Lo stile di Gesù e il ministero della Chiesa


Lo scorso giovedì 18 maggio, nella cattedrale di San Pietro a Bologna, don Giuliano Zanchi, teologo, docente all’Università Cattolica e direttore della Rivista del clero italiano, ha tenuto una meditazione per il clero della diocesi felsinea

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Ringrazio di questa occasione che mi viene offerta di condividere, in un contesto così solenne, qualche pensiero in una forma a metà strada fra la conferenza e la meditazione, nella quale voglio introdurmi con il tono della confidenza personale, sperando che non porti con sé apparenze narcisistiche.

Lo stile di Gesù
Quest’anno sono prete da 30 anni. Queste cifre tonde, che noi celebriamo con una solennità che personalmente mi imbarazza sempre, sono in fondo delle convenzioni. Noi umani cerchiamo di prendere sul tempo la vita fissando delle soglie. Una finzione commovente. In effetti queste soglie (e le cifre tonde in cui vengono poste) assumono la consistenza di un punto magnetico della coscienza, in cui viene istintivo fare bilanci, guardarsi indietro, guardarsi intorno, riprendere il filo di quello che si era, cercarsi in quello che si è diventati.

E il mio sentimento di oggi è che sono contento di essere prete (col permesso di non scomodare il termine «gioia» che non mi piace usare, perché mi sembra ormai carico di un felicismo artificiale e sentimentalistico in cui non mi riconosco). Sono contento di aver conferito alla mia vita questa forma. Sono contento di essere prete, soprattutto adesso, dopo tanti anni, e dopo i molti disincanti (alcuni anche profondi) che hanno accompagnato le mie molte ingenuità di partenza.

Devo dire che la convinzione si consolida col disincanto, perché si libera delle immaginazioni magiche di un ideale da realizzare con le proprie idee e secondo le proprie aspettative. Non significa non avere delle tensioni ideali o rinunciare allo slancio di uno stile. Significa trovare unità in qualcosa di meno volatile e più profondo (persino più gratificante) che, per me, consiste in questo: essere prete è stato il mio modo di diventare cristiano (e non il contrario). Sono grato al ministero perché sono sempre più contento di essere cristiano.

In questo tempo, nel quale le visioni della vita e i modelli umani si affollano in un caleidoscopio non sempre discernibile, vedere la vita e interpretare l’esistenza nella forma cristiana legata alla straordinaria umanità teologale di Gesù mi sembra una fortuna, una soddisfazione, una grazia (anche culturalmente); che per me non significa indossare una divisa e tenere in mano una bandiera: ma poter contare su un riferimento solido che, prima ancora di rendermi eventualmente testimone, mi fa sentire graziato. Sentirsi graziati consente di essere testimoni in un certo modo: non insistente, non molesto, non arrogante, non militante.

Negli ultimi anni mi sento sempre più attratto da certe parole di Paolo che mi sembrano interpretare bene questo mio senso di gratitudine, e in particolare quella parola che si trova in Filippesi 2,5 che dice: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù».

È una frase che – come si sa – introduce uno di quegli inni che fondano da subito i tratti essenziali della fede cristologica, a vent’anni dai fatti e secoli prima dei concili dogmatici. «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (si potrebbe aggiungere, gli stessi pensieri, gli stessi atteggiamenti, gli stessi slanci, lo stesso stile, insomma): invito che personalmente associo sempre con maggiore convinzione al senso più genuino che si può attribuire al termine «pastorale», inteso come esercizio sul campo del ministero della Chiesa e, quindi, anche dell’avventura sinodale con cui si cerca di rimettere a fuoco in modo condiviso le attuali condizioni di esercizio di un tale ministero. Avventura sinodale che resta un’operazione ingegneristica se non viene pensata alla luce dello stile di Gesù, ma che si rivela essenziale, doverosa e urgente, se invece la si considera su questo sfondo.

Riappropriarsi dello stile di Gesù. Il quale camminava con la gente prima ancora che la grande Chiesa anatolica di stampo greco inventasse la parola «sinodo», che significa, come si continua a ripetere un po’ retoricamente, «camminare insieme». Perché la scena originaria della Rivelazione di Dio in Gesù ha proprio questa forma. Trent’anni di silenziosa abitazione nei fondamentali delle cose umane (la vita di Nazaret), e poi uno stare per strada immerso in una compagnia composita, che non è solo fatta di discepoli ma anche delle folle.

La grazia per gli sfiduciati
Qui mi limito a raccogliere alcune suggestioni di Pierangelo Sequeri in merito alla questione (Iscrizione e rivelazione, Queriniana, 2022). Gesù, i discepoli, le folle. La rivelazione della grazia e la testimonianza della sua accessibilità si danno solo nella concomitante presenza di queste figure.

Non si può fare un cristianesimo basato su un rapporto esclusivo fra Gesù e i discepoli, e quindi neanche la Chiesa, perché questo configura subito un elitarismo che restringe arbitrariamente le condizioni della grazia. Non si può nemmeno fare un cristianesimo in un rapporto esclusivo fra Gesù e le folle senza la giusta mediazione dei discepoli, perché crea subito le condizioni per una socializzazione superstiziosa del sacro (Gesù infatti, quando le folle cercano miracoli e non comprendono i segni, si sottrae dalla loro pressione). Tantomeno, si può fare un cristianesimo basato esclusivamente sul rapporto fra discepoli e folle, perché questo anima subito i principi attivi del «clericalismo» e predispone i caratteri di una religione civile.

Il cristianesimo – quindi la Chiesa e il suo ministero – si fanno quando i discepoli comprendono le ragioni e le responsabilità del Regno imparando dal modo con cui Gesù incontra le folle, questa congerie di umanità varia ed eventuale nella quale c’è davvero di tutto, buoni e cattivi, giusti e peccatori, semplici e dotti, donne chiacchierate e amministratori corrotti, gli ingenui e gli scaltri, chi desidera Dio e chi cerca miracoli, un po’ di stranieri, molti marginali, qualche eretico, uomini di potere e uomini di intelletto, padri disperati e madri irriducibili.

Questa platea appare così ampia e composita perché, nella scena originaria della rivelazione, la grazia di Dio è per le folle, non per i discepoli. L’annuncio del regno di Dio è per gli sfiduciati, per chi si è convinto di essere lontano da Dio, per quelli che si sentono squalificati dai tabù religiosi, quelli che sono prigionieri del male, per i vinti della storia, per quelli che la specializzazione religiosa dell’istituzione ha convinto di essere inadeguati.

Insomma, una folla che gravita su un’orbita molto esterna, in cui si muove il «cittadino medio», insieme al marginale, a quelli dalla reputazione compromessa, dalla vita umiliata, dalla speranza vinta. Non è sempre gente candida. Hanno spesso una nascosta coscienza delle proprie responsabilità. Ma non trovano nella religione il luogo del loro riscatto. Salvo quando arriva Gesù e dice che la grazia di Dio è per loro.

Toccati dal Signore
Tra questi ci sono gli esempi più luminosi di chi riconosce Dio nel tocco di Gesù, senza bisogno di dire come Pietro «Tu sei il Cristo!», ma guadagnandosi la parola di Gesù che dice «la tua fede ti ha salvato!». Non devono dimostrare il pieno possesso di una ortodossia, vengono accolti per l’intensa immediatezza del loro affidamento, per confuso che sia. E la scuola a cui Gesù aggrega i discepoli non serve tanto per abilitarli a dire «Tu sei il Cristo!» (che in realtà nel momento di dirlo sono già nella situazione di equivocare e poi, come si sa, di tradire), quanto piuttosto per riconoscere quelle storie in cui poter dire insieme al Maestro «la tua fede ti ha salvato!».

Mi pare che questo Sinodo, in qualunque metodo lo si voglia condurre, non abbia comunque la finalità di serrare le fila dei discepoli, ma di rimettersi in cammino con le folle (semmai proprio questo cammino può portare a ricompattare la comunione). Passare con Gesù in mezzo alla vita e poter essere segno della grazia di Dio, non dei confini della religione, perché questa differenza le «folle» la capiscono al volo, la colgono per istinto, anche quella parte di folla che ancora abita la chiesa ma non sente più l’emozione di essere toccata dal Signore.

Il Sinodo scommette sull’idea che tutta questa gente, anche se non parla perfettamente la lingua della religione e dell’ortodossia, ha qualcosa di vitale da dire sulla qualità spirituale del nostro essere raccolti nella chiesa e mandati nel mondo.

Il ministero della chiesa consiste nell’essere il luogo dove tutti possono sentirsi toccati dal Signore, non monitorati da una istituzione. E questo ministero, per molte ragioni storiche e culturali, ha pesato per secoli (almeno gli ultimi quattro o cinque) direttamente sul ruolo del prete, in modo pressoché esclusivo, con i limiti che conosciamo e che ora si stanno rivelando nei loro importanti effetti collaterali.

Ora nella chiesa torna l’idea che questo ministero appartiene alla chiesa nella sua interezza e nella sua integrità, e si sente il bisogno e il desiderio di declinarlo secondo responsabilità nuove e plurali, che onorino il sacerdozio battesimale di molti laici e di molte donne che già ora svolgono ministeri di fatto che edificano la chiesa. Stando attenti a non limitarsi a una mera estensione di ruolo da una categoria all’altra, perché potrebbe significare semplicemente socializzare dei limiti, più che generare opportunità nel ministero.

Un compito da onorare
Al di là delle risposte concrete, sulle quali si discute e pure ci si divide, resta il tema di fondo di rendere la chiesa una casa e non una caserma, un luogo dove incontri il Signore e non dei burocrati del sacro. Il Sinodo, mi pare, sta recependo dallo scambio delle chiese e dal senso dei fedeli alcuni nuclei di conversione molto chiari e molto diretti, che possono essere sintetizzati in queste tre espressioni: parole vere, relazioni rispettose, economie leggere.

