L’illusione dei superpoteri

di Laura Palazzani

Da sempre l’uomo tende a “migliorare” la sua condizione esistenziale. La novità, oggi, è che le recenti scoperte neuroscientifiche offrono inedite possibilità di “miglioramento” (enhancement) cognitivo. I cosiddetti farmaci potenzianti, generalmente usati per curare alcune patologie (per esempio, la sindrome del deficit di attenzione e disordine di iperattività nei bambini o disturbi del sonno), possono essere utilizzati da persone sane per aumentare concentrazione e memoria. Su internet aumenta la vendita di smart drugs o “pillole dell’intelligenza”, acquistate soprattutto da giovani in ambito universitario.
I bioeticisti già da tempo si interrogano sulla liceità dell’uso di farmaci “oltre la terapia”. Si può usare un farmaco, sperimentato per curare una specifica malattia, per “migliorare” chi non è malato? È lecito ricercare e sperimentare farmaci a scopo non terapeutico? Sono domande complesse, a cui non è semplice dare una risposta.
Soprattutto nella discussione bioetica anglo-americana si sono diffuse linee di pensiero favorevoli al “potenziamento”, come un mezzo per esaltare il potere di controllo sul proprio corpo e la propria mente, per plasmare la propria identità, per raggiungere il successo in una società che sembra sempre più selezionare chi ha un maggiore rendimento intellettuale e chi è più efficiente. Chi si schiera a favore dell’uso dei farmaci potenzianti si richiama a un concetto di salute soggettivo, ritenendo che sia legittimo assumere tutto ciò che ci fa “stare bene” e “stare meglio” a prescindere da una oggettiva condizione di malattia. Se si “può”, in tempi rapidi e in modo facile – solo ingoiando una pillola – ottenere il risultato che si desidera, si “deve” fare, perché ciò consentirà di migliorare non solo gli individui, ma la stessa specie umana.
Eppure sono molti i dubbi su tale prassi. Innanzitutto non c’è nessuna prova che tali farmaci migliorino le capacità intellettuali. Quello che si sa, invece, è che sono rischiosi: possono provocare danni gravi, anche irreversibili, sproporzionati rispetto ai benefici ottenibili.
L’uso di farmaci potenzianti rientra nella cosiddetta medicalizzazione. Ricorre, nella letteratura, una espressione nuova, “malattie di mercato”, per indicare i tentativi più o meno intenzionali della stessa industria farmaceutica di “creare” nuove malattie per instaurare un processo sociale in cui sempre più aspetti della vita quotidiana rientrino nella sfera medica, per vendere più prodotti. L’obiettivo è suscitare la presa di coscienza di tali nuove forme di malattia mentale da parte di medici e pazienti, per legittimare nuove forme di farmacoterapia, espandendo l’uso di farmaci “al di là” di quella che veniva considerata correntemente l’indicazione strettamente medica.
Ma è davvero così necessario usare farmaci per migliorare le prestazioni intellettuali? Oltretutto, ben sappiamo che è possibile, se si vuole, sviluppare naturalmente le proprie potenzialità mediante uno sforzo personale: lo studio, l’esercizio fisico, la regolarità del sonno, la sana nutrizione. Si tratta di un percorso che richiede tempi più lunghi, e forse offre risultati inferiori in termini di “successo”, ma che sviluppa la cognizione senza danneggiare, anzi migliorando realmente la salute.
Coloro che usano farmaci per aumentare la concentrazione e ridurre la distrazione possono anche (forse) incrementare le conoscenze (riducendo i tempi di assimilazione e di memorizzazione), ma non per questo divengono “più intelligenti”. L’intelligenza rimane una dimensione qualitativa che prescinde dalla intensificazione quantitativa di dati o nozioni.
L’assunzione di pillole è, insomma, una scorciatoia che altera e falsifica l’esperienza individuale e relazionale. Altera l’esperienza individuale in quanto raggiungere risultati in modo più rapido e meccanico rende i soggetti passivi, impoverendo l’autenticità dell’esperienza umana, oltre che la formazione del carattere e della personalità. Altera l’esperienza relazionale in quanto il “doping cognitivo”, analogamente a quello sportivo, costituisce un inganno nella competizione.
Si introdurrebbero nuove forme di discriminazione, non più solo tra dis-abili e abili, ma anche tra abili e super-abili (i potenziati), con gravi conseguenze sulla uguaglianza ed equità sociale. Una ragione, questa, che evidenzia la necessità e l’urgenza di una riflessione bioetica su questo problema emergente.

(©L’Osservatore Romano 7 febbraio 2013)