L’incontro come stile di vita

di Vittoria Prisciandaro
  

Fondatrice del Centro studi sull’islam dell’Università di Glasgow, in Scozia, la teologa musulmana Mona Siddiqui è una donna di fede destinata a "fare notizia". Cittadina europea, ma legatissima alle sue origini pakistane, crede nell’inclusione e nel dialogo.
  

Teologa e musulmana anglo-pakistana, look elegante ed eloquio spigliato, Mona Siddiqui è uno di quei personaggi che non sarà difficile ritrovare nei dibattiti internazionali, dalla televisione al web, dalla cattedre universitarie ai magazine. Di recente è stata a Roma, invitata a tenere una conferenza sul dialogo fra le religioni organizzata dall’Angelicum e dalla Russell Berrie Foundation. Fondatrice del Centro di studi sull’islam dell’Università di Glasgow, parlando de La prospettiva islamica su ebraismo e cristianità, Siddiqui, che aveva come interlocutore il rabbino Jack Bemporad del Center for Interreligious Understanding del New Jersey, ha spiegato che la "sua" teologia islamica si configura come una teologia dell’inclusione, il cui punto di partenza è la compassione e non la salvezza. «L’unitarietà e la diversità dell’umanità sono temi che coesistono nel Corano e possono essere interpretati a supporto tanto di rivendicazioni inclusiviste, quanto esclusiviste». Scegliere l’una o l’altra strada significa aprire o chiudere la porta alla possibilità del «dialogo e di una convivenza pacifica fra popoli di fedi diverse», giacché la vera sfida del pluralismo è «convivere nella quotidianità, traducendo la teologia nella vita pratica». Se si vuole guardare alle Scritture per promuovere «giustizia, rispetto e dignità», allora «questo non può essere solo un dibattito teoretico, ma deve essere anche uno stile di vita», ha pragmaticamente spiegato la teologa. Prima della conferenza, nel giardino dell’Angelicum, Siddiqui ha rilasciato una lunga intervista a Jesus, sui temi caldi che in qualche modo entreranno anche nel dibattito del Sinodo dei vescovi, il prossimo mese di ottobre.

La teologa anglo-pakistana Mona Siddiqui a Roma.
La teologa anglo-pakistana Mona Siddiqui a Roma
(foto A. Giuliani/Catholic Press Photo/Periodici San Paolo).

  • Lei ha scritto che la violenza religiosa ha creato profonde divisioni nel mondo islamico. Non si tratta di un tema che contrappone islam e Occidente, ma di un’enorme questione all’interno delle società musulmane. Quali sono le linee del dibattito?

«Il mondo islamico è confuso e scioccato da ciò che è accaduto e continua ad accadere. Ci si chiede perché persone, musulmane, facciano queste cose e si rigetta la spiegazione che siano nel nome dell’islam. La maggioranza dei musulmani – sui siti web, attraverso vari media – non identifica l’islam con tutto questo. Siamo europei, americani, inglesi, non accettiamo questa violenza nel nome della nostra fede. D’altra parte, sia per i musulmani che per i non musulmani, è difficile capire cosa porti queste persone ad attuare tali atti di violenza».

  • Cosa pensano dell’Occidente la seconda e la terza generazione dei musulmani che risiedono nei Paesi occidentali?

«Non credo che la maggior parte dei musulmani nutra sentimenti ostili verso l’Occidente, ma piuttosto che stia cercando una strada per vivere la propria fede oggi, in particolare in quelle società in cui la fede può essere vista come qualcosa di eccentrico. Ci sono persone che probabilmente non si sentono a loro agio con la società occidentale, ma la loro vita è qui e qui devono imparare a stare al meglio. Penso ci siano problemi e argomenti diversi a seconda dei diversi Paesi europei. Non possiamo parlare dei musulmani come di un unico gruppo».

  • La minoranza musulmana in Occidente come considera l’impegno civile?

