Livatino, laico esemplare

di: Vincenzo Bertolone
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«Di nuovo ci troviamo di fronte a moltitudini di persone, nostri fratelli e sorelle, i cui diritti fondamentali sono violati, anche in seguito all’eccessiva tolleranza e persino alla palese ingiustizia di certe leggi civili: il diritto alla vita e all’integrità, il diritto alla casa e al lavoro, il diritto alla famiglia e alla procreazione responsabile, il diritto alla partecipazione alla vita pubblica e politica, il diritto alla libertà di coscienza e di professione di fede religiosa».

Sono battute della Christifideles laici, n. 5. Il 30 dicembre 1988 papa san Giovanni Paolo II promulgava quell’esortazione apostolica su vocazione e missione dei laici nella chiesa e nel mondo, a conclusione del Sinodo dei vescovi, celebratosi nel mese di ottobre del 1987.

Livatino, frutto insanguinato della vite

Sembra quasi un manifesto per rileggere la testimonianza martiriale di Rosario Angelo Livatino, ucciso in odio alla fede dal convergere cruento delle mafie stiddare, non senza il “nulla osta” di Cosa nostra.

Completando l’ultima stazione della sua via crucis terrena – come ho scritto in un recente volume edito nel 2023 da Velar – il laico cristiano Rosario Angelo Livatino – che viene liturgicamente commemorato ogni 29 ottobre – stava percorrendo dolorosamente una propria consapevole via laicale, in piena sintonia con la passione e morte di nostro Signore Gesù Cristo, fino al momento del trapasso, che la Chiesa ha giudicato un vero martirio, perpetrato in odium fidei e da quel martire siciliano consapevolmente assunto come definitivo momento di testimonianza e di vittoria nella fede, sancito nel sangue offerto per Cristo, con Cristo e in Cristo.

La mattina del 21 settembre 1990, mentre si recava senza scorta con la sua Ford Fiesta da Canicattí ad Agrigento, Rosario Angelo Livatino cadde, infatti, vittima di un agguato mafioso messo in atto da un commando manu militari.

Dopo gli esami medico-legali, fu sepolto il giorno seguente nella tomba di famiglia a Canicattí. «La vita di Rosario è un percorrere la quotidiana e agonica via della virtù e dell’ascesi: condotta irreprensibile e ricerca ascetica, infatti, sono già martirio incruento, subito a motivo delle conseguenze dell’essere cristiani nella sfera pubblica. L’esistenziale conflittualità con la mafia in Rosario ha dunque origine non nell’esplicita confessione della fede cristiana o del nome di Gesù, ma nei valori ad essa sottesi, in particolare della pace e della giustizia, dell’amore del prossimo e della solidarietà con i nuovi poveri e oppressi».[1]

Era un “santocchio”

Nel mio servizio di postulatore dell’inchiesta suppletiva per la beatificazione, ho sostenuto che, in base alla documentazione in Atti, è possibile ricostruire bene la vicenda che portò all’uccisione del giudice Livatino.

Nell’agosto 1990 le due Stidde di Canicattì e di Palma di Montechiaro – rami autoreferenziali di mafiosi delle due città con capi fuoriusciti da Cosa Nostra e in qualche modo partecipi della stessa logica delinquenziale – decisero di assassinare Rosario Angelo Livatino perché da tempo egli “dava fastidio” con le sue inchieste.

Puzzangaro, nella sua testimonianza, dice che Livatino appariva ai mafiosi meno duro con Cosa Nostra di quanto non lo fosse con le Stidde; e che comunque l’omicidio da parte delle Stidde doveva essere una dimostrazione di forza nei confronti di Cosa Nostra stessa, contro l’intransigenza e incorruttibilità nell’azione giudiziaria del magistrato.

Sul fatto della rivalità tra Stidde Cosa Nostra, vi è pure la testimonianza del principale committente dell’agguato; seppur in carcere, anch’egli fu compartecipe dell’omicidio.

Da tempo Livatino veniva pedinato nei suoi spostamenti, tanto che si conoscevano con precisione le sue abitudini, compresa quella di frequentare la chiesa per la sua preghiera quotidiana: “Era uno che andava in chiesa a pregare, uno scimunito, un santocchio”.

Deciso e ordinato l’omicidio da parte dei capi, la mattina del 21 settembre 1990 Puzzangaro con un altro giovane su un’auto Fiat Uno bianca e altri due con una motocicletta, si appostarono sulla strada statale 640 che va da Canicattì ad Agrigento in attesa che passasse Livatino.

I sicari con la Fiat Uno bianca seguirono l’auto del magistrato, poi l’affiancarono e chi si trovava nel sedile posteriore sparò al Livatino. Subito dopo giunsero anche gli altri due sicari in moto. Ferito, il giudice uscì dalla sua macchina, dirigendosi verso la scarpata, dove i due della moto lo raggiunsero e lo finirono, sparandogli gli ultimi colpi mentre egli era già accasciato a terra.

Il martire ebbe solo il tempo di dire, quasi riprendendo le lamentazioni profetiche di Michea: “Che cosa vi ho fatto, picciotti?”. La risposta furono gli ultimi spari alla testa e in bocca con un gesto di feroce violenza, accompagnati da uno sprezzante e volgare: “Tieni, pezzo di merda!”.

Giuseppe D’Avanzo, su Repubblica del 23 settembre 1990, è davanti al cadavere, certamente non bello, anzi sfigurato, del giovane magistrato: «L’eroe nazionale è ridotto come un fagotto sul tavolo di marmo dell’obitorio. La morgue è dietro l’ospedale di Agrigento, in uno scantinato, due stanzucce spoglie. Nella prima c’è un telefono che non la smette di squillare. Nella seconda c’è quel che resta di Rosario Angelo Livatino, giudice della Repubblica. Pietose mani hanno fatto quel che hanno potuto per cancellare da quel volto di ragazzo le offese degli assassini. Non ci sono riuscite. Né potevano. Quel largo cerotto su quel volto dagli occhi chiusi è scolpito per sempre l’orrore di una morte che lo ha inseguito a lungo in un vallone, al quale ha tentato di sfuggire, che lo ha vinto alla fine di quattro lunghissimi minuti. Un largo cerotto copre pietosamente il risultato del penultimo proiettile calibro 9 sparato tra il labbro superiore e il naso. Un cerotto più discreto fa quel che può per nascondere il colpo di grazia esploso, a bruciapelo, alla testa di Rosario. Il vestito della festa, il vestito di cotone blu nel quale è stato composto, non sa nascondere il corpo umiliato del giudice».

Davanti alla tomba che ne custodisce i resti mortali nel cimitero di Canicattì, in attesa della traslazione in una chiesa, noi contempliamo la sua testimonianza martiriale e cogliamo gli stimoli per la trasformazione personale e sociale della Chiesa e, in essa, del laicato. Un laicato combattente senz’armi, come quello teorizzato e praticato da Livatino.[2]

Originale incarnazione della laicità

Ricorda proprio Christifideles laici che il Concilio, con il suo ricchissimo patrimonio dottrinale, spirituale e pastorale, ha riservato pagine quanto mai splendide alla natura, dignità, spiritualità, missione e responsabilità dei fedeli laici.

I Padri sinodali hanno potuto costatare come lo Spirito abbia continuato a ringiovanire la Chiesa, aiutando i laici a vincere: «Due tentazioni alle quali non sempre essi hanno saputo sottrarsi: la tentazione di riservare un interesse così forte ai servizi e ai compiti ecclesiali, da giungere spesso a un pratico disimpegno nelle loro specifiche responsabilità nel mondo professionale, sociale, economico, culturale e politico; e la tentazione di legittimare l’indebita separazione tra la fede e la vita, tra l’accoglienza del Vangelo e l’azione concreta nelle più diverse realtà temporali e terrene» (Ch. L., n. 2).

Nella riservata, nascosta, ma attivissima vita di magistrato prima inquirente e poi giudicante (lo riconobbe lo stesso CSM), Rosario Livatino stava interpretando a suo modo quest’appello di Cristo a lavorare nella sua vigna, cioè a prendere parte viva, consapevole e responsabile alla missione della Chiesa in quest’ora magnifica e drammatica della storia, nell’imminenza del terzo millennio: «È necessario, allora, guardare in faccia questo nostro mondo, con i suoi valori e problemi, le sue inquietudini e speranze, le sue conquiste e sconfitte: un mondo le cui situazioni economiche, sociali, politiche e culturali presentano problemi e difficoltà più gravi rispetto a quello descritto dal Concilio nella costituzione pastorale Gaudium et spes» (Ch. L.n. 3).

Riconoscerà il vicepresidente del CSM, Giovanni Legnini, nel corso del convegno “Rosario Livatino: Diritto, Etica e Fede”, riprendendo i nodi dell’ormai celebre relazione tenuta il 7 aprile 1984 a Canicattì da Rosario Livatino: «Livatino individua subito i quattro aspetti determinanti, allora come oggi, per definire il ruolo del magistrato nella società in vorticoso cambiamento, prospettando anche lucide soluzioni alle immense questioni poste. Cita, infatti: i rapporti tra il magistrato e il mondo dell’economia e del lavoro; i rapporti tra i giudici e la sfera del “politico”; l’aspetto della cosiddetta “immagine esterna” del magistrato; il problema della responsabilità degli appartenenti all’ordine giudiziario. E non si può non rimanere profondamente colpiti dalla perfetta coincidenza con i profili controversi che hanno investito la magistratura ordinaria nella contingenza storica che stiamo attraversando».

Ha detto un teste nel corso dell’inchiesta suppletiva: «Il martirio di fede è il martirio dell’uomo semplice, dell’uomo che non è protagonista, dell’uomo che fa il suo lavoro ispirato da una profonda fede e da una profonda giustizia espressa in maniera – uso questa espressione – innata, non artefatta. Una giustizia non imposta da una mania personale di essere importante e diventare protagonista. Lui ha dato a noi questo messaggio: “Noi siamo uomini semplici. Non dobbiamo agire per finire sui giornali, ma per un senso di dovere”. Le altre morti invece sono state pubblicizzate in maniera molto laica, rappresentano l’uccisione dell’uomo importante. La fama del martirio di Livatino sta, invece, travalicando qualsiasi livello e qualsiasi limite laico».

Tralci della vera vite

La fortezza, insieme con la temperanza, orientate dallo Spirito Santo, permettono a Livatino di discernere quanto conviene fare, il controllo della sua sensibilità e la sua partecipazione all’azione.

Precisa un teste de visu: «Era uno che riusciva a dominare le sue passioni e a controllare sé stesso. Non era mai ingiusto verso l’altro. Di fronte alle calunnie (e c’era qualcuno che gli voleva male, soprattutto quando andava a disturbare “certe persone”), non si faceva condizionare, andava per la sua strada. E questo sia nel suo lavoro sia nella sua vita in generale».

Se il terzo capitolo dell’esortazione apostolica Christifideles laici descriveva la corresponsabilità dei fedeli laici nella Chiesa-Missione, Livatino ne è l’incarnazione: uno che si rende ben conto che urge dovunque rifare il tessuto cristiano della società umana.

La logica dell’uccisione violenta di Livatino, che si mostra essere anche una logica di ritorsione contro la Chiesa e il suo insegnamento, di cui Livatino era fedele figlio e qualificato esponente (impegnato anche in parrocchia come catechista nei corsi pre-matrimoniali), si comprende meglio nella opposizione radicale e inconciliabile tra la formazione etica cristiana e apostolica di lui e la cultura aberrante della mafia nelle sue varie forme e organizzazioni, i cui connotati risultano da atti e documenti, specificamente a-religiosi, anzi irreligiosi.

Emerge netta la differenza tra la “durezza” di Livatino (proveniente dalla sua pratica delle virtù cristiane) e la “durezza assassina” dei mafiosi che ne determinarono, con l’agguato finale, la morte.


[1] Pio Sirna, Rosario Livatino. Identità, martirio, magistero, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2019, 114.

[2] Cf. Resistenza senz’armi. Rosario Angelo Livatino un magistrato per i nostri tempi, presentazione di papa Francesco; prefazione di card. Francesco Montenegro; postfazione di mons. Damiano Alessandro, 2021