piazza a Kiev, cittadini e leader europei, per mettersi «di traverso». Come diceva Luca Casarini su il Riformista, serve «una iniziativa politica e umanitaria che diventi un vero e proprio scudo che si frapponga tra i combattenti».

«Gesti folli?», si chiede l’editoriale: «Ma non è più folle la guerra scatenata da Putin?». «Non è follia quella crudeltà che è la morte in diretta? Non è follia la corsa al riarmo di ogni Paese europeo, Italia inclusa? Servono gesti, anche impensabili, per sovvertire lo stato delle cose».

Adista