Malattia, dolore e il ruolo del medico. Diritto di morire o libertà di vivere?

Da medico e da paziente, ho letto con molto sconcerto la testimonianza del medico sardo che ha ammesso di aver «addormentato migliaia di persone, in un centinaio di casi sono andato oltre. L’ho fatto ogni volta che era necessario, ma non ho un elenco. Non mi sono mai pentito, anche perché erano i pazienti a chiedermi di intervenire. In tutte le situazioni non c’era altra via d’uscita. Questa è una pratica consolidata in tutta Italia». Come si può sostenere che in tutta Italia certi comportamenti siano consolidati: con molta fermezza dico che non è così! Di fronte a tali affermazioni mi chiedo quale sia allora il significato del nostro ruolo di medico? A cosa serve il nostro codice deontologico? In particolare che senso avrebbero articoli come: il 16 ‘procedure diagnostiche e interventi terapeutici non proporzionati’, il 17 ‘atti finalizzati a provocare la morte’, il 20 ‘relazione di cura’, il 33 ‘informazione e comunicazione con la persona assistita’, il 35 ‘consenso e dissenso informato’, il 37 ‘consenso o dissenso del rappresentante legale’, il 38 ‘dichiarazioni anticipate di trattamento’, il 39 ‘assistenza al paziente con prognosi infausta o con definitiva compromissione dello stato di coscienza’?

Come è possibile non interrogarsi di fronte a tutto ciò: chi siamo noi per decidere un percorso di fine vita alternativo a quello naturale, anche con la malattia, di un’altra persona? Siamo sicuri che in «tutte le situazioni» non abbia prevalso, purtroppo, quel senso di abbandono e solitudine che favorisce decisioni rinunciatarie di fronte alla vita? Credo sia inaccettabile avallare l’idea che alcune condizioni di salute rendano indegna la vita e che ogni azione si trasformi in un accanimento e in un calvario inutile, dimenticando che un’efficace presa in carico e il continuo sviluppo della tecnologia consentono anche a chi è stato colpito da patologie altamente invalidanti di continuare a guardare alla vita come ad un dono ricco di opportunità e di percorsi inesplorati prima della malattia. Si tratta di un’offesa per tutti, ma in particolare modo per chi vive una condizione di malattia, che introduce nelle persone più fragili il dubbio di poter essere vittima di un programmato disinteresse da parte della società, perché no anche dei medici, e favorisce decisioni rinunciatarie.

In questi tempi in cui si parla sempre più, con scarsa chiarezza, di diritto alla morte, del principio di autodeterminazione, di autonomia del paziente, si deve invece lavorare sul riconoscimento della dignità dell’esistenza di ogni essere umano che deve essere il punto di partenza e di riferimento di una società che difende il valore dell’uguaglianza e si impegna affinché la malattia, e tutto ciò che ne consegue, e la disabilità non siano o diventino criteri di discriminazione sociale e di emarginazione. Il dolore e la sofferenza (fisica, psicologica), in quanto tali, non sono né buoni né desiderabili – lo dico da medico, da uomo e da paziente – ma non per questo sono senza significato: è qui che l’impegno della medicina e della scienza deve concretamente intervenire per eliminare o alleviare il dolore delle persone malate o con disabilità, per migliorare la loro qualità di vita ed evitando ogni forma di accanimento terapeutico. Questo è un compito prezioso che conferma il senso della nostra professione medica, non esaurito dall’eliminazione del danno biologico. Diritto di morire o libertà di vivere? Eutanasia o accanimento terapeutico? Autodeterminazione o relazione clinica? Di fronte a questi interrogativi non bisogna perdere di vista il nucleo del problema: la vita umana, l’essere umano, la persona. Si dovrebbe guardare alla vita umana come mistero non riducibile al suo livello biologico e non manipolabile da nessuno. È una questione totalmente e radicalmente ‘laica’ che ha riguardato e riguarda ognuno di noi. Basta affermazioni del tipo nutrizione ed idratazione sono atti terapeutici, no, sono semplici strumenti di supporto vitale. Dovremmo essere anche noi medici a contribuire, insieme alle Istituzioni, a rinsaldare nel nostro Paese la certezza che ognuno riceverà trattamenti, cure e sostegni adeguati.

Si deve garantire al malato, alla persona con disabilità e alla sua famiglia ogni possibile, proporzionata e adeguata forma di trattamento, cura e sostegno così come il nostro apparato giuridico già prevede. Dunque gli strumenti esistono, ma è necessario utilizzarli, fare in modo che le persone siano a conoscenza e che la classe medica li attui nel modo più corretto possibile.

Quotidianamente vengono fornite risposte concrete ai differenti problemi posti dal dolore e dalla sofferenza legati al percorso delle malattie: risposte che vanno e devono essere fatte valere sempre, che devono coincidere con una concreta e reale presa in carico del paziente, che possono certamente essere implementate e potenziate e che sono l’esplicita negazione dell’eutanasia, del suicidio assistito e di ogni forma di abbandono terapeutico.
*Assessore alle attività produttive, ricerca e innovazione di Regione Lombardia e presidente di Arisla, Fondazione Italiana di ricerca per la Sclerosi Laterale Amiotrofica

avvenire.it