Lo spazio dei giovani. E dei credenti RIDIAMO VOLTO ALLA SPERANZA

Come sa chi insegna a ventenni appena usciti dal liceo e dalla pandemia, quando si comincia a porre loro domande sul futuro le risposte sono piuttosto dure. Una delle studentesse dice: come si fa a essere innamorati di questo tempo? È un tempo cattivo, non c’è nulla da prendere. Quando provoco dicendo che non pensino che essere giovani sia una questione anagrafica, ma che giovani bisogna diventare, si stupiscono, si irritano, vogliono che mi spieghi meglio.

Cerco di raccontare loro di Osip Mandelstam, del suo essere innamorato del suo secolo, di Walter Benjanim, testimone del suo tempo e di spiegare che non erano certo anni facili, i loro. C’è di mezzo l’equivoco del mio essere un boomer, nato in tutto un altro tempo, c’è l’imperdonabilità di una generazione, la mia, che ha avuto la vita facile, la speranza facile, great expectations, grandi orizzonti: gli anni 60 e 70 del Novecento, insomma. La reazione degli studenti di oggi è diffusa e variegata. La si trova nel cinismo di tanti loro coetanei, ma anche nelle parole della diciottenne Greta Thunberg, nella disperazione di molti dei Fridays for Future. Greta giustamente dice: «Le abbiamo tentate tutte, ma il mondo non sembra avere la minima intenzione di ascoltare l’allarme». La tentazione di mollare tutto o quella, opposta, di scontrarsi sempre più violentemente è solo una conseguenza.

Viene da pensare che questa tentazione ha preso altre generazioni prima di loro. Agli albori delle campagne ecologiste, sessant’anni fa, un grande “resistente” e scrittore, Edward Abbey, autore di Desert Solitaire, aveva scritto un romanzo su una gang di guastatori ecologisti The Monkey Wrench Gang (un termine che indica una grossa chiave inglese) che sabotava bulldozer e macchine asfaltatrici per bloccare progetti di distruzione della wilderness, della natura selvaggia. Rispetto a quei tempi le cose sono peggiorate, lo sappiano bene noi che c’eravamo, lo sanno i ventenni. E allora come è possibile dire loro che c’è una funzione umana che è la base dell’azione, della vita attiva, che si chiama speranza? Come farlo senza essere presi e senza prenderli in giro? Scherziamo?

Sperare? Se è il sinonimo di essere ottimisti non ci siamo proprio. Ogni sano realista sa che non ci sono le premesse per esserlo.

Come ci ha insegnato Ernst Bloch, il peggior nemico della speranza è l’ottimismo, e infatti questo è un valore per il capitalismo e riguarda semplicemente il profitto (che qualcuno s’illuderà di accumulare sempre, anche se costa la fine del mondo). E allora, riprendendo un antico dibattito, cosa è spes?

Una strana incarnazione della propensione umana a proiettarsi in avanti. Cosa è, invece, hope? Un vocabolo che è meno intriso di implicazioni teologiche? Mi piace pensare che hope – parola e concetto inglesi – sia anche un piccolo approdo, una baia minuscola, l’idea che per sperare basti uno shelter from the storm, un rifugio dalla tempesta.
In questa costellazione speranza cosa c’è di proponibile ai ventenni? Me lo chiedo di nuovo. Anni fa volevo realizzare un documentario sulla speranza, intervistando i militanti di Greenpeace, il gruppo che forse più di tutti tra gli ambientalisti è armato di un sano realismo: conducono azioni di sabotaggio di baleniere e di intralcio di raffinerie, ma fanno anche un sano black-mail (ricatto morale) a ogni tipo di industria inquinante oltre che ai politici di turno per far perdere loro la faccia in pubblico e costringerli a miglior misure. È un lavoro certosino, paziente, niente grandi utopie, ma smantellamento del male e costruzione del bene dove e quando è possibile. Una versione immanente della speranza, di una speranza possibile: una piccola baia, appunto. Ci sono persone che sanno bene che il pianeta è molto compromesso, ma invece di pensare che è meglio godersi i resti come fanno tutti, si rimboccano le maniche e dicono: può darsi che questi cambiamenti ne portino altri, non perdiamo tempo. Ed è anche l’atteggiamento di Greta, peraltro. Ai politici questo interessa poco, soprattutto a quelli italiani, per non parlare di certi gaffeurs di professione che dovrebbero rappresentare i Verdi in vari Parlamenti. Perché i politici diventano spesso dei cinici professionisti e in più sono affetti da altri problemi di estinzione, ma personali, come tanti piccoli panda con la poltrona.

Volgiamoci, però, un attimo alla speranza teologale. Non vi sembra che oggi essa sia molto poco il tema che potrebbe rinverdire del mondo cattolico italiano? Non sarebbe bello se in un momento in cui l’Apocalisse fa sentire il suo profumo di bruciato fossero proprio coloro che hanno motivi “più ampi” per sperare che se ne facessero i garanti? La speranza è una virtù, nel senso che non dipende da contesto o circostanze, ma dall’individuo che se ne fa garante. Proprio perché non c’è nulla di buono da aspettarsi, per questo pongo me stesso come motivo per sperare, la mia presenza, il mio operare, il mio “nonostante”. Dal punto di vista antropologico è qualcosa che è sempre accaduto, nelle situazioni più disperate, nell’estinzione di gruppi nativi, nell’ultimo indiano c’era la convinzione di un altrove di ricomposizione, ripresa, rinascita. Sono spesso i popoli indigeni a essere testimoni di una capacità di resistenza contro ogni evidenza. Si pensi ai Karabbing Film Collective, una famiglia aborigena australiana composta da uomini e donne, anziani e bambini che raccontano la propria vita “dentro” la catastrofe ambientale in cui sono costretti a stare, spesso in terre inquinate e radioattive, dove rimettono in vita il proprio tessuto di legami, risorse, antenati e animali fondatori, dove lottano con gli zombies delle discariche e i sogni del proprio esserci da millenni.

Mi piacerebbe capire se è possibile anche da noi lanciare un nuovo, vasto movimento che si prenda cura gelosamente della speranza e ne faccia la propria bandiera. L’importante è che sia fatto senza compromessi col vecchio e con il sano realismo dei ventenni: non diteci nulla, non mettete le mani su qualcosa in cui solo noi, che abbiamo perso buona parte delle illusioni, possiamo avere il monopolio. Sarebbe una occasione per dare finalmente volto e corpo nuovi e giovani a una virtù tanto invecchiata.

Franco La Cecla

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Copyright © Avvenire