«Ci sono persone per le quali la cittadinanza è stata una sorta di agenda politica negli ultimi 5-6 anni: dietro c’era l’idea che l’essere cittadini rendesse i giovani, musulmani e non, più attivi nella società. Ma cos’è che ci fa sentire cittadino? Anche se si è nati o si è vissuti a lungo in un Paese, ci si può non sentire cittadini. Per alcuni, poi, è sufficiente rispettare le leggi e sentirsi a posto. Altri si chiedono perché fare più dello stretto necessario. C’è però una differenza tra l’essere un cittadino e l’essere un buon cittadino: quest’ultimo esige da sé stesso una maggiore partecipazione alla vita della società e non si limita passivamente a osservare la legge. Se siamo veramente impegnati nella società civile, ci chiediamo come possiamo migliorarla. Questo non riguarda la mia fede, ma il mio sentirmi parte di una comunità e in questo mi chiedo quanto lo Stato e i Governi aiutino le persone a sentirsi parte di una società. È un argomento molto importante tra i giovani, a prescindere dalla fede».

  • Come restare fedele alla propria religione senza tradire le altre?: che risposta si è data a questa domanda?

«Molti temono che se aprono il loro modo di pensare Dio a nuove idee, tradiscono la propria fede. Non sono d’accordo: sono interessata ad ampliare la mia visione, ai tanti modi in cui le persone celebrano Dio, a quanti dedicano la vita a Dio e non appartengono alla fede islamica. Mi chiedo come posso comprendere sempre più tutto questo, e non credo che conoscere meglio un altro mi possa confondere o condurre in errore rispetto alla mia fede. C’è la tendenza a ridurre la fede ad alcuni principi generali di tipo dottrinale, ma la maggior parte delle nostre interazioni umane non sono basate sul credo e sulla dottrina, quanto sull’idea di vivere alla presenza di Dio interagendo con Lui, con sé stessi e con gli altri, anche con chi è totalmente diverso da sé. Questo richiede un grande lavoro su sé stessi per guardare a quanti ci circondano non come musulmani e non musulmani ma solo come persone. La prima cosa è questa, soltanto dopo viene la dottrina».

I simboli delle tre religioni del Libro a un festival interreligioso vicino Haifa, in Israele.
I simboli delle tre religioni del Libro a un festival interreligioso vicino Haifa,
in Israele
(foto H. Isachar/Photoshelter).

  • Qual è il suo approccio teologico all’ebraismo e al cristianesimo?

«Di solito si pensa alla fede e al credo come a qualcosa di cristallizzato nei secoli, dimenticando che le fedi sono nate senza dottrina né dogmi. E quando si va ad analizzare come si è strutturata una religione, si scopre che tante influenze le hanno dato forma. Per me che sono cresciuta in un’istituzione accademica tradizionale, ci sono due grandi prospettive: una è la ricerca sul modo in cui come le Scritture e le fedi siano arrivate a essere entità a sé stanti; l’altra è il modo in cui le persone vivono in quanto credenti. Analizzando queste due prospettive, si scopre che ogni fede subisce tante influenze esterne. E quando il Corano parla delle relazioni passate, in particolare con giudaismo e cristianesimo, dobbiamo essere cauti e specificare a quale specifica comunità – cristiana, ebraica o musulmana – stiamo facendo riferimento. Oggi le comunità cristiane ed ebraiche riconoscono sé stesse nel Corano? E i musulmani cosa pensano quando si riferiscono a ebraismo e cristianesimo? Non basta dire che sono tutti popoli del Libro, bisognerebbe andare un po’ più in profondità, per capire cosa questo significhi rispetto al modo in cui ci accettiamo, non solo da un punto di vista di fede, ma come persone con le quali abbiamo un legame sociale. In una società globalizzata, dove le comunità e le culture vivono l’una accanto all’altra ma i giovani crescono avendo background differenti, dobbiamo essere realisti circa il tipo di società che vogliamo per le future generazioni».

