Meditazione del Vescovo ai fidanzati il 12 Febbraio a Sant' Anselmo

“Sale” e “luce” sono indubbiamente dei simboli, delle immagini. Richiamano la concretezza del linguaggio biblico che parla di realtà quotidiane. E così il sale è quel pugno di granellini bianchi che, impastato con la farina, dà sapore al pane. Non si vede, ma si sente quando manca. La presenza del sale non è tanto dell’ordine della quantità, ma della qualità. E la luce, quando scende il buio in casa e sulla terra, è tutto ciò che permette allo sguardo di orientarsi e al piede di non inciampare.
 
A quale realtà alludono queste immagini evangeliche? Collocate dall’evangelista Matteo nel contesto delle Beatitudini (cf. Mt 5,1-12), “sale” e “luce” sono anzitutto il rimando al volto di Dio. Le Beatitudini, infatti, prima che uno sguardo su uomini e cose, offrono uno sguardo su Dio. Con la proclamazione delle Beatitudini, Gesù confida ai suoi discepoli i tratti più significativi del volto nascosto del Padre che è nei cieli. È come se Gesù dicesse ai discepoli: “Volete conoscere anche voi il Dio che io prego, benedico, ringrazio come il segreto profondo della mia gioia?. Ecco la mia risposta: è un Dio che ama la povertà, un Dio misericordioso, un Dio mite, un Dio che ama la pace, un Dio che per amore è pronto a soffrire e a morire”.
 
“Sale” e “luce”, dunque, riferite al mistero di Dio e alla fede che lo riconosce presente e operante nella storia, sono immagini della realtà che è il Mistero di Gesù Cristo, al tempo stesso “sale della terra” — Mistero nascosto nelle profondità del segreto di Dio — e “luce del mondo” — Mistero rivelato, annunciato a tutti gli uomini.
 
Voi siete
 
“Voi siete…”, dice Gesù ai suoi discepoli, presenti e futuri, e quindi si rivolge anche a noi. Ma chi di noi ha il coraggio di dire: “io sono il sale della terra; io sono la luce del mondo”? Chi può dire di essere coerente con il nome di cristiano che ciascuno di noi porta dal Battesimo? Eppure rimangono vere anche le parole del Vangelo: “Voi siete il sale della terra… Voi siete la luce del mondo”. Da notare che i verbi usati sono all’indicativo e dunque rimandano ad una condizione d’essere, prima che a un impegno di azione. Ci parlano del sogno di Dio su di noi.
 
Rivolto a dei cristiani battezzati, questi indicativi ci portano a dire che, per il Battesimo ricevuto — di cui prima abbiamo fatto memoria —, noi, sia pure germinalmente, siamo “sale”, siamo “luce”. Questa è la nostra incredibile dignità. Il problema diventa allora quello di ridurre il divario che passa tra il sogno del Signore su di noi e quello che realmente siamo. Come? Due immagini, stavolta non letterarie come il sale e la luce, ma vissute nell’esperienza, ci possono aiutare a tradurre nell’oggi questi indicativi evangelici. Penso in particolare a due domande che hanno a che fare con la vocazione matrimoniale e familiare nella Chiesa, rilette alla luce di queste due immagini evangeliche.
 
Che cosa significa sposarsi?
Verso un amore, sale della terra
 
Confesso che da parroco mi trovavo imbarazzato tutte le volte che, al momento cosiddetto dell’esame dei fidanzati in preparazione ai documenti di nozze, mi toccava interrogare ciascun fidanzato su questa domanda: “il Matrimonio comporta una decisione completamente libera. Si sposa per sua scelta e per amore, oppure è costretto da qualche necessità?”.
 
L’imbarazzo mi veniva dal fatto che mi sembrava retorica la domanda. Non è forse ovvio che oggi ci si sposa “per libera scelta e per amore, senza alcuna costrizione”? Costrizioni al matrimonio per ragioni familiari, di censo o di patrimonio, tra sposi scelti dal padre o dalla madre o dal rango sociale sembrano oggi un ricordo per noi del passato (anche se non altrettanto per altre culture).
 
E, tuttavia, la domanda: “si sposa per sua scelta e per amore?”, non è così retorica. Sembra che, nel loro complesso, le parole stiano subendo una crisi di inflazione simile, e più grave, di quella che una volta occorreva alla moneta. Valgono sempre meno, e sono spese sempre più indiscriminatamente. Tra queste parole inflazionate, forse, c’è anche la parola “amore”. Si dice che amore sia un “sentimento”. Ma l’amore è veramente un sentimento? È compresa adeguatamente l’esperienza del rapporto tra uomo e donna, quando la si riduce a ciò che si sente, all’attrazione reciproca?
 
C’è un’altra frase per spiegare che cos’è l’amore: amare vuol dire “voler bene”. Ora voler bene non è esattamente la stessa cosa che sentire un’attrattiva, sentirsi bene insieme. “Al sentire non si comanda”, si dice: ed è vero. Si dice anche: “provo un sentimento per te”. Il sentimento è qualcosa che si constata, come la bellezza oppure come il piacere. Non è qualcosa che si decide: o c’è o non c’è. E se non c’è, è finito anche l’amore. Non c’è più nulla.
 
Diverso è l’amore come “voler bene”. Il voler bene non è semplicemente qualcosa che si constata se c’è o non c’è, come abbiamo detto del sentimento o del piacere. Volere bene all’altro vuol dire certamente provare un sentimento verso l’altro, ma comporta soprattutto decisione e scelta capace di dedicarsi all’altro senza pentimenti. Ho assistito una volta ad un dialogo teatrale tra due attori che impersonavano due amici di gioventù: “Hai mai fatto qualche sbaglio nella tua vita?”, chiede uno. “Si, quello di amare!”, risponde l’altro. L’amore sarebbe dunque uno sbaglio di cui pentirsi. Sono tanti oggi nella vita reale quelli che hanno paura di amare: ci sono persone che temono gli affetti seri, coinvolgenti, perché capiscono troppo bene che cosa comportano.
 
Meglio perciò, in tale ottica, coltivare amicizie provvisorie, vissute senza impegno, col tacito sottinteso che ciascuno, ad un certo punto, è libero di prendere la strada che vuole, possibilmente senza rancori. La cultura attuale è sempre pronta a suggerire: “per non dovere soffrire, cancella l’amore dalla tua vita”. Gesù, invece, insegna il cammino opposto: “per la bellezza dell’amore, bisogna vincere la paura della sofferenza”, perché “voi siete il sale della terra, ma se il sale perdesse il suo sapore… a null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini”. Sì, sale dell’amore è la scelta di “volersi bene” anche nei momenti di prova.
 
Posso assicurare, ancora dalla mia esperienza di parroco a Legnano in diversi colloqui con fidanzati, che, tranne poche eccezioni, nessuno pensa a sposarsi “con riserva”: finché stiamo bene insieme, finché ci piacciamo reciprocamente, finché proviamo sentimento l’uno per l’altro… Il desiderio e — credo —l’intenzionalità più profonda è quella di volersi bene a lungo, addirittura per sempre. E una conferma inaspettata di questa intenzionalità è stata, per me Vescovo, il Convegno di Marola con i giovani promosso quattro anni fa dal Prefetto della città su “valori e disvalori nel mondo giovanile”. Al primo posto i giovani mettevano: la famiglia, la scuola e l’amore.
 
Cosa significa vivere da sposati?
Verso una famiglia, luce del mondo
 
Sorge qui la seconda domanda: che significato ha vivere da sposati? Ma come è possibile amare — nel senso di voler bene all’altro — con tutti i cambiamenti cui è soggetta la vita oggi? Come possono due promettersi fedeltà e mantenerla nel dramma dell’inevitabile mutamento a cui ognuno è soggetto? Si ama sempre un “tu” concreto, con un volto, un carattere, una struttura personale. Nell’esperienza dell’amore tra l’uomo e la donna il tempo rivela la mutevolezza del mio “io” e prima ancora del “tu” dell’altro: il volto invecchia, il carattere si trasforma, il tempo lascia le sue ferite scoperte, gli avvenimenti incidono pesantemente e, a volte, in maniera determinante.
 
Succede così, con il passare degli anni di vita coniugale, una sorta di “sdoppiamento” della persona: succede, quando il proprio “io” considera comprensibile e inevitabile o perfino utile il proprio cambiamento, mentre il mutamento dell’altro tende ad apparire più come una frode e quasi un tradimento. L’infedeltà incomincia quando i due coniugi iniziano a cercare in un altro uomo o in un’altra donna ciò che ritengono sia troppo mutato nel proprio coniuge: la bellezza, ad esempio, ma forse, più ancora la generosità del carattere, o la capacità di accoglienza. E se questo succede — e succede sempre più spesso — la tendenza è quella di considerare il tutto una questione privata.
 
Si è tenuta a Roma, in questi giorni, l’assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per la famiglia. Mi ha colpito questo passaggio del resoconto dei lavori: “Se oggi la cultura in tutti i campi tende a collocare l’esperienza dell’amore nella sfera del privato, la Chiesa esercita la sua profezia affermando che l’amore va oltre il privato della coppia, è alla base della famiglia e costituisce una ricchezza indispensabile per la costruzione della società” (Osservatore Romano, 10 febbraio 2010).
 
Benedetto XVI — il Papa che ha intitolato la sua prima enciclica “Dio è amore”, e dove individua nella coppia e nella famiglia la prima naturale comunità creata a immagine e somiglianza di Dio — nel suo intervento di lunedì scorso, insiste su di una Chiesa che ha a cuore “un percorso di catechesi e di esperienze vissute nella comunità cristiana” sia prima del Matrimonio sia dopo il Matrimonio.
 
Chiedo, alla Pastorale familiare e all’Azione Cattolica insieme, di configurare un progetto diocesano di modalità, di tempi e di figure di accompagnamento degli sposi nei primi anni di vita comune; un progetto spendibile nelle parrocchie, unità o zone pastorali. “È proprio durante i due o tre primi anni della vita coniugale che si prendono nuove abitudini nei confronti della pratica religiosa: e questo tempo sfortunatamente è spesso quello in cui i novelli sposi si allontano dalla Chiesa, trascurando i loro doveri” (Osservatore Romano, 10 febbraio 2010).
 
C’è bisogno invece di far ritrovare ai giovani sposi nuove relazioni, “in una clima di amicizia e di preghiera” (Benedetto XVI) con altre coppie e famiglie, altri sacerdoti e comunità cristiane: sono queste le luci di cui ha bisogno il cammino a due per una buona vita coniugale e familiare. “Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata su di un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio (il tavolo di casa), ma sopra il lucerniere, perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa”.
 
Conclusione
 
Concludo con la risposta della protagonista del famoso film del 1973 (lo riconosco: sono un po’ datato…) di Ingmar Bergman, Scene da un matrimonio, alla domanda: “Perché il nostro matrimonio che sembrava così solido si è rotto tra le nostre mani come un bel giocattolo? Forse, noi abbiamo creduto troppo al nostro matrimonio, ma il matrimonio è fatto per credere in qualcosa d’altro”.
 
+ Adriano VESCOVO
 
Reggio Emilia – Chiesa di S. Anselmo, 12 febbraio 2010
Meditazione del Vescovo nell’incontro con i fidanzati alla vigilia del patrono San Valentino, promosso dall’Ufficio di Pastorale Familiare e dall’Azione Cattolica
(fonte: webdiocesi)