Parole vere non significa più aderenti all’ortodossia (come se blindare le formule potesse rendere un discorso più persuasivo), ma più autorevoli nella loro pretesa di illuminale la vita con la luce della rivelazione evangelica. Persino da dentro la chiesa si percepisce il tarlo dell’insignificanza che sta cogliendo la parola cristiana (che significa più ampiamente i suoi linguaggi, la sua cultura, il suo pensiero, le sue retoriche, le sue formule) e la trasforma in un gergo religioso che non sostiene più quelli dentro ed è alieno per quelli fuori.

Relazioni rispettose significa prendere sul serio la parola di Gesù che dice, nel suo nuovo comandamento, «amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi, da questo riconosceranno che siete mei discepoli». Il tratto della fraternità è il vero differenziale della verità della testimonianza. Una chiesa in cui non ci si tratta bene mette in circolazione cattivi spiriti, che scorrazzano facendo danni per tutti. Le relazioni nella chiesa devono diventare più mature, inclusive e accoglienti. In modo concreto però, non solo ideale. Spiritualmente, non spiritualisticamente.

Economie leggere, significa una serie di questioni che sono sulla bocca di tutti, in questo tempo di dismissione materiale e di qualche disavventura morale. Nella redazione lucana degli insegnamenti di Gesù circa la missione ci sono già le ingiunzioni più essenziali. L’equipaggiamento del testimone deve essere leggero e l’accudimento che pure si merita, per il lavoro che fa, deve avere i suoi limiti (fatevi ospitare da qualcuno per il pranzo, ma non fate il giro delle case).

Questo avvertimento è ora un pesante onere di attualità. Andrà onorato non solo per il sollievo di una organizzazione sostenibile dell’istituzione ma soprattutto per la tutela di una rettitudine che fa da sola tutta la reputazione di una testimonianza.

Su questi temi la «conversazione spirituale» attivata nelle chiese sembra essere concorde, convergente, insistente e accorata.

Intercessori
Tutto questo va affrontato non per essere nuovamente dei conquistatori, ma per agire più intensamente come intercessori, come devono sempre essere dei ministri veri, specie in un contesto nel quale il desiderio di Dio è più un brusio di fondo che un linguaggio comune. Mi viene in mente, per sigillare questa meditazione con un’icona biblica, la scena di Esodo 32 nella quale Mosè discute con Dio delle sorti del popolo e dell’alleanza (Es 32,7-14).

Si tratta di un dialogo che arriva dopo la proclamazione del decalogo in Esodo 20, che non sono solo i dieci comandamenti sintetizzati in frasi dal nostro catechismo, ma 22 lunghi capitoli in cui dalle parole fondamentali dell’alleanza discende anche tutta una costruzione etica e religiosa che nel testo viene fatta illustrare a Mosè direttamente da Dio, e che comprende anche tutto il sistema del culto, le feste, il santuario, la tenda, l’arca, i vestiti sacerdotali, la dimora, il candelabro, l’altare, l’investitura dei sacerdoti. Insomma, tutto l’armamentario «ecclesiastico» così solenne e che sembra così indispensabile.

Ma al culmine di tutto questo il popolo ha voluto, col vitello d’oro, farsi una sua immagine di Dio. Allora Dio perde la pazienza, e parlando con Mosè gli propone di abbandonare a sé stesso questo popolo totalmente insensibile e ricominciare da solo con lui. «Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li distrugga. Di te invece farò una grande nazione», dice Dio a Mosè.

Non vi sembra descritto benissimo l’umore delle nostre ferite ecclesiastiche e le sue tentazioni più istintive, di abbandonare polemicamente il mondo a sé stesso? Ma Mosè non si lascia lusingare da questa prospettiva, in cui aleggia una forma di salvezza e di elezione indegna di un uomo (mi salvo io perdendo tutti). Allora discute con Dio. Tra le righe sembra dirgli che se abbandonerà questa gente nemmeno lui lo seguirà. Sarà anche gente ottusa, insensibile e malevola, ma una promessa è una promessa, e se Dio la abbandonerà, lui, Mosè, non lo seguirà.

Allora succede che Dio cambia idea, un po’ come quando una donna straniera, parlando di briciole e cagnolini, fa cambiare idea a Gesù. Ed è formidabile che nei nostri testi sacri ci sia il tema di Dio che cambia idea quando incontra delle ragioni umane. Il nostro mondo e la nostra epoca saranno anche «un popolo dalle labbra impure», ma sono pur sempre quell’umanità dalla quale non ci sentiamo di poterci separare e nella quale teniamo viva la brace delle promesse di Dio.

Ecco, il Sinodo deve svolgersi che sotto il segno di questo tratto intercessivo. Dovrà fare anche molte cose concrete. Ma potrà farle sinceramente solo se attraversato da questo sentimento.