  • Nei documenti preparatori al prossimo Sinodo dei vescovi sul Medio Oriente non si fa nessun accenno al dialogo teologico con l’islam, si preferisce parlare di dialogo della vita. Secondo lei, è possibile un dialogo teologico?

«Dipende da qual è la prospettiva quando si parla di dialogo teologico. È importante ricordare che il dialogo è per lo più un’iniziativa promossa dai cristiani, che viene dopo la missione, nel senso che diventa un altro modo con cui si presenta la fede cristiana, ma anche si conoscono altre fedi. Per me il dialogo non deve essere, implicitamente o esplicitamente, un invito alla conversione: non voglio essere convertita e non voglio convertire nessuno, ma ciò che voglio è conoscere di più la fede cristiana e quella ebraica, in modo da poter comprendere meglio la mia fede islamica. E devo dire che anche la maggior parte delle persone che incontro non sono interessate a "conoscere per essere convertite". Penso che sia molto importante che le fedi parlino alle fedi, anche se fedi differenti hanno linguaggi tanto diversi. Abbiamo però anche un vocabolario comune, con parole come Dio, profezia, salvezza… Ed è importante che riconosciamo che c’è qualcosa che ci unisce al di là di noi stessi. Fino a quando, però, la Chiesa cattolica, il mondo islamico, la Chiesa anglicana o chiunque non spiegheranno esattamente cosa intendono per dialogo, non credo che riusciremo a parlare con chiarezza».

  • Come teologa cosa si aspetta dal prossimo Sinodo della Chiesa cattolica?

«Poiché sono interessata al mondo delle fedi, mi interessa anche il dibattito che ci sarà in questo evento. So che c’è molta pressione, anche perché nel mondo politico ciò che dice e fa la Chiesa cattolica ha un suo peso. Ma rispetto al dibattito teologico, credo che le persone debbano muoversi al di là delle istituzioni».

  • A proposito di teologia: nel 2007 alcuni esponenti del mondo musulmano firmarono un documento intitolato A common word (Una parola comune) e indirizzato al Papa. Lei come ha considerato quell’iniziativa?

«Non ne ho firmato il testo, perché penso che dopo tanti anni di dialogo non era il caso di tornare sugli stessi temi, amore per Dio e per il prossimo. Forse l’idea era di far riconoscere alla Chiesa cattolica che il Corano è una rivelazione divina per i musulmani, e quindi ciò che viene dal Corano ha lo stesso credito di ciò che dice la Bibbia. Ma questo approccio non mi interessa. L’iniziativa A common word sta vivendo di vita propria nell’ambito del dialogo interreligioso, con conferenze e altre iniziative. Nel mondo accademico, comunque, per il fatto stesso che alcuni l’hanno firmata e altri no, ha provocato un interessante dibattito».

  • Da teologa e donna musulmana, che cosa pensa del dibattito sul velo che appassiona e divide l’Europa?

«Non porto il velo e non mi piace che oggi nel mondo moderno il dibattito sull’islam sia ridotto al problema "velo sì, velo no". L’islam ha molto di più da dire che non cosa indossare o non indossare. Per me è un circolo vizioso: il velo è diventato, volenti o nolenti, uno dei più potenti simboli dell’alterità in Europa. Vorrei che ci fosse un dibattito serio sull’argomento e poi si concludesse la discussione, smettendola di usare questo indicatore per definire una società conservatrice o liberale».

  • Altro tema molto dibattuto è quello della sharia e della poligamia rispetto alle legislazioni occidentali. Lei che cosa pensa?

«Sono assolutamente contraria ai matrimoni poligamici nel mondo arabo e nei Paesi islamici, dove tra l’altro sono previsti dalla legge. Nel mondo occidentale questo istituto non rientra nelle leggi e non capisco come possa essere riconosciuto. Qualunque siano le intenzioni delle persone, il matrimonio poligamico consente ogni tipo di abusi. E di solito le donne sono costrette a subire questo tipo di matrimonio, non lo scelgono certo di loro spontanea volontà».

Vittoria Prisciandaro

Jesus 9